Il nostro cuore anela la felicità
Se guardiamo in profondità nel nostro cuore dobbiamo riconoscere che in esso c’è un anelito profondo di felicità. Conosciamo la celebre frase di sant’Agostino: «Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposta in Te». C’è ancora chi desidera e cerca la felicità, e chi invece si è rassegnato ad una vita cupa, cercando di gustare il più possibile le varie occasioni che la vita offre.
Come cristiani non è sufficiente credere che Dio ci ha creati per la gioia – e qui siamo sul piano logico-riflessivo -, perché dovremmo anche essere esperti – sul piano pratico-esistenziale – di essa. I santi erano persone gioiose. Si pensi da esempio a San Filippo Neri, alla sua gioia, allegria e bontà, tanto da essere ricordato come “il Santo della Gioia” o “il giullare di Dio”. Hanno scoperto il segreto della felicità autentica, che dimora in fondo all’anima ed ha la sua sorgente nell’amore di Dio. Perciò i santi sono chiamati beati.
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo…; un uomo lo trova…, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44): gioia come libertà
In questo notissimo brano evangelico centrale è la gioia, che è presentata come la reazione interiore alla scoperta del «tesoro», che è Cristo.
Anzitutto le due parabole, con le quali Gesù ci racconta il Regno, parlano di un uomo che quasi per caso scopre un tesoro (come avviene in certe esperienze di conversioni), e nella seconda di colui che cerca esplicitamente la perla più preziosa. Ora se un uomo cerca vuol dire che spera di trovare, e quando lo fa scopre è vero ciò che San Bernardo di Chiaravalle affermò: «Cercare Dio è essere cercato da Lui».
Questa ricerca implica la gioia, una gioia iniziale, quasi embrionale e non ancora manifesta, presente nel profondo del cuore, perché conseguente alla fiducia che il credente ripone in Dio, quel Dio che è mistero buono, non enigma impenetrabile, e si lascia cercare-trovare. E poi la gioia di chi ha trovato. Il quale è così «pieno di gioia» per la scoperta che non esita un attimo a liberarsi di tutti i suoi averi per acquistare il campo.
Tutta la nostra vita – e anche questo tratto che faremo insieme – è finalizzato alla ricerca del tesoro prezioso, di quella gioia vera che non è data dalle altre perle, per quanto preziose, ma da quella di valore inestimabile che fa impallidire le altre, cioè dall’incontro con Dio.
Una gioia paradossale: le beatitudini
La gioia cristiana è però paradossale. Ce lo dicono le beatitudini. Come è paradossale agli occhi del mondo l’amore di Dio che si è fatto carne ed è morto e risorto per noi. La vera gioia – e non i momenti di entusiasmo o di semplice benessere – scaturiscono dall’incontro con questo Dio paradossale, che vive nella propria carne le beatitudini. Per cui prendere sul serio le beatitudini vuol dire che capiamo che la gioia vera per la nostra vita si ha conformandoci a Gesù, il beato per eccellenza. Le beatitudini non sono solo la carta della vita cristiana, ma sono il segreto del cuore di Gesù stesso». Egli è stato l’unico vero povero in spirito e il solo che abbia vissuto integralmente ciascuna delle beatitudini. Queste ultime si realizzano pienamente nella croce. Sul Calvario, Gesù è stato assolutamente povero, afflitto, mite, affamato e assetato di giustizia, misericordioso, puro di cuore, operatore di pace, perseguitato per la giustizia…
Capiamo quindi che la beatitudine di Gesù, che desidera anche per noi, non è una felicità umana secondo l’immagine abituale, ma una felicità inaspettata, trovata in situazioni e comportamenti che non sono spontaneamente collegati all’idea di felicità. Una felicità che non è un’autorealizzazione umana, ma una «sorpresa di Dio», concessa proprio là dove si considera assente o impossibile. È una felicità trascendente, che Dio dona e che può essere accolta solo da un cuore nuovo, rinnovato dallo Spirito Santo (cfr. Ez 36,26).
Esiste infatti una relazione assolutamente essenziale fra le beatitudini e la persona dello Spirito Santo. Ognuna di esse suppone un’attività dello Spirito Santo, che solo può permettere al cuore dell’uomo di comprenderle e di viverle. La povertà, la mitezza, le lacrime, la fame e la sete di Dio, la misericordia, la purezza del cuore, la comunicazione della pace, la gioia nella persecuzione suppongono un cuore trasformato dallo Spirito.
In senso inverso, si può anche affermare che le beatitudini evocano situazioni umane difficili, ma che sono un’opportunità per chi crede, oppure suscitano un atteggiamento di rifiuto, di difesa, di chiusura. Nella misura in cui alla luce del vangelo prendiamo con fedeltà e fiducia la strada che esse indicano, ci rendiamo disponibili all’azione dello Spirito.
Il cristiano è colui che lentamente è cresciuto in questo sorprendente apprendimento esperienziale: ha imparato a godere proprio laddove l’uomo di solito non può che soffrire; a incrociare lo sguardo del Padre nel deserto della solitudine o dell’umana ingratitudine; a sentirsi da lui particolarmente custodito proprio quando si è abbandonati e traditi; prezioso ai suoi occhi quando non conti niente per nessuno; figlio suo pre-diletto quando la vita è violenta e chi hai amato ora ti si rivolta contro. Al punto che questa esperienza è divenuta sapienza, nel senso latino del verbo sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!
Un obiettivo della mia preghiera deve essere quello di chiedere a Dio di mostrarmi, in quella che è oggi la tappa della mia vita, qual è la beatitudine sulla quale devo incentrare maggiormente la mia attenzione e i miei sforzi e che sarà un po’ la chiave del mio attuale progresso spirituale.