L'inno all'amore in chiave coniugale

"L’amore è paziente, benevolo è l’amore; non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,4-7)

Gesù è il modello dell’amore sponsale. I coniugi devono amarsi “come Cristo ama la Chiesa” (Ef 5,25): l’avverbio greco kathòs, che traduciamo “come”, non rende tanto un complemento di modo, per il quale si usa generalmente os: qui, come in altri passi[1], usato in riferimento a Cristo, indica quasi un complemento di materia: “Amatevi dello stesso amore con cui Cristo ama la Chiesa”. Solo riempiendosi di quest’amore, solo radicandosi in Dio nella preghiera, nell’ascolto della Parola e mediante la partecipazione ai sacramenti, gli sposi riusciranno a colmarsi vicendevolmente, in ogni circostanza, di quell’amore di agape che è l’amore dativo, totale, sempre fedele, scevro di ogni egoismo, tenace e tenerissimo, che è proprio di Dio e che Cristo ci ha manifestato nella sua umanità.

Nel capitolo IV dell’Amoris laetitia Papa Francesco fa esegesi dell’Inno all’Amore di 1Cor 13,4-7. Ma l’amore a cui il Papa chiama gli sposi altro non è che essere uno per l’altro esperienza di Gesù stesso. Qualcuno potrebbe notare che l’inno all’amore di 1Cor 13 non parla di Cristo, tuttavia è anche vero che Paolo si è sforzato di riproporre ai Cristiani di Corinto, che erano tentati di strumentalizzare i doni dello Spirito per affermare sé stessi, l’esperienza di Cristo che ci ha salvato con la “follia” della croce (cfr. 1Cor 1,18), che è il massimo dell’amore. Non è un caso che l’elogio più alto della carità san Paolo lo abbia fatto nella Lettera che contiene i tratti più forti e caratteristici della theologia crucis. Per questo possiamo parafrasare l’inno della carità mettendovi come soggetto Gesù stesso: “Gesù è paziente, è benigno; Gesù non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Gesù tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Gesù non avrà mai fine.

Gli sposi devono sempre avere Gesù come modello dell’amore reciproco. Per questo ora vogliamo rileggere questo stupendo inno per chiederci in quale misura stiamo riattualizzando nella vita di coppia e di famiglia questi tratti dell’amore di Cristo.

L’amore è paziente. La pazienza si mostra quando non ci si lascia guidare dagli impulsi e si evita di aggredire. La pazienza si manifesta accogliendo l’altro per quello che è, con i suoi limiti e difetti. Quando invece “pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette… allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira.. e la famiglia si trasformerà in un campo di battaglia” (AE 92).

Altre volte – spero questo sia l’atteggiamento prevalente – non pretendiamo che l’altro sia perfetto, però in nome del Vangelo che ci parla di “correzione fraterna” rischiamo – dicendo che vogliamo il suo bene, correggendo i suoi difetti – di fare la correzione ponendoci su un gradino più su. Non si può essere veramente pazienti e non si può correggere gli altri se non si è umili, cioè se non si ha una concezione realistica di sé. Non si tratta solo di conoscenza di sé (avere un quadro realistico dei propri punti forti e dei propri difetti), ma anche di amarci così come siamo, con un amore umile. Quando ci si ama in maniera realistica, cioè consapevoli delle proprie povertà, si è più capaci di amare l’altro con le sue povertà.

 Addirittura San Paolo così ci esorta: “Ciascuno di voi in tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso… Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,3-5). Gesù, che è Dio fatto uomo, ed è l’uomo perfetto, non si è posto nei nostri riguardi su un gradino superiore, non ha dato spazio a quell’orgoglio che ha rovinato l’uomo, ma ci ha accolti con umiltà.  Questo è il sentimento di Gesù di cui dobbiamo rivestirci: l’umiltà. E San Paolo continua indicandoci l’umiltà di Gesù: “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se  stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana  umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8). Dove si vede se uno è umile? Quando ci sono le umiliazioni. Non c’è umiltà senza accettazione delle umiliazioni. Dove si vede la grande umiltà di Gesù? Nel fatto che Gesù stava zitto nel momento dell’umiliazione più grande. Egli, che è Dio, anziché giudicarci, è rimasto in silenzio. Ha avuto pazienza. Non per nulla il verbo greco makrothyméi utilizzato da Paolo nell’inno all’amore letteralmente vuol dire: ha l'animo lungo. Sa attendere, e non in virtù di una pazienza rassegnata e passiva che subisce il peccato. Quando l'A.T. caratterizza Dio come makròthymos (nella trad. greca dei LXX), lo fa sempre in un contesto in cui la longanimità di Dio esprime la sua volontà di salvezza nei confronti dell'uomo, fragile e peccatore.

Possiamo chiederci: amiamo il nostro coniuge con un amore umile? Con un amore longanime, paziente, che sa dare tempo alla persona amata? Che sa apprezzare anche i piccoli miglioramenti? Sa festeggiare le piccole conquiste?

L’amore è benigno. Segue la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos (persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). In tal modo Paolo vuole mettere in chiaro che l’amore  è caratterizzato dal servizio e utilità all’altro, è un’azione dinamica e creativa nei suoi confronti. “Indica – scrive papa Francesco - che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. L’amore non è solo un sentimento… Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole» (EE 230). In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire” (AL 93-94).

Ma anche qui oserei aggiungere un particolare importante. Gesù, al giovane ricco che gli chiede: «Maestro buono, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?», risponde: «Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio» (Lc 18,18-19). La bontà è quindi la prerogativa di Colui – di Dio e di Gesù che ce l’ha rivelato nella sua umanità - che gode nel fare per primo il bene, nel suscitare solo e sempre bene attorno a sé. Siamo buoni quando amiamo per primi, quando godiamo di fare il bene! Inoltre la bontà è una qualità creativa: «Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona…» (Gen 1,3-4). Dopo aver creato ogni cosa, il Signore ha detto: «E’ cosa buona». La bontà è creativa. Vuole il vero, autentico bene dell’altro e trova il modo per realizzarlo. Allora in questa prospettiva di creatività della bontà possiamo chiederci: di che cosa ha più bisogno il mio coniuge in questo momento?  In che modo posso concretamente realizzarlo?

Seguono ora alcuni aspetti negativi, quelli del non amore.

L’amore non è invidioso. L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io.

Gesù ci ha messi in guardia dall’invidia nella parabola degli operai nella vigna, quando quelli della prima ora mormorano contro il padrone perché ha dato ad essi la medesima paga – un danaro – a quelli dell’ultima ora: “Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo!”. E Gesù, nella figura del padrone della vigna, risponde: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te.  Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?” (Mt 20,13-15).  Allora possiamo dire che “il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro” (AL 95).

L’amore non si vanta, non si gonfia. Mentre l'invidioso soffre perché ritiene di essere inferiore o che gli altri lo stimino tale, l'orgoglioso invece va all'eccesso opposto. Si vanta di ciò che ha; o si gonfia, nel senso che millanta doti che non ha. Tra i due atteggiamenti c'è una notevole differenza: nel primo, il vanto nasce da pregi esistenti; nel secondo, ci si gonfia per qualità immaginarie, facen­dosi una idea troppo alta di se stessi (cf. Rm 12,16). In ogni caso ci allontaniamo dalla verità e dall'amore di Dio, dal quale abbiamo ricevuto tutto ciò che abbiamo: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto perché te ne vanti, come non l'avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7). La carità che deriva ed è ispirata dall' amore di Dio, è consapevole dei suoi doni, è rispettosa ed umile: “Non valutatevi più di quanto è con­veniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede Dio gli ha dato” (Rm 12,3).

“Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro”. Inoltre l’amore “non si ingrandisce” di fronte agli altri. A volte “ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più ‘spirituali’ o ‘saggi’… Alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole” (AL 97). “È importante che i cristiani vivano questo atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili. […] Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore. […] L’atteggiamento dell’umiltà appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà” (AL 98)

L’amore non manca di rispetto (amabilità). “Essere amabile – scrive papa Francesco - non è uno stile che un cristiano possa scegliere e rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore”…  Lo sguardo amabile sull’altro “non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro… L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge sé stesso, perché senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile. […] Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano” (AL 100).

 L’amore non opera in modo rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. Infatti il verbo verbo aschemoneì qui usato letteralmente significa fare qualcosa privo di “schema” (a-schemon), privo di forma, di buona figura, di decoro. Al contrario agire in modo nobile, elegante, di bella maniera è tipico dell’amore. Paolo scrive: “Camminiamo con decoro (eushernònos)... Non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non fra contese e gelosie” (Rm 13,13). La carità agisce sempre con bellezza e decoro. Ha la sua nobiltà a livello di modi, di parole, di pensieri: “Nes­suna parola cattiva esca dalla vostra bocca; ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione... Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno ira, clamore, e maldicenza con ogni sorta di malignità... lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità, cose tutte sconvenienti” (Ef 4,29.31; 5,4). I toni e lo stile della carità non sono mai bassi; al contrario, essa si muove a livelli di bellezza e di decoro, attin­gendo ai valori più alti che l'uomo possa amare ed onorare: “Tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8).

Nei Vangeli non troviamo questo verbo. Tuttavia c’è un episodio significativo della passione, quando la guardia, durante il processo del sinedrio, dà uno schiaffo a Gesù, dicendo: “Così rispondi al sommo sacerdote?”.  E Gesù reagisce con amabilità, cioè risponde mostrando la verità senza aggressività, con dolcezza di tratto e di parole, invitando così la guardia a riflettere. Dice infatti: “Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23).

C’è da chiedersi: le nostre parole verso il coniuge sono sempre amorevoli? Sappiamo incoraggiarlo? Il nostro tratto – atteggiamenti e parole – esprimono il nostro desiderio di vivere l’impegno feriale dell’onorare mio marito / mia moglie che ci siamo presi nel giorno del matrimonio?

L’amore non cerca il proprio interesse. “Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,4). È la generosità dell’autentico amore. Seguendo l’esempio di Cristo che “si sottopose alla croce disprezzando l'ignominia” (Eb 12,2), il credente, imitando l’amore di Dio, non cerca la propria gloria, la propria affermazione ma, al contrario, dà la vita per l’altro. Il che esige che il nostro cuore sia purificato da ogni forma di infantile egocentrismo, dall’egoismo e dal narcisismo. In positivo, invece, chi ama possiede la sapienza del vangelo. Segue Gesù che ci ha amati per primo, fino alla morte e alla morte in croce. Sa che è vero quello che ci ha detto Gesù: “Vi è più gioia nel donare che nel ricevere” (At 20,35).

Al contrario della chiusura nei miei interessi egocentrici ed egoistici, l’amore trova la gioia nel donare. La gioia, che dovrebbe regnare nella vita coniugale e che Gesù, il beato per eccellenza, vuole donare a chi crede in lui: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv  15,11).

Nel «c'è più gioia nel dare che nel ricevere» c’è una grande sapienza. La pienezza di vivere, infatti, viene conseguita quando non la si cerca direttamente, quando, in altre parole, ci si è dimenticati di se stessi e dei propri problemi per rivolgersi all’altro con gratuità. Il paradosso del dono esprime il paradosso della felicità, più volte riscontrato: essa può giungere soltanto in sovrappiù. Quando ci si dona a qualcuno, si sperimenta una soddisfazione che non può essere paragonata ad alcun guadagno materiale: la gioia del dare non conosce confronti.

Kierkegaard notava in proposito: «La porta della felicità si apre verso l'esterno; chi tenta di forzarla in senso contrario, finisce per chiuderla sempre di più»[2]. Quanto più si cerca di possedere la feli­cità, tanto più essa diventa sfuggente e irraggiungibile: è la parabola del nostro tempo, troppo preoccupato di sé e del proprio star bene, scoprendosi così sempre più triste e incapace di vivere. Come per la conquista di Gerico (cfr Gs 6,1-22), la felicità arriva quando si è oc­cupati in altro, che cattura il cuore; essa sopraggiunge, in sovrappiù, come un dono gratuito.

Inoltre la gratuità implicita in questo gesto invita l'altro ad aprirsi e a dare il meglio di sé. «Si dice che Warden Duffy (un personaggio mitico del carcere di San Quentin) abbia affermato che il modo migliore di aiutare un uomo è permettergli di aiutarvi»[3]. Le difficoltà personali non vengono con questo dimenticate, ma il fatto di sentirsi importanti per qualcuno dà spazio a un diverso atteggiamento nei con­fronti della vita, più propositivo e meno vittimistico, sperimentando una sorta di inedita pienezza di vivere. È allora anche un bel gesto di amore permettere l’altro di amarmi!

Possiamo chiederci: nella nostra relazione di coppia regna la gioia? Se no, o non sempre, perché?

L’amore non si adira. “Adesso appare un’altra parola – paroxynetai – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci” (AL 103). “Come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia. «E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace!». La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: «Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1 Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore” (AL 104).

Perdono. Scrive papa Francesco: “Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. […] Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immagina re sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare” (AL 105). “Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità è che la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al perdono, alla riconciliazione” (AL 106).

L’amore non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. L’amore soffre per le ingiustizie (calunnie, offese, comportamenti altrui, vere e proprie ingiustizia) che il coniuge riceve dagli altri (in ambito parentale, lavorativo, ecc.). Il coniuge che ama partecipa della beatitudine di coloro che piangono (Mt 5): soffre con chi soffre. Al contrario l’amore si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità, le sue buone opere.

Seguono ora quattro espressioni positive molto importanti: l’amore tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

L’amore tutto copre. Detto così, a prima vista questa affermazione farebbe capire che l'a­more è disposto a scusare tutto, e a giustificare o coprire di oblio, quasi ad ignorare le responsabilità degli altri. Il verbo greco, stego, parla di una copertura che fa pensare a quella di una casa (come in Mc 2,4) o di un rifugio. Riferito a Dio, lascia intravedere la sua volontà di offrire rifugio a chi ricorre con fiducia a lui. II Salmo 91 (90) prega così: “(L'Altissimo) ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio. La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza; non temerai i terrori della notte” (v. 4-5).

La letteratura deuteronomica propone spesso questa immagine. Par­lando dell'amore e tenerezza di Dio per il suo popolo, ricorda che “lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'a­quila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali” (Dt 32,11). Abbiamo qui due immagini che si completano e presentano la protezione di Dio in termini tutt'altro che di possessività: da una parte la pupilla dell'occhio che viene custo­dita come cosa preziosissima ed unica, dall'altra le ali che non solo pro­teggono come nel salmo citato, ma vengono usate per educare i propri piccoli a godere le altezze, a non temerle e librarsi in volo come la tenera madre.

Ricordiamo infine le parole con cui Gesù apostrofa Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gal­lina raccoglie i pulcini sotto le ali e voi non avete voluto” (Mt 23,37). In queste parole è espressa tutta l'amarezza di Gesù nel constatare come le visite di Dio miravano sempre a raccogliere e proteggere quel popolo che però ha risposto sempre con diniego a queste proposte di amore.

Nella condotta cristiana, quindi, l'espressione esorta ad offrire protezione, difesa e baluardo per il fratello che dovesse trovarsi in difficoltà o in peccato, senza esporlo alla vergogna o alla disperazione.

“Gli sposi che si amano e si appartengono – scrive papa Francesco - parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio.

È molto più di questo. Per la stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata” (AL 114).

L’amore tutto crede (ha fiducia). Credere qualcosa (in greco pisteuo con l'accusativo) indica un affi­dare cose e interessi propri ad un altro perché si ha fiducia in lui, si punta sulle sue capacità, sulla sua volontà di corrispondere all'atto di fiducia. Dio affida alla coppia umana importanti compiti circa il mondo creato da lui: “Siate fecondi e moltiplicatevi, soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra” (Gen 1,28).

Il Salmo 8 riconosce ed esalta questo assoluto atto di fiducia che Dio compie nell'uomo, tanto piccolo davanti al resto del mondo, eppure tanto grande per il potere che riceve: “tutto (LXX: panta) hai posto sotto i suoi piedi, tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna, ecc.” (vv. 6­8).

Dio crede nell'uomo, perciò lo crea libero, lo lascia in balia del suo volere (cfr. Sir 15,15s; Dt 11,26ss). Stima le sue possibilità, incoraggia il suo cammino, al di là di ogni apparente limite.

Anche Gesù crede nell’uomo. Ha creduto nei 12 che egli stesso ha scelto dopo una notte di preghiera. Conosce i loro cuori e conosce anche le loro debolezze. Per questo li ha messi in guardia: “Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi Fratelli” (Lc 22, 31-32). Ha creduto anche a Giuda: non era inevitabile il suo tradimento…

La carità, virtù cristiana effusa da Dio nei nostri cuori, imita e riflette questo aspetto dell'amore divino: sa dare e infondere fiducia nei fratelli e nei propri simili. Questo modo di essere promuove una gara nello stimarsi vicendevolmente (cf. Rom 12,10), attiva la ricerca del bene tra noi e con tutti (cfr. 1Ts 5,15), tenendo ciò che è buono e positivo (v. 21). “Credere tutto” equivale a far venire fuori capa­cità reali, promuovere la realizzazione di possibilità e talenti, latenti in ogni essere umano, in attesa di un atto di fiducia per mettersi attivamente in cammino.

“Questa fiducia – scrive papa Francesco - rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, una famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna” (AL 115).

L’amore tutto spera. L'amore di Dio non si ferma di fronte al peccato e alle aberrazioni dell'uomo, ma al di là dei fatti presenti, apre prospettive di salvezza e di bene. Il profeta Ezechiele esprime mirabilmente questa “speranza” di Dio che scavalca ogni fatalismo: "Ma se il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha commessi e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà e non morirà. Nessuna delle colpe che ha commesso sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticata Forse che io ho piacere della morte del malvagio - dice il Signore Dio - o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? [...] Ha riflettuto, si è allontanato dalle tutte le colpe commesse; egli certo vivrà e non mo­rirà" (18,21-23. 28).

Questa speranza di Dio nel ritorno dell'uomo si esprime nel toccante atteggiamento del padre del figlio prodigo, che ne scorge da lontano la figura: "Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò" (Lc 15,20). Se lo vide da lontano, vuol dire che non lo aveva mai dimenticato, mai tolto dal suo cuore o ripudiato. Ma nutriva sempre attese e speranze nel suo ritorno. Ecco perché non aspetta che il figlio arrivi da lui, ma è lui che commosso prende l'iniziativa: corre verso di lui, gli si getta al collo, lo bacia. Vice­versa il fratello maggiore non solo si sente estraneo alla festa organizzata per il ritorno di suo fratello, ma preclude ogni speranza nei suoi confronti, perché lo ha già giudicato e condannato.

Qui appare la grande differenza tra Dio Padre, capace di sperare sempre e l'uomo chiuso nella negatività dei suoi giudizi. La carità che tutto spera non è se non quella di Dio. Solo accogliendola nei nostri cuori, e diventando suoi figli adottivi (cf. Rm 5,5; 8,15), possiamo imitare l'a­more di lui realmente e universalmente (panta) aperto alla speranza.

Gesù stesso spera. Ha gli stessi atteggiamenti e sentimenti del Padre verso l’uomo. E quando utilizza i “guai” per apostrofare l’ipocrisia dei farisei e degli scribi, lo fa sempre sperando la loro conversione.

In riferimento alla coppia, l’amore che tutto spera, in connessione che il “il tutto crede”, “indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra” (AL 116).

L’amore tutto sopporta. Dei quattro verbi contenuti in questo versetto, il primo e l'ultimo vanno interpretati in maniera conseguenziale. Se “coprire” significa, come si è detto, protezione e difesa del fratello, così “sopportare”, anche sulla base di ciò che dice il verbo greco, hypoméno, va analogamente inteso in relazione ad un atteggiamento positivo di sostegno e di fedeltà. Dire allora che la carità tutto sostiene o sopporta va inteso nel senso positivo di un amore che resta al suo posto in fedeltà e perseveranza, che non cede né a delusioni né a scoraggiamenti.

Nella lettera agli Ebrei l’autore così ci esorta: “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo” (Eb 12,3).

Papa Francesco interpreta questo “tutto sopporta” anche in riferimento alle contrarietà della vita. Così scrive: “Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore malgrado tutto, anche quando tutto il contesto invita a un’altra cosa. Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare” (AL 118).   

Concludendo potremmo osservare che i quattro verbi hanno una di­sposizione che ci fa pensare ad una casa: agli estremi, il tetto e le fonda­menta (“copre” e “sostiene”), ai lati i pilastri portanti della fiducia e della speranza. Nella stessa 1 Cor Paolo afferma: “la carità edifica (alla lettera: costruisce la casa, oikodomei)” (8,2), per cui la carità ha realmente il potere di unificare ed edificare tutta la nuova creazione (panta) – e in particolare il matrimonio fondato sul sacramento -, come una grande casa.

Possiamo chiederci: come viviamo nella coppia questi 4 atteggiamenti che fanno del nostro matrimonio una casa nella quale regna la tenerezza e l’amore di Dio? Una casa capace di accogliere la vita (i nostri figli, le persone con le quali siamo in relazione) e promuoverla?

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[1] Cfr. Ef 5,29; Gv 13,34.

[2] S. KIERKEGAARD, «Aut-aut», in ID., Opere, Firenze, Sansoni, 1972, 10.

[3] I. YALOM, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Boringhieri, 1997, 30. Per un approfondimento, cfr G. CUCCI, Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita, Assisi (Pg), Cittadella, 2015.

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