La gioia che Dio vuole per ciascuno di noi
La gioia, sembrano volerci dire le Scritture nel loro insieme, è qualità divina e caratteristica precipua del Dio dei cristiani; non è qualcosa di esterno a Dio, ma è parte di lui o, come disse una giovane santa carmelitana, la cilena Teresa de los Andes, «Dio è gioia infinita». Non solo Dio è bellezza, come ripete sempre più frequentemente la teologia moderna, ma è gioia.
E non solamente è gioia, ma è proprio di Dio dare gioia. L’Alleanza è manifestazione esplicita di tale volontà divina di condivisione della gioia; essa avviene in vista di essa. Perché Dio non può godere da solo né sopporta la visione della sua creatura triste. Dunque la gioia è anche modo di essere, realtà interiore e manifestazione esteriore di colui che crede in questo Dio. Con mille ragioni per essere felice. E mille inviti a vivere così, e a manifestare questo modo di essere e di relazionarsi dei credenti, come appare nel Primo e nel Secondo Testamento.
Se diamo uno sguardo alla società in cui viviamo ci accorgiamo che c’è ben poca gioia. I giovani sono i primi a sentirne la mancanza, ad avvertire il vuoto, l’insoddisfazione. Sono in aumento i suicidi. Eppure nella nostra cultura ci sono tante promesse di gioia, legate soprattutto al possesso dei beni. Ma sono promesse false. Per di più spesso non si si sente più nemmeno l’esigenza di accostarsi a Dio, di cercarlo. Certe pratiche religiose sono fatte più per abitudine che per convinzione.
Da un lato, come può parlare di felicità la Chiesa, coi suoi divieti, le sue penitenze e la croce come suo simbolo, a una società del benessere, dello sballo e delle emozioni estreme? Dall’altro, è esattamente l’attenzione a questo mondo odierno che ci fa scoprire come la felicità oggi sia diventata uno stress, un obbligo continuamente ribadito da mass media e pubblicità in un mondo ove l’ottimismo serve a indurre al consumo, e quanta tristezza profonda vi sia dietro una gioia superficiale e falsa, artificiale e passeggera, ove non si sorride quasi più, e il ridere – tutt’al più – è diventato rito televisivo collettivo e ripetitivo, di fronte alla solita, noiosa e imbecille battuta sul sesso. Inoltre, sempre nella cultura odierna, una volta la felicità era forse troppo lontana, magari rimandata al paradiso ove la cultura risentiva di una qualche radice cristiana; oggi si tenta invece di far credere che si possa raggiungere, a basso prezzo e in tempi brevi, nei nostri giorni sempre più frenetici. Salvo poi vedersela sfuggire di mano per un nonnulla, e doverla riconquistare sempre daccapo.
E allora, se questa è la situazione, i cristiani, uomini della gioia, del sorriso e del buon umore, devono diventare apostoli di essa. E la Chiesa, proprio perché «casa della Parola», deve diventare insieme casa e scuola di comunione nella gioia vera, tanto più umana quanto divina.
Insomma, la gioia è una cosa… seria, molto più di quanto pensiamo.
La vera fonte della gioia è radicata più profondamente, cioè nel cuore stesso, nella sua più remota intimità. Ivi abita Dio e Dio stesso è la fonte della vera gioia»6.
La gioia che ci dà Gesù non è quindi pura sensazione euforica, che passa. E’ una la gioia di cui parliamo, gioia cristiana non è legata alla soddisfazione dei sensi, è ben più profonda e sempre anche inedita. Vediamo perché.
Tentiamo allora di vedere come radicare e recuperare questa gioia quale parte essenziale dell’identità del credente.
«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33)
Gesù è venuto ad annunciare il Regno. «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo!» (Mc 1,15). Si tratta di accoglierlo. Il Regno è Gesù. E Gesù – illuminandoci con la via del Vangelo e sostenendo il nostro cammino con la sua grazia – vuole che in noi regni la gioia. Egli stesso ha detto: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Per chi cerca il regno di Dio, cioè Gesù, e vive il suo vangelo, cioè compie la volontà di Dio («la sua giustizia), oltre alla gioia Egli ci dà anche «tutte quelle cose… in aggiunta» (Mt 6,33). In altre parole a chi dedica le migliori energie alla ricerca del Regno e della sua giustizia, Dio ci dà le cose di cui, è un’aggiunta che viene data a chi vive da figlio e fratello.
Ma torniamo alla gioia. Le società occidentali hanno registrato miglioramenti notevoli su alcuni aspetti della vita rispetto a soli 50 anni fa: longevità, possibilità alimentari, cure mediche, accesso all’istruzione, libertà di spostamenti, libertà di scelta, diffusione capillare dei diritti. Nonostante ciò la percentuale di infelicità percepita è – secondo le ricerche statistiche - notevolmente aumentata. Negli ultimi anni la depressione è cresciuta di 10 volte; se un tempo il suo primo episodio si verificava attorno ai 30 anni, ora fa la sua comparsa a 13 anni. L’aumento di ricchezza non ha reso le persone più contente di prima, eppure la corsa al benessere economico rimane un mantra indiscusso, sordo a qualunque smentita[1].
C’è poi chi continua a cercare la felicità nell’autorealizzazione di sé, come carriera al lavoro, affermazione nell’ambito della politica e del sociale, nel narcisismo di chi ricerca il successo, ecc. Sono tentazioni che Gesù ha vinto nel deserto prima di iniziare la sua missione pubblica. Sono illusioni.
C’è anche chi ha cercato di eliminare lo stato d’animo speculare alla felicità: la tristezza. Così, ad esempio, modo R. Nozick, un filosofo della politica, ha ipotizzato la creazione di una macchina capace di dare sensazioni gradevoli su richiesta; eppure, invece di provare gioia, «collegarsi alla macchina è una specie di suicidio. […] Non c'è alcun contatto vero con una qualsiasi realtà più profonda, per quando se ne possa simulare l'esperienza. La macchina non soddisfa il nostro desiderio di essere in un certo modo»[2]. Una situazione piacevole ma artefatta finisce per spegnere il gusto di vivere.
La gioia, allora, va cercata nella giusta direzione. Gesù ce l’ha chiaramente indicata: cercare il Regno, cercare Dio e la sua volontà, vivere da figli. E se non abbiamo tale gioia Gesù ci dice: «convertitevi e credete al vangelo!». Ce lo dice anche indicandoci la condizione essenziale: «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna». Cioè, paradossalmente, l’uomo si realizza ed è felice non nell’autorealizzazione, ma nella trascendenza di sé.
La gioia è possibile solo come conseguenza di una tensione di vita che conduce l’individuo fuori del proprio io, verso l’altro, verso ciò che è vero-bello-buono, verso il Regno, nei termini di Gesù. Allora la gioia gli sarà data – non è solo un effetto psicologico, è un dono dall’alto[3] – come un bene non cercato per sé. È in fondo, di là dell’apparenza, la logica del chicco di grano che cade a terra e muore, e alla fine produce molto frutto (Gv 12,24)… Ed è felice, ci è lecito pensare!
Capiamo allora i motivi per cui la gioia non la si trova: perché la si cerca male, nel modo sbagliato, facendone lo scopo immediato del nostro agire, o perché la si cerca per se stessi (ignorando l’altro o non cercando abbastanza e prima di tutto la sua gioia, e dunque dimenticando che la gioia è relazionale), o perché la si cerca per se stessa, come sensazione positiva, di relax e benessere psicofisico.
Al contrario la gioia, specie quand’è duratura e profonda, svela che il cammino di ricerca di senso (o del tesoro della vita) sta andando nella giusta direzione. Quando la gioia è stabile e intensa, anche se pacata e discreta, o quando resiste alle difficoltà della vita e dà la forza di affrontarne le intemperie, sta a dire che quel cammino è andato nel verso giusto. La gioia è anche segnale autenticante, insomma, del proprio itinerario di crescita, non è solo sensazione passeggera o stato d’animo, magari legato al carattere, più o meno innato o predisposto in tal senso.
«Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17)
Ed ecco un motivo profondo per gioire anche quando le cose non vanno come noi vogliamo, come ci aspettiamo. Perché spesso siamo arrabbiati con la vita. «La vita non è stata buona con me, da essa ho ricevuto più dolori che gioie... Non sono stato abbastanza compreso dagli amici, o aiutato dalla comunità... Ho anche sbagliato e realizzato poco, ma neanche ho ricevuto quel granché nella mia esistenza...». Sono frasi di persone credenti o consacrate al Dio della vita, ma in rotta con la vita. Certamente non si può pretendere di consolare con le solite pillole pseudo-rassicuratorie (tipo «c’è chi sta peggio di te» o «bisogna accontentarsi, qualche guaio è successo a tutti»), e neppure con la pillola «escatologica» dell’al-di-là che non ha niente in comune con l’al-di-qua («coraggio, la gioia non è di questo mondo, godremo solo nell’altro, dove finalmente sarà fatta giustizia!»). No, una certa gioia di vivere fa già parte del Regno quaggiù. Ed è gioia vera, frutto d’una percezione realistica della vita, non legata solo a ciò che abbiamo raggiunto con le nostre forze (perché sarebbe ancora una volta un’autoaffermazione), né legata alla circostanze favorevoli o meno, ma al nostro essere figli Dio, amati, e al nostro rispondere all’amore di Dio con il nostro sì all’amore di ogni giorno.
Quella voce che risuona da fuori ci vuole coinvolgere nella gioia stessa di Dio, che - come per Gesù al Battesimo nel Giordano (Mt 3,17) e nell’episodio della Trasfigurazione (Mt 17,5) - si compiace delle nostre scelte, della nostra scelta rinnovata di vivere da figli nell’amore, nel dono sincero di sé.
Gioia è relazione, è sentire queste parole, e sentirle ognuno come rivolte a sé. Sentire che il Padre si compiace dei miei sforzi, del mio impegno, della mia rettitudine di cuore, delle mie scelte. E ci indica come modello il Figlio: ecco perché alla Trasfigurazione aggiungerà: “Ascoltatelo”.
«C'è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35)
Il paradosso del dono esprime il paradosso della felicità, più volte riscontrato: essa può giungere soltanto in sovrappiù. Quando si dona a qualcuno, si sperimenta una soddisfazione che non può essere paragonata ad alcun guadagno materiale: la gioia del dare non conosce confronti.
Kierkegaard notava in proposito: «La porta della felicità si apre verso l'esterno; chi tenta di forzarla in senso contrario, finisce per chiuderla sempre di più»[4]. Quanto più si cerca di possedere la felicità tanto più essa diventa sfuggente e irraggiungibile. La si trova, invece – come già ditto sopra - nel dono di sé. Ed è sempre possible vivere il dono di sé, anche quando non si dona qualcosa. Per esempio dando il nostro tempo, l’attenzione, ascoltando con amore i problemi, le preoccupazioni, le sofferenze dei fratelli. Come pure valorizzando l'altro. «Si dice che Warden Duffy (un personaggio mitico del carcere di San Quentin) abbia affermato che il modo migliore di aiutare un uomo è permettergli di aiutarvi. La gente ha bisogno di sentirsi necessaria»[5]. Le difficoltà personali non vengono con questo dimenticate, spesso vengono relativizzate; inoltre il fatto di aver fatto del bene agli altri ci fa del bene, ci conferma nel nostro essere figli di Dio; e per di più si gioisce della gioia degli altri.
«Il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4)
Un vangelo molto illuminante che ribadisce quanto abbiamo sopra detto, è quello nel quale Gesù raccomanda al credente non tanto un certo tipo di comportamenti, tutti molto buoni in sé (elemosina, preghiera e digiuno), ma una motivazione coerente alla loro origine (cfr. Mt 6,1-6.16-18). È una chiarificazione importante, perché ci può aiutare a capire dove sia il nostro cuore o il tesoro per il quale godiamo.
Il Maestro qui parla a credenti, a persone che vivono e testimoniano la propria fede con atti corrispondenti: credenti praticanti, che soccorrono il povero, fanno digiuno e pregano il Padre che è nei cieli. Verrebbe da dire: meglio di così!? E invece non basta. Occorre fare tutto ciò con un atteggiamento preciso: senza «suonare la tromba» né «sfigurarsi la faccia», come dice con immagine molto colorita Gesù, né assumendo pose che attirino l’attenzione altrui (come «pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze»). Costoro si comportano così per farsi vedere e ammirare dagli uomini, e forse ci riescono, se gli va bene, ma in tal modo – dice sempre il Maestro – «hanno già ricevuto la loro ricompensa», dagli uomini ovviamente, consistente nell’apprezzamento immediato, di solito non definitivo, e che va di volta in volta riguadagnato, spesso anche faticosamente (con spreco inverecondo di energie). Ma è ricompensa o gioia da poco poiché dura un attimo ed è superficiale, è subito bruciata, perché non apre al mistero della dignità della persona, non ne raggiunge la dignità radicale né dà alcuna sensazione benefica definitiva (dal punto di vista della stima di sé), ma anzi normalmente aumenta ancor più il bisogno, come ben sappiamo, del consenso degli altri e dell’applauso, dell’audience e dell’indice di gradimento, fino a renderne dipendenti (come sempre più spesso succede pure a chi annuncia il vangelo in una società come quella di oggi, ove si è qualcuno solo se si è visibili e conosciuti da tutti).
Per questo il Signore suggerisce un atteggiamento esattamente contrario: fare elemosina, orazione e digiuno nel segreto, con questa motivazione: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Perché la gioia cristiana abita «nel segreto» dell’intimità con il Padre Dio, quello è il suo “luogo”. O rappresenta esattamente la ricompensa da parte di Dio per aver agito «nel segreto», cioè rettamente, cercando solo il suo volto. Il Padre che apprezza la trasparenza di chi fa il bene non per secondi fini, ma semplicemente perché attratto dal bene, anche quando nessuno l’applaude. Gesù ci rivela qui un Dio che si svela solo a chi cerca Lui solo e ha imparato a intercettare il suo sguardo, sguardo dolcissimo e penetrante, che dona alla creatura la certezza di una positività definitiva, le fa sentire un amore che l’avvolge tutta («lo ricompenserà»: azione che continua nel futuro e dà stabilità nella percezione positiva di sé).
Il cristiano è esattamente colui che ha imparato a godere di questo sguardo poiché si ritrova in quegli occhi, o è colui che trova la sua gioia nello stare – da solo – di fronte a Dio e nel lasciarsi da lui guardare, e cerca spesso tale sguardo come ciò che dà un senso alla vita e a tutto quel che fa, senza più bisogno di diventare importante o di cercare visibilità o di compiere cose grandi che facciano colpo e gli attirino consensi. Se Dio è colui che «è» nel segreto, anche il figlio suo ama stare e vivere nel segreto, non farsi notare né cercare le luci della ribalta, per dare invece importanza anche alle cose piccole, quasi avere il culto del piccolo e dei gesti semplici perché in essi è più facile cercare e trovare Dio solo… Non per falsa umiltà né facendosi violenza. Ma perché la sua gioia è nell’incrociare gli occhi di Dio!
La gioia dunque, ribadiamo anche ora, è relazionale, è essere guardati da un occhio amoroso, qualcosa che si riceve, dunque. Ma è anche qualcosa che raggiunge la persona alle fonti dell’io, e che la stessa avverte molto in profondità dentro di sé, nella sua intimità più intima e personale, ed è sensazione profonda e discreta, serena e sicura: relazionale al massimo grado e pure del tutto personale.
Colui, invece, che non ha sperimentato questa gioia o che non ha fatto crescere in sé tale tipo di sensibilità, è condannato a elemosinare come un accattone l’attenzione e il plauso altrui. A volte sembrando vanitoso ed esibizionista. Mentre, in realtà, è “solo” disperato.
«Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20): gioia vera e gioia falsa
Gesù si rivolge qui a una precisa categoria di persone, gli apostoli e annunciatori del vangelo, come singoli e come comunità, spesso tentati di cercare la gioia nel posto sbagliato, o in modo falso e illusorio.
Le tentazioni della falsa gioia. Potremmo dire che con queste parole Gesù, almeno implicitamente, invita a riflettere sulle tentazioni della falsa gioia, tentazioni che seducono il singolo credente, ma anche la vita consacrata e la Chiesa come organismo sociale sempre tentata di cercare una certa sua affermazione di fronte al mondo. E qui ne abbiamo un esempio.
I settantadue sono appena tornati da un’esperienza apostolica «pieni di gioia» (Lc 10,17) per i loro successi, perché sta andando tutto meravigliosamente bene; Gesù conferma l’evento, fors’anche compiaciuto, ma si premura, creando in loro un salutare dubbio, di ricordare a ognuno che fonte della vera gioia dell’apostolo non sono le imprese apostoliche, il consenso della folla o dei vari poteri, i numeri di quanti ti seguono o l’entusiasmo di chi ti applaude, né la spettacolarità degli interventi che attirano le folle e nemmeno una certa efficienza e riuscita con relativa “resa” dei nemici (Satana compreso…), ma tutt’altra cosa, da Gesù espressa con linguaggio figurato-metaforico: «Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli». Altrimenti è gioia falsa, effimera e inconsistente, anzi, diabolica.
Il «nome» nella Scrittura è l’identità profonda della persona, e i nomi di coloro che Gesù ha scelto sono «scritti» in cielo: ovvero l’identità della persona non poggia su qualcosa di vago e instabile, di esteriore e apparente, ma è affermata e scritta in modo definitivo nella sua positività, poiché è scritta «in cielo», e il cielo è il simbolo della perennità, in opposizione alla precarietà della terra. Dio, insomma, non solo parla e dice la propria gioia su di noi, non solo ci guarda nel segreto della sua compiacenza illimitata incrociando il nostro sguardo, ma anche «scrive» sul suo cuore il nostro nome, per custodirci nella sua gioia, o proteggerla lui stesso.
Ancora una volta la gioia, dunque, appare legata a una prospettiva di verità e bellezza, e alla corrispondente capacità di coglierla su di sé e dentro di sé, o – come abbiamo detto – alla sensibilità con cui uno ha imparato a godere della verità e del suo splendore. E la verità è che i nostri nomi sono scritti nei cieli, ovvero che la nostra identità è già positiva e al sicuro, poiché è «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3), è custodita con cura dal Padre, la dignità e positività del credente è legata a lui, all’essere creatura sua, da lui scelti, pre-diletti, chiamati, benedetti…, ci ha «scritti» sul palmo delle sue mani, con l’inchiostro indelebile dell’amore per sempre. Più forte di ogni contrarietà o negatività, insuccesso o fallimento, prima che potessimo sognare di meritarcelo.
Non è soddisfazione solo umana; è altra la gioia che il Signore ci promette e ci dà. Se la nostra identità è «nascosta con Cristo in Dio», lo è anche la nostra gioia.
La gioia dell’ultimo posto. C’è una bella immagine di credente particolarmente eloquente, in tal senso: il beato Charles de Foucauld, piccolo fratello di Gesù. Egli cercò ostinatamente l’“ultimo posto” e, di fatto, ha vissuto una vita da perdente, sul piano dei risultati concreti. Durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa fu Nazareth il luogo che più lo impressionò: non si sentiva chiamato a seguire Gesù nella sua vita pubblica; è Nazareth che lo colpì nel più profondo del cuore. Voleva imitare Gesù silenzioso, povero e lavoratore. Voleva seguire alla lettera la parola di Gesù: «Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto» (Lc 14,10). E più ultimo posto di quel villaggio sperduto in pieno deserto certo non avrebbe potuto trovare. Lo si sarebbe detto un fallito, dal punto di vista del successo umano, se pensiamo che De Foucauld non riuscì a fondare in vita la congregazione che pur voleva fondare, quella dei “Piccoli fratelli del Sacro Cuore”, riuscì appena a far riconoscere l’associazione di fedeli, che contava un numero minimo di aderenti. Solo dopo la sua morte avverrà la fioritura. La diffusione dei suoi scritti e la fama circa la radicalità evangelica della sua vita hanno fatto sì che nascessero, nel corso degli anni, ben 19 differenti famiglie di laici, preti, religiosi e religiose che vivono il vangelo nel mondo seguendo le sue intuizioni. Eppure quel suo volto umilmente radioso riproduce lo splendore del Risorto, lo sguardo luminoso e penetrante, il timido sorriso delle labbra, il capo leggermente inclinato a sinistra quasi a ritirarsi…, sembra la traduzione in lineamenti umani di Gal 5,22: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace…».
Potremmo allora, a questo punto, tentare di definire così, in sintesi, la differenza tra gioia vera e gioia falsa: la prima è «ricevuta» da Dio, come una partecipazione alla sua gioia, la seconda è legata a situazioni fortunate per il soggetto; dunque la prima è profonda, la seconda superficiale; la gioia vera è legata all’identità radicale della persona, quella falsa e ingannevole all’apprezzamento eventuale delle sue prestazioni; la gioia sana e duratura è dono non intenzionalmente cercato, chi la vuole a tutti i costi rischia di cadere nello stress e tensione di felicità; gioia vera è certezza stabile, gioia falsa è sensazione passeggera e anche incerta; la prima è pacata e discreta («nascosta in Dio»), la seconda è chiassosa e nervosa.
«In sua voluntate è nostra pace». Infine, mi pare che questo avvertimento di Gesù ai settantadue, reduci dall’apostolato glorioso, sia un mettere in guardia da un’altra analoga tentazione, quella di cercare Dio, e la gioia, non solo nella gloria e nel successo, ma pure nello straordinario, per imparare invece a scoprirlo nel semplice, quotidiano e normale compimento della sua volontà. Il credente ha appreso a godere di fare e nel fare la volontà di Dio; per essere contento gli basta sapere che la sta compiendo, nel posto e nel ruolo che altri gli hanno affidato, con fratelli che lui non ha scelto e da cui non è stato scelto… Non sarebbe egualmente in pace e felice se tutto ciò fosse frutto delle sue proprie macchinazioni, raggiri, condizionamenti, sottili imposizioni della sua volontà, furbe manipolazioni… Che potranno anche dare al soggetto la sensazione soddisfatta di aver ottenuto ciò che voleva o l’illusione compiaciuta di essere “qualcuno” se può imporsi sugli altri, fino a goderne per un po’, ma non il gaudio intenso di quella pace che ti canta in cuore perché sai di aver fatto quel che Dio vuole, «ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2), fidandoti di lui sino al punto di fidarti pure delle sue (imperfette) mediazioni. Questo è gaudio pieno, che riempie la vita, anche se silenzioso e modesto, perché viene da Dio, il quale non vuole semplicemente dei figli obbedienti, ma dei figli felici, e tali ci rende la sua volontà e il compimento di essa.
Grande maturità psicologico-spirituale è dunque quella di chi può in tutta verità pregare così: «Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene… Nella tua volontà è la mia gioia» (Sal 118,14.16); o che sempre rivolto a Dio può asserire, come suggeriva un vecchio detto spirituale, di essere felice perché «Voglio quel che tu vuoi, voglio come tu lo vuoi, voglio perché tu lo vuoi, voglio finché tu lo vuoi».
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo…; un uomo lo trova…, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44)
In questo notissimo brano evangelico, come in quello successivo (della perla preziosa) la gioia è presentata come la reazione interiore alla scoperta del «tesoro», che è esattamente questa realtà centrale per la persona e per la sua identità. Ma in realtà la gioia è ciò che accompagna tutto il percorso del credente che cammina verso il Regno, in tutte le sue fasi, come ciò che lo rende percorso di libertà. Vediamo.
All’inizio la gioia (la gioia di chi cerca). Anzitutto le due parabole, con le quali Gesù ci racconta il Regno, parlano di un uomo in ricerca, implicitamente la prima parabola, esplicitamente la seconda. Ora se un uomo cerca vuol dire che spera di trovare, anzi, se spera vuol dire che “crede” e, se crede in Dio, la sua fede-speranza gli dà certezza di trovare: per questo si dà da fare a cercare, è libero di cercare. E dunque è una ricerca che implica la gioia, una gioia iniziale, quasi embrionale e non ancora manifesta, ma presente nel profondo del cuore, perché conseguente alla fiducia che il credente ripone in Dio, quel Dio che è mistero buono, non enigma impenetrabile, e si lascia cercare-trovare. È la gioia di cui parla il salmista: «Esultino e gioiscano quanti cercano il tuo volto, Signore» (Sal 39,17).
Per questo motivo cerchiamo Dio, e cercare Dio è già fonte di gioia grande. Cercarlo, ovvero pregare, vivere alla sua presenza, desiderarlo, abitare nella sua casa, ma anche solo bussare alla sua porta, chiedergli il pane di ogni giorno, nutrirsi della sua parola, rivolgergli la propria parola, non solo per lodarlo ma anche per dirgli la propria pena o il disappunto, persino la disperazione, stare con lui, anche quando sembra più «torrente infido» che amico dolcissimo, e lo stare assomiglia a una lotta…
È la gioia dell’orante, poiché la preghiera è la prima naturalissima espressione di chi cerca, e scopre che il suo cercare è già un trovare. Senza tale gioia si possono anche dire un sacco di orazioni ogni giorno senza pregare mai, o riducendole a “pratiche di pietà” imposte da qualcuno o da qualche regola, e da sbrigare in qualche modo, pura burocrazia del funzionario del divino, fino a stufarsene.
Alla fine la gioia (la gioia di chi trova). Colui che trova il tesoro nel campo è così «pieno di gioia» per la scoperta che non esita un attimo a liberarsi di tutti i suoi averi per acquistare il campo.
La cosa interessante è proprio l’intensità di questa reazione, che porta a fare scelte, e scelte totali e determinanti: addirittura l’uomo del vangelo «vende tutti i suoi averi» per quel tesoro, ma lo fa con leggerezza, non con sforzo o perché la persona è in qualche modo costretta, né con quella tensione legata alla rinuncia che spesso dà un senso di frustrazione alla vita del seguace di Gesù. No, qui c’è una persona libera, con una passione forte per un tesoro di fronte al quale nessuna cosa al mondo ha importanza e tutto impallidisce. E per questo ha il coraggio di fare decisioni, anche forti, ma con libertà interiore, per amore.
È un punto centrale nella nostra riflessione sul dinamismo della gioia cristiana: la gioia è ciò che ti consente di fare le cose con libertà, in forza di un’attrazione interna, ricca di energia, che dà la forza della rinuncia e ne rende leggero il peso («il mio giogo è dolce e il carico leggero», Mt 11,30).
In tal senso la gioia è condizione previa per fare delle scelte, è “ciò che viene prima”, ma anche quel che le accompagna e le segue è “ciò che viene dopo” come quel che le autentica perché garanzia di libertà. Nessuno, di conseguenza, può imporsi una rinuncia se non per qualcosa che sente più bello rispetto a ciò cui dice di no, né può imporla agli altri se al tempo stesso non lascia intravedere lo spazio di libertà che quella rinuncia rende accessibile a chi la sceglie.
Per questo «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7), perché solo tale modo di donarsi è sincero e appassionato, non costretto né comunque fatto a malincuore (e dunque insincero)…
Sono tantissimi gli esempi che potremmo citare, più o meno noti. Uno piuttosto recente è quello di suor Emmanuelle, la «Madre Teresa del Cairo», questa donna morta a quasi cento anni dopo una vita totalmente dedicata agli altri, giudicata per due anni consecutivi – lei, alta e asciutta, con quel sorriso che le illuminava il volto segnato da rughe sottili e il vestire dimesso – come la donna più interessante dai francesi, per l’azione umanitaria, l’altruismo, la compassione e la solidarietà manifestate nella sua lunga vita. La sua massima felicità, infatti, era stata l’inaugurazione di un liceo per ragazze povere nella bidonville del Cairo. Ma all’origine della sua dedizione, e della sua gioia, riconosceva la beatificante tensione della ricerca «in Dio di un amore duraturo e senza limiti…, che avrei portato a migliaia di bambini messi da parte dal mondo».
«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini» (Mt 5,13). Il rischio di perdere la gioia
C’è il forte rischio di perdere la gioia. A causa nostra; ad esempio perché perdiamo lo slancio di vivere nel bene, perché quando gli altri ci offendono ci chiudiamo in noi stessi, ecc. Ma ci sono anche motivi che ci vengono anche suggeriti da colui che è il Tentatore, ed è sempre pronto a rovinare l’opera del Signore in noi. Ne cito alcuni, per capire come certe volte ci lasciamo tentare, facendo nostre le sue “ragioni”. Il nemico, ad esempio:
● ci presenta cose che ci turbano. Oscurità e turbamento, inquietudine e agitazione continuano, dunque, a essere le armi di satana. Ci fa dunque dubitare della bontà di Dio, fa di tutto per diminuire in noi la fede come abbandono in Lui e la speranza.
● ci spinge ad inorgoglirci perché abbiamo ricevuto delle consolazioni e/o delle illuminazioni, al punto che ci sentiamo superiori agli altri. E magari li critichiamo.
● ci porta, poco a poco, ad adattarci alle “comodità”: perché, infatti, essere così rigoristi, così ascetici? Così si cade nella mediocrità e nell’ozio…
● ci fa credere che è sufficiente attenerci all’osservanza esterna (per i religiosi quella stabilita dalle regole), accostandosi anche all’Eucaristia con leggerezza e superficialità, e quindi senza cura dell’interiorità. Così ci sembra di essere a posto… ma sempre più vuoti nel cuore.
● Un altro modo con il quale il Nemico – con i suoi inganni – ci trascina verso il male, è evidente in chi perde il tempo a disquisire su astratti principi di diritto, di giustizia e anche di carità, che a nulla o a poco servono per la soluzione di casi concreti, perdendo così di vista l’impegno per l’agire concreto;
● Non poche volte, facendo leva sulle sane esigenze della natura, il demonio propone di curare la salute, avere il necessario per vivere con dignità, decoro e anche gioia, conservare il buon nome, ecc., ma... in maniera da sfrenare tali sane tendenze, fino a fare cadere nella concupiscenza, per cui si diventa salutisti, gelosi, invidiosi, insofferenti, sospettosi.
● Quando una persona è generosa, impegnata, lo spinge a a scegliere il meglio in sé (ma cos’è in realtà?) separandolo dal resto. Gli esempi in questo campo sono infiniti: è in nome del meglio che nelle comunità e nelle famiglie ci si divide, si litiga e si uccide lo stare insieme. Già fin dall’inizio è questo che più ha nociuto alla Chiesa, producendo fazioni, eresie, divisioni, lotte.
«Beato chi ascolta la parola di Dio e la osserva» (Lc 11,28): l’amore gioioso e liberante della Parola
Per non perdere la gioia abbiamo una luce: quella della Parola come punto di riferimento del desiderio del credente (la Parola come contenuto), e pure del processo dinamico credente che conduce alla gioia (la Parola come metodo).
«La tua legge è la mia gioia…» (Sal 118,77). Legge qui va inteso come parola, parola-di-Dio. Il salmista ci regala in questo salmo espressioni straordinarie che dicono tutto il suo amore per questa parola, come punto di arrivo di un cammino credente. Una parola attesa e lungamente desiderata («precedo l’aurora e grido aiuto…, per meditare sulle tue promesse», Sal 147-148), perché parola di verità («la verità è principio della tua parola», Sal 160), parola amata («sopra ogni cosa», Sal 167) e assieme temuta (Sal 161), mai dimenticata perché parola di vita, che fa vivere («la tua parola mi fa vivere», Sal 50), è in essa che il credente spera («se la tua legge non fosse la mia gioia sarei perito nella mia miseria», 92), è essa che il credente chiede a Dio («fammi conoscere la via dei tuoi precetti», Sal 27).
Oggi, grazie a Dio, nella comunità dei credenti è cambiato il rapporto con la Parola, ma non ancora al punto di divenire un rapporto di amore e di gioia, come conseguenza. In realtà questo è il punto fondamentale, quel che dovrebbe essere il frutto di una familiarità assidua con la Parola, di una consuetudine diaria con essa: l’amore per la Parola. A nulla varrebbe la lectio se non divenisse dilectio. Ovvero amore tipico e specifico per quella realtà misteriosa che è la Parola, al punto di poter dire: «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca… Lampada per i miei passi è la tua parola» (Sal 118,103.105).
È un sentimento nuovo, da non confondere semplicemente con interesse per la Parola, intuito spirituale, gusto per lo studio, capacità di esposizione…, perché è inedito e originale per l’uomo amare la parola, esserne innamorati. Ma è il modo, l’unico modo autentico di rapportarsi alla Parola. Come dice Kierkegaard: «Come un innamorato legge una lettera dell’amata, così devi metterti a leggere la Scrittura… La Bibbia è stata scritta per te». Ma questo accade per chi dietro e dentro ad essa impara a cogliere Colui che non cessa di pronunciarla, Colui che si rivela, attraverso di essa, una presenza viva.
La Parola, infatti, è il segno immediato dell’amore di Dio, e del Dio rivelato da Gesù Cristo, un Dio che ha così tanto amato l’uomo da rivolgergli la sua parola, sia inviando il Verbo, sia instaurando con l’uomo un dialogo ricco di segni e simboli, suoni e voci, visioni e storie, parabole e parole, ora dolcissime ora amarissime…, tutto contenuto nel giardino delle Scritture sante, così simile al giardino del sepolcro, ove solo occhi amanti, infatti, sanno riconoscere il volto dell’Amato (cfr. Gv 20,15s).
E questo per la particolare identità del Dio dei cristiani: se questo Dio è relazione, allora «la Parola di Dio è Dio stesso nel segno della Sua parola! Essa partecipa della Sua potenza»: Dio vive, quasi respira o palpita il suo cuore in essa, e la parola ne è la manifestazione spontanea e subito accessibile, è la relazione in atto, è l’evidenza dell’amore che cerca comunione. Per questo san Gregorio raccomanda: «Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio». Se Dio mi parla vuol dire che mi ama; il suo amore è subito svelato dalla sua parola, qualsiasi essa sia, prim’ancora che dal suo contenuto; ed è amore personale perché è parola rivolta a me, qui e ora, per intessere dialogo con me. Amare la Parola, dunque, è scoprire in essa il Dio amante per lasciarsi da lui amare. E sentirsi nella gioia.
E non solo; amare la Parola è accettare concretamente di entrare in contatto con Colui che mi parla, è iniziare a rispondergli, e con la risposta la più logica e naturale, quella dell’amore e della gratitudine, da un lato, accogliendo e lasciando risuonare nelle profondità del mio piccolo mondo interiore la parola dell’Eterno e – dall’altro – lasciandomi avvolgere da questa corrente di amore che mi abilita a mia volta a parlare, o mi educa a vivere la relazione, a essere pure io relazione, perché così il Creatore mi ha voluto, a dire e ridire a Dio le parole che lui ha detto a me, parole d’amore. Mistero grande!
Qui nasce il credente, come un bambino che impara a parlare in forza dell’amore della mamma e ripetendo le parole della mamma. Ma qui cresce anche l’adulto, quel «bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2), che il Padre-Dio ha reso suo partner e interlocutore.
La gioia del compimento. Il dinamismo che potremmo chiamare mariano è tipico di chi si pone dinanzi alla Parola con lo stesso atteggiamento con cui Maria accolse nel suo cuore la parola dell’angelo, perché si compisse nel suo grembo, determinando la sua gioia esplosa nel Magnificat, ma già evocata dall’annunciatore stesso del messaggio divino: «Rallegrati, Maria, hai trovato grazia…, sei la piena di grazia». La Parola sarà conosciuta nel suo senso profondo solo quando il credente avrà il coraggio di scommettere su di essa, un po’ come Pietro quando decide di obbedire a Gesù che lo invita a fare qualcosa di poco convincente e illogico: gettare la rete, in pieno giorno, dall’altra parte della barca. Pietro lo fa, ma solo «sulla tua parola» (Lc 5,5), perché è essa che glielo chiede. Così la Parola-del-giorno si compie, piano piano diventa chiara e comprensibile, si realizza nella vita di ogni giorno, esattamente come nel grembo di Maria: mistero grande e quotidiano!
«Beati i poveri in spirito…, gli afflitti…, i miti…» (Mt 5,3-12)
Gesù, il grande predicatore del regno dei cieli, annuncia le beatitudini. Lui, il beato per eccellenza, vuole che anche coloro che accolgono il Regno siano beati, cioè felici, gioiosi. Ma a quali condizioni? E qui appare la singolarità dell’annuncio: saranno felici e contenti in situazioni, umanamente parlando, per nulla contigue alla gioia, anzi, a essa opposte, almeno apparentemente.
In altre parole, la natura della felicità portata da Gesù non ha nulla in comune con la felicità di cui parla il mondo e che sembra naturale. La felicità cristiana è in certo senso contraria a quella del mondo, viene da altra fonte e ha criteri diversi, procede per altre vie, è un sovrappiù di una vita vissuta in pienezza come figli di Dio.
In questa prospettiva Gesù ci vuole sottrarre da quell’inganno nel quale erano caduti i nostri progenitori, per accogliere nella verità la gioia che il nostro cuore desidera e che Egli stesso desidera per ciascuno di noi.
Quale è stato l’inganno nel quale sono caduti i progenitori? È – lo ricordiamo brevemente – la pretesa di trovare la propria sazietà, realizzazione, gioia, nel prendere da sé il frutto dell’albero. Il discorso del serpente è apparso suggestivo ai progenitori perché ha toccato i sentimenti, il senso del limite e la relazione con l’Assoluto. Significativa è la descrizione delle risonanze interiori al discorso del serpente, che precedono la scelta peccaminosa: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6).
Il testo della Genesi pone come conseguenza del peccato la morte: «Qualora ne mangiassi moriresti» (2,17). Questa annotazione, in apparenza smentita dai fatti, rivela invece alcune dinamiche paradossali dell’agire umano di ogni tempo. Essa dice anzitutto che il peccato non porta mai ai risultati sperati, ma a una deprivazione delle proprie possibilità di vita. Il seguito del racconto precisa tuttavia che si tratta di una esperienza ben più complessa e articolata della mera morte fisica: la morte simboleggia la punizione che l’uomo dà a sé stesso, essa accompagna le sue azioni, i progetti, i pensieri, gli affetti. Segni chiari di tale morte sono proprio – come insegna anche sant’Ignazio – oscurità, tormenti, inquietudini, tristezza, accidia, disperazione.
Al contrario la beatitudine, la felicità, si realizza in colui che vive, come figlio, nell’amore, alla sequela del suo Signore. E’ una gioia “paradossale”, perché non toglie le contrarietà e le sofferenze: è la gioia concessa a chi, all’interno di tali situazioni, fanno esperienza dell’incontro con il Signore e del suo amore.
Il Maestro qui vuole dire che l’autentico credente è colui che in tutte quelle situazioni in sé negative (persecuzione, calunnie, ingiustizie, sopraffazioni, violenze…) ha scoperto la felicità, o ha imparato a sperimentare – in fondo ad esse – un’insperata e singolare presenza di Dio. Cristiano è colui che lentamente è cresciuto in questo sorprendente apprendimento esperienziale: ha imparato a godere proprio laddove l’uomo di solito non può che soffrire; a incrociare lo sguardo del Padre nel deserto della solitudine o dell’umana ingratitudine; a sentirsi da lui particolarmente custodito proprio quando si è abbandonati e traditi; prezioso ai suoi occhi quando non conti niente per nessuno; figlio suo pre-diletto quando la vita è violenta e chi hai amato ora ti si rivolta contro…. Al punto che questa esperienza è divenuta sapienza, nel senso latino del verbo sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!
C’è del paradosso in tutto ciò, ma solo fino a un certo punto: è già l’intuizione psicologica a ricordarci che la verità è spesso fatta di opposti, e che il senso pieno della vita lo sperimenta solo chi ha il coraggio di affrontare assieme le polarità contrastanti dell’umano esistere, ove l’una polarità convive con l’altra e ne ha bisogno per essere correttamente compresa, la illumina e ne è illuminata. Per questo, ad esempio, colui al quale le cose vanno sempre bene, stimato e benvoluto da tutti, senza problemi e sempre sull’onda del successo…, come potrà sperimentare la fame e sete di Dio, e poi la beatitudine corrispondente? Ma anche su un piano solo umano chi non ha mai assaggiato la solitudine che ne sa dell’intimità della relazione? Chi non ha provato l’abbandono o persino la disperazione come può rivolgersi a Dio e pregarlo come il conforto unico, l’amico sicuro, la speranza rocciosa, con la gioia che ne deriva? O pure chi non ha toccato il fondo della propria debolezza, come potrà scoprire la potenza della Grazia, o vantarsi addirittura della propria debolezza («quando sono debole è allora che sono forte», 2Cor 12,9)? Chi non ha mai rischiato di “annegare” nella constatazione della propria impotenza o nella sconfitta della propria presunzione, come potrà gridare a Dio nella verità: «Signore, salvami!»? (cfr. Mt 14,30). Quanti salmi raccontano la disfatta umana personale a vari livelli, da quello sociale-relazionale a quello psicologico e persino morale, come luogo imprevisto di grazia, come sorprendente inizio di un cammino nuovo, come contatto con un volto inedito di Dio, come purificazione del cuore e della mente, come salvezza e, infine, come esperienza di una gioia non solo umana!
La prova, in tal senso, è il marchio autenticante la gioia cristiana, una sorta di conditio sine qua non, per cui non è gioia cristiana quella che a lungo andare non viene autenticata e garantita dal passaggio provvidenziale della prova. Prova come categoria biblica, che non ha risparmiato la vita di alcun credente «amico di Dio», lungo la quale è cresciuta la fede di Abramo e dei nostri padri nella fede, o della quale ringraziare Dio perché segno del suo stile inconfondibile, perché così «ha fatto coi nostri padri» (Gdt 8,25); prova non come test per verificare la fede, ma come occasione di crescita nell’amore, prova come strumento di cui Dio si serve per chiederci qualcosa che noi non avremmo mai avuto il coraggio di sacrificargli spontaneamente. Per questo la prova è anche scuola di apprendimento della gioia, di una gioia nuova. Senza la prova, infatti, o non c’è gioia, o sarebbe ancora una volta debole e insignificante, vecchia e instabile e non credibile.
Allora la fede diviene sofferta e combattuta, ma solo allora è vera fede, poiché è passata attraverso la lotta con Dio. Prima Dio era conosciuto «per sentito dire» (Gb 42,5), ora il credente può dire di averlo visto coi propri occhi. Ed è passaggio indispensabile non solamente perché solo una fede sofferta diviene fede forte e davvero personale, vissuta sulla propria pelle, ma anche perché solamente chi soffre la propria fede può giungere a goderne, a sperimentarla come ciò che alla fine dà luce e pienezza alla vita, come felicità. Tale fede e solo una fede provata e goduta, a questo punto, può essere condivisa, coi fratelli credenti, anzitutto, per crescere assieme, e poi annunciata con coraggio e creatività a chi non crede.
«Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7): la gioia del perdono
La gioia di Dio. Gesù ci rivela quanto il Padre ha a cuore la nostra vita. E quanto Gesù stesso ha a cuore ciascuno di noi, giustificando così il so accogliere i peccatori ed offrire ad essi il perdono. Ce lo dice con la parabola della pecora smarrita. Nel racconto di Gesù stupisce il fatto che il pastore abbandoni il proprio gregge per andare in cerca della pecora che, testarda e disobbediente al pastore, o desiderosa di autonomia, o tentata da chissà quali altri pascoli, o semplicemente distratta, si è persa. Una corretta impostazione economica non prevede sempre i possibili “scarti di produzione”?
Per di più non è concepibile neppure il fatto che il pastore abbandoni il suo gregge nel deserto, ove le pecore sono esposte, senza alcuna protezione, alla voracità dei lupi o all'assalto dei ladri e briganti; piuttosto doveva affidarlo ai pastori che condividevano con lui il recinto (Lc 2,8), oppure sospingerlo dentro una grotta! Queste pecore avrebbero tutte le ragioni per lamentarsi, come avrà ragione il figlio perbene quando vedrà il padre ridividere il patrimonio con il figlio prodigo ritornato!
Infine come può Dio essere più contento di un solo peccatore che ritorna a lui che di novantanove giusti che ogni giorno gli obbediscono con fedeltà, magari a prezzo di grandi sforzi e sacrifici?
Tutti questi paradossi della “ingiustizia” di Dio, vogliono in realtà sottolineare che ciascuno di noi è preziosissimo agli occhi di Dio. Nessuno deve sentirsi escluso dall'attenzione di Dio. Dio ama ciascuno di noi come se non esistesse nessun altro, e continuamente ci cerca, ci conquista, ci seduce. Adamo ed Eva dopo il peccato si nascondono dal Signore, ma Dio li viene a cercare: “Il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: Dove sei?” (Gen 3,8-9). E' Dio che chiama Abramo (cfr. Gen 12,1-3), che si rivela a Mosè (cfr. Es 3,1-22). E' Dio l'Amante che nel Cantico cerca l'amata (cfr. Ct 2,8-17; 5,1-2). E' Dio che “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E' Dio che sta alla nostra porta e bussa (cfr. Ap 3,20). Quello di Dio è un amore senza riserva che ci precede, ci sostiene e ci chiama lungo il cammino della vita e ha la sua radice nell'assoluta gratuità di Dio.
Se ancora noi pensiamo di essere tra i “giusti”, forse dovremo umilmente riconoscere ancora di essere peccatori... di essere quella pecora cercata... Chi è mai davvero “giusto” di fronte a Dio? Qual è l’uomo vero? È colui che ha il coraggio di ammettere la propria debolezza e miseria, le proprie contraddizioni e negatività, gliene dispiace e le soffre dinanzi a Dio, se ne pente e chiede perdono… Questo e solo questo è l’uomo vero, poiché l’uomo è così.
“Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento...” (v. 5). Davanti ai nemici Gesù giustifica perciò il Vangelo che annunzia a favore dei peccatori e degli ultimi. Se è vero che il pastore gioisce per la pecorella ritrovata, così è Dio! Gesù, il “pastore bello” (Gv 10,11ss) per ricercare ogni peccatore perduto è disposto a pagare di persona: è la croce. Egli si rallegra per il peccatore pentito! E' contento di perdonare! E, una volta ritrovata la pecora, il perdono è totale: nessun rimprovero, nessuna percossa. La gioia del cuore è tanta che tutto il passato è dimenticato. Egli è il Pastore che si è fatto agnello: ha portato su di sé il peso della croce, cioè di tutto il peccato dell’umanità.
Evidentemente questo atteggiamento del Padre deve riflettersi anche su tutta la comunità cristiana, che insieme ai loro responsabili, cerca, trova e gioisce per il ritorno dei fratelli. Perciò la comunità ecclesiale – con il suo atteggiamento di fondo profondamente umano nei confronti dei peccatori (come il mangiare a tavola di Gesù con loro, che è il motivo dello sdegno dei farisei – 15,2) – deve far toccare con mano l’amore che il Padre ha per ogni persona.
La gioia del perdono. Se Dio è così, anche il credente, chiamato ad avere “gli stessi sentimenti – e quindi anche la gioia del perdono – che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), può provare tale gioia. Perdonare non è facile, ma possibile. E’ l’espressione più alta dell’amore.
Per il non credente sono molto più comprensibili le ragioni per non perdonare, che quelle del perdono. Vediamo quali sono le più consuete “ragioni” del non-perdono.
- Se mi vendico, starò meglio. Si tratta di un pregiudizio frequente in coloro che decidono di rifiutare il processo del perdono, ritenendolo — come notava Nietzsche — una rinuncia alla propria dignità, ai propri diritti, che invece verrebbero riaffermati da quella sorta di giustizia fai-da-te che è la vendetta. In realtà, la predisposizione d'animo ispirata alla vendetta conduce a coltivare atteggiamenti — come il risentimento e la ruminazione interiore — che avvelenano l'animo della persona, esasperandola, fino al punto di non riuscire più a trovare soddisfazione nella vita: «Il “regolamento di conti” che la vendetta promette è spesso più apparente che reale, poiché la perpetrazione di un torto crea una situazione di ingiustizia e disequilibrio che le vittime percepiscono non essere completamente compensata da atti di rivalsa»[6].
Difatti il senso di pacificazione interiore, proprio del perdono, non è paragonabile ai sentimenti provati da chi ha vendicato un torto subìto. Il primo è pacificante, il secondo distruttivo. Si tratta di una differenza confermata, anche sperimentalmente, a proposito del rancore e del risentimento. Rancore, odio sono atteggiamenti distruttivi anche sul piano della salute: tendono a far aumentare la pressione sanguigna, causano stress e pericoli di tipo cardiaco, sono alla base di disturbi psicosomatici legati alla tensione e alla ruminazione interiore (gastriti, ulcere). La decisione di perdonare, invece, si fa sentire anche sotto l'aspetto somatico/biologico. Nel momento in cui ci si pone in questo diverso atteggiamento, si percepisce un cambiamento interiore, avvertito anche a livello corporeo.
L’esperienza, inoltre, mostra che vendetta, anche se realizzata con successo, non reca mai la soddisfazione sperata, ma ulteriore sofferenza e dolore. Infatti si prova il rimorso e la sensazione di non essere stati molto diversi da chi si è voluto punire.
- Il perdono è una forma di debolezza. In realtà, esso è esattamente il contrario. Può perdonare solo chi è interiormente forte, chi ha saputo dare spazio a sentimenti e atteggiamenti che consentono di affrontare e apprezzare la vita, come l'empatia, la ristrutturazione cognitiva, il desiderio, la benevolenza. Essi sono indice di una libertà interiore che sfugge al meccanismo di stimolo-risposta, proprio del bambino e delle reazioni emotivamente primitive, ma sa considerare quanto accaduto da un punto di vista più ampio e complesso, notando cose nuove.
- Deve soffrire per ciò che ha fatto. Dietro questa affermazione c'è la credenza, erronea, che rifiutare il perdono sia una maniera di punire l'altro. In realtà accade esattamente il contrario: in tal modo si punisce solo se stessi, torturandosi e impedendo a se stessi di vivere. Non perdonando, ci si illude di esercitare un potere sull'altro, ma di fatto ci si amareggia senza pietà. Cedere questo potere è consentire a se stessi di ricominciare a vivere, di percorrere nuove strade; forse si comincerà anche a capire che l'altro è molto differente da come la fantasia lo raffigurava.
Perdonare è in definitiva un esercizio di realtà, che può far bene all'altro, ma soprattutto a se stessi. A ritrovare la pace. Anzi la gioia. Perché quando il perdono è dato con il cuore, cioè è dato da un cuore liberato dal proprio io e da ogni rancore, partecipa della stessa gioia di Dio.
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[1] Cfr. G. CUCCI, «La felicità. Gustoso anticipo di eternità», in La Civiltà Cattolica, 4000 (2017) 401-413.
[2] R. NOZICK, Anarchia, stato e utopia, Milano, il Saggiatore, 2008, 64; cfr G. SAMEK LODOVICI, L'utilità del bene: Jeremy Bentham, l'utilitarismo e il consequenzialisrno, Milano, Vita e Pensiero, 2004, 206.
[3] Sant’Ignazio di Loyola ci ricorda una verità fondamentale: che è proprio di Dio dare la gioia, la consolazione, la pace nell’anima.
[4] S. KIERKEGAARD, «Aut-aut», in ID., Opere, Firenze, Sansoni, 1972, 10.
[5] I. YALOM, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Boringhieri, 1997, 30. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita, Assisi (Pg), Cittadella, 2015.
[6] Ivi, 28.