Centralità teologica di Gesù
La storia di Gesù in Matteo è presentata come un viaggio. L’evangelista, riprendendo la vita di Mosé, trova, a partire da essa, l'interpretazione dell'intero avvenimento. “Egli vede la chiave per la comprensione nella parola del profeta: 'Dall'Egitto ho chiamato mio figlio' (Os 11,1). Osea racconta la storia di Israele come una storia d'amore tra Dio e il suo popolo. L'attenzione premurosa di Dio verso Israele, tuttavia, qui non viene illustrata con l'immagine dell'amore sponsale, ma con quella dell'amore dei genitori. Per questo Israele riceve anche il titolo di “figlio” nel senso di una figliolanza di adozione. L'atto fondamentale dell'amore paterno è la liberazione del figlio dall'Egitto. Per Matteo, il profeta qui parla di Cristo: Egli è il vero Figlio. È lui che il Padre ama e che chiama dall'Egitto.
Per l'evangelista, la storia di Israele ricomincia da capo e in modo nuovo con il ritorno di Gesù dall'Egitto alla Terra Santa. Certo, il primo appello al ritorno dal Paese della schiavitù era, sotto molti aspetti, fallito. In Osea la risposta alla chiamata del Padre è un allontanarsi da parte dei chiamati: 'Più li chiamavo, più si allontanavano da me' (11,2). Questo allontanarsi di fronte alla chiamata alla liberazione conduce ad una nuova schiavitù: 'Deve ritornare all'Egitto, Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi' (11,5). Così Israele, per così dire, continua ad essere ancora e sempre di nuovo in Egitto. Con la fuga in Egitto e con il suo ritorno nella Terra promessa, Gesù dona l'esodo definitivo”[1]. È il definitivo Mosé che conduce alla libertà. Egli, che è il vero Figlio, riporta tutti noi dall'alienazione verso casa. Il male dell’uomo, dunque, non vanifica la promessa di Dio. Anzi, la realizza nel Giusto che non lo fa e lo porta su di sé, compiendo ogni giustizia (cfr. 3,15).
Il brano rappresenta anche la lotta tra il bene e il male, il dramma del giusto perseguitato dall'empio. Infatti da una parte c’è il re e dall’altra il bambino: il buono è perseguitato dal malvagio, il bene è perdente, il male sempre più forte. Ma alla fine vince l’innocente, proprio con il suo sangue. La storia, da vittoria dei potenti e massacro degli innocenti, diventa la storia del Figlio prediletto, che salva i fratelli che l’hanno venduto (cfr. Gen 50,20). Le macchinazioni del male, alla fine, senza saperlo eseguono ciò che la sua mano e la sua volontà aveva preordinato che avvenisse (At 4,28; Ap 17,17). Infatti a somiglianza di Israele Gesù sarà liberato dal suo esilio finale, cioè dalla morte in croce; è il Signore, il Risorto che riconduce non solo Israele ma tutti i popoli alla terra promessa. Dio è il Dio della storia: pur rispettando la nostra libertà, onora divinamente la sua!
Questo brano evangelico - letto nel contesto della festa della Santa Famiglia (domenica nell'ottav.a di Natale) - ci ricorda anzitutto questo: nelle famiglie cristiane deve rimanere al centro Cristo. Gesù è colui che salva la famiglia da ogni deriva di egoismo, di violenza, di divisione e, in positivo, rende possibile un vissuto familiare nel quale si manifesta la potenza dell'amore di Dio tra le persone che ne fanno parte. La famiglia ove regna Cristo è visibilità della presenza di Dio nella storia, è volto del Dio trinitario, è espressione della potenza del mistero pasquale. Se Dio c'è e agisce nella storia e nelle persone lo si dovrebbe vedere in modo evidente nel vissuto familiare, perché lì dove c'è l'amore - nelle sue diverse espressioni - c'è Dio. "L'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore" (1Gv 4,7-8)
Come accogliere il Signore? Preghiera e affidamento a Maria
“Essi (i magi) erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe”. Ancora una volta l’angelo rivela la volontà divina a Giuseppe in sogno. Il sogno è simbolo della passività dell’uomo. È all’interno di essa che Giuseppe accoglie la rivelazione. Per noi credenti il luogo privilegiato per ascoltare la voce del Signore è la preghiera. È in essa che, spegnendo tutte le alte luci, tutti gli altri suggerimenti, ci poniamo in ascolto di ciò che il Signore vuole da noi, per seguire ciò che lui ci indica.
Inoltre il fatto che Giuseppe, come il suo omonimo venduto dai fratelli, sia un sognatore, vuol dire che nella profondità del suo cuore puro egli ha lo spazio per accogliere i sogni di Dio. Qual è il sogno di Dio? Che Gesù salvi l’umanità, che Gesù possa liberare l’umanità dall’Egitto e condurla verso la vera terra promessa, la comunione con Dio, vivendo già da figli di Dio, e un giorno giungere alla patria celeste. Questo è il “sogno” che Dio realizzerà.
“Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto…”. L’angelo nomina prima il bambino e poi sua madre. Maria qui è citata per ultima: lei è sempre al servizio di Gesù. E lo sarà per sempre: una maternità che si esprimerà nel diventare prima discepola di Gesù: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,50), dirà Gesù al termine dell’episodio del ritrovamento al tempio, correggendo così il modo della ricerca di Gesù da parte di Maria e Giuseppe, che; e, più avanti, Gesù ormai adulto dirà: “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50). La sua maternità si estenderà, dopo la risurrezione, ad una maternità nuova, quella di generare nuovi figli alla fede, di generare il corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. Maria sarà sempre al servizio di questa vocazione. Accogliere Maria significa lasciarci guidare da lei ad accogliere Gesù. E ad imparare ad accoglierlo come (nella modalità che) ha fatto lei: nel riconoscimento della nostra piccolezza (umiltà), nel silenzio in cui risuona la parola, nel custodirla nel nostro cuore, nella fede e nella speranza, nella docilità allo Spirito Santo, nel generoso servizio ai fratelli ...
“Erode vuole infatti cercare il bambino per ucciderlo”. Nell’anno 7 a.C., Erode aveva fatto giustiziare i suoi figli Alessandro e Aristobulo perché sentiva minacciato il proprio potere da loro. Nell’anno 4 a.C. aveva eliminato per lo stesso motivo anche il figlio Antipatro. Egli ragionava esclusivamente secondo le categorie del potere. La notizia di un pretendente al trono, appresa dai Magi, lo aveva allarmato.
Certamente, al di là del fatto storico, è interessante il paragone con la haggadah di Mosé. Quest’ultima racconta che esperti della Scrittura avevano predetto al re che in quell’epoca sarebbe dovuto nascere da stirpe ebrea un bambino che, una volta adulto, avrebbe distrutto il dominio degli Egizi e reso invece potenti gli Israeliti. In seguito a ciò, il re avrebbe ordinato di buttare nel fiume ed uccidere tutti i bambini ebrei subito dopo la nascita. Al padre di Mosé, però, sarebbe apparso Dio in sogno e avrebbe promesso di salvare il bambino[2]. Ancora una volta questa analogia – presa però dalla tradizione ebraica – illumina chi è Gesù: il nuovo e definitivo Mosé.
Fede di Giuseppe e di Maria
“Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto…” (v. 14). Nella notte Giuseppe si “alzò” ed esegue alla lettera la volontà divina. Non dice nulla. Esegue prontamente, così come già fece quando prese con sé Maria in Mt 1,24. In questo Giuseppe ci richiama la figura di Abramo, padre della fede, al quale Dio aveva detto: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gen 12,1). E il testo biblico continua: “Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore…” (Gen 12,4). Non solo Abramo non dice una parola, esegue immediatamente ciò che Dio gli ha chiesto, e lo fa “come”, cioè nella “modalità” che il Signore voleva, cioè come un distacco dalla casa di suo padre, una uscita da quella situazione di morte che regnava in quella famiglia. Similmente possiamo pensare che anche Giuseppe non solo obbedisce prontamente, ma lo fa nella modalità giusta, gradita al Signore: lo fa senza preoccuparsi di se stesso, al solo servizio di Gesù e di Maria. E quindi anche al servizio di quell’opera salvifica che si realizzerà in Gesù.
“… e sua madre”. Anche se qui non viene evidenziato alcun ruolo attivo di Maria (sembra semplicemente essere “presa” da Giuseppe), certamente ella non ha subito passivamente gli eventi, ma nella sua fede ha accolto anche questa fuga in Egitto come espressione di quella volontà divina che agisce nella storia per vie non immaginabili dall’uomo. Così lei, che ha accolto dalle parole dell’angelo la promessa che suo figlio “sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signor Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine” (Lc 1,33), continua a credere nonostante ora il futuro re deve essere salvato dall’ira del re Erode. Non ha nemmeno bisogno di chiedere: “Come avverrà questo?” (Lc 1,34), perché già l’angelo di Dio ha parlato in sogno a Giuseppe.
In Giuseppe e Maria contempliamo quindi la grande fede in Dio – fede come abbandono - che li ha sorretti in tutti gli eventi della loro vita. E non solo: la loro è una fede che cerca di comprendere il modo di agire divino, le vie ben diverse dalle vie degli uomini: è una fede illuminata. Già Giuseppe era stato presentato da Matteo come l’uomo “giusto” (1,19) che vive in intenso contatto con la Parola di Dio; che “nella legge del Signore trova la sua gioia” (Sal 1,2): e Maria, in Luca, è colei che “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19).
“si rifugiò in Egitto”. Come già il Giuseppe sognatore, venduto dai fratelli, scese in Egitto, e da lì iniziò una storia di riconciliazione con i fratelli, così anche Giuseppe va in Egitto. Ma la riconciliazione vera tra i fratelli si avrà con Gesù, liberandoci dalla schiavitù del peccato.
L’Egitto, tra l’altro, è anche simbolo del disastro dell’esilio dovuto al peccato del popolo.
“dall’Egitto chiamai mio figlio” (v. 15). In Gesù – come sopra detto – si realizza il nuovo e definitivo esodo. Ed è, allo stesso tempo, dopo l’esperienza dell’esilio, l’inizio di una nuova primavera tra Dio e il suo popolo: la sposa adultera torna all’amore della sua giovinezza.
La Santa famiglia in Egitto, in un contesto culturale e religioso molto diverso
Se questo è il piano divino, certamente nella concretezza del vissuto familiare la permanenza in Egitto non deve essere stata facile per la sacra famiglia. Dovranno soggiornare per lungo tempo in un paese non solo culturalmente diverso, ma anche religiosamente politeista. In questo avvertiamo la santa famiglia molto vicina alla situazione scristianizzata e idolatrica che vivono le famiglie cristiane in Europa. Il fascino di una logica diversa da quella del vangelo, la cultura del permissivismo, l'idolo del denaro, ecc., sono una continua tentazione. Rimanere saldi nella fede, specie quando il cristiano è indicato come colui che vive un mondo ormai antiquato, sorpassato di gran lunga dal progresso e dallo sviluppo culturale, non è sempre facile. Si rischia l'emarginazione, se non forme di persecuzione non violenta, ma altrettanto penosa.
In Egitto Giuseppe dovrà cercare un impiego per poter sopravvivere insieme a Maria e al bambino. Se allora, al tempo di Mosé, gli ebrei in Egitto erano pastori – quindi possedevano armenti -, la sacra famiglia non possiede nulla, e in tutto deve confidare (sebbene non passivamente) nella provvidenza divina. Anche in questo sentiamo la sacra famiglia vicina a tante famiglie che oggi hanno un lavoro precario e fanno fatica ad andare avanti.
“dove rimase fino alla morte di Erode…”. I tre rimasero in Egitto fino alla morte di Erode, quindi fino a marzo-aprile del 4 a.C. Se Gesù nacque con tutta probabilità nel 7 a.C., ciò vuol dire che la sacra famiglia rimase in Egitto per almeno due anni e mezzo.
Il ritorno in terra d'Israele
Dopo il racconto della strage degli innocenti (Mt 2,16-18), ricompare con grande rilievo la figura di Giuseppe. Due volte riceve un ordine in sogno e, in questo modo, appare di nuovo come colui che ascolta ed è obbediente e, insieme, è anche deciso e giudiziosamente operativo. Prima gli viene detto che Erode è morto e che quindi per lui e per i suoi è arrivata l'ora del ritorno.
“Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra di Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino” (v. 19). Queste parole riecheggiano un passaggio della storia di Mosé: “Il Signore disse a Mosé in Madian: ‘Va’, torna in Egitto, perché sono morti quanti cercavano la tua vita’ ” (Es 4,19). Ritorna qui, ancora una volta, i paragone della vita di Gesù con quella di Mosé.
Così egli “si alzò, prese il bambino e sua madre, ed entrò nella terra d'Israele” (2,21). Giuseppe viene a sapere che Archelao, il più crudele dei figli di Erode, regna in Giuda. Non può quindi essere lì – cioè Betlemme – il suo luogo di residenza della sua famiglia.
“Avvertito poi in sogno…”. Giuseppe riceve nel sogno l'indicazione di andare in Galilea. Comincia qui la vita umile e ritirata nel quotidiano di Gesù, che durerà trent’anni.
“Appena giunto in Galilea andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: ‘Sarà chiamato Nazoreo’”. Ora non c’è nessun profeta e nessun passo dell’Antico Testamento che citi questa frase, né tantomeno che parli di Nàzaret. Matteo lo sa bene. E sa di dire la verità. Non dice infatti: “Ciò che fu detto dal profeta”, bensì “Ciò che fu detto dai profeti”.
Ma dove trova fondamento, nei profeti, questa parola di speranza? Secondo Ratzinger “esistono due linee principali di soluzione. La prima rimanda alla promessa della nascita del giudice Sansone. Di lui l'angelo, che annuncia la sua nascita, dice che sarebbe stato un 'nazireo', consacrato a Dio fin dal seno materno, e questo – come riferisce la madre – 'fino al giorno della sua morte' (Gdc 13,5-7). Contro questa derivazione etimologica della qualifica di Gesù come 'nazoreo' parla il fatto che Egli non ha corrisposto ai criteri del nazireo, menzionati nel libro dei Giudici, in particolare a quello del divieto dell'alcol. Egli non è stato un 'nazireo' nel senso classico della parola. Tale qualifica, però, vale per Lui, che era totalmente consacrato a Dio, consegnato in proprietà a Dio, dal seno materno fino alla morte, in un modo che supera di gran lunga esteriorità del genere. Se riandiamo a ciò che Luca dice sulla presentazione-consacrazione di Gesù, il 'primogenito', a Dio nel Tempio, o se teniamo presente come l'evangelista Giovanni mostri Gesù come Colui che viene totalmente dal Padre, vive di Lui ed è orientato verso di Lui, allora si rende visibile con straordinaria intensità come Gesù sia stato veramente un consacrato a Dio, dal seno materno fino alla morte in croce.
La seconda linea di interpretazione parte dal fatto che, nel nome 'nazoreo', si può sentire echeggiare anche la parola nezer che sta al centro di Is 11,1: 'Un germoglio (nezer) spunterà dal tronco di Iesse'. Questa parola profetica è da leggere nel contesto della trilogia messianica di Is 7 ('La vergine partorirà'), Is 9 (luce nelle tenebre, 'un bambino è nato per noi') e Is 11 ('il germoglio dal tronco, sul quale si poserà lo spirito del Signore). Poiché Matteo si riferisce esplicitamente a Is 7 e 9, è logico supporre in lui anche un accenno a Is 11. L'elemento particolare di questa promessa è il fatto che essa si riallaccia, al di là di Davide, al capostipite di Iesse. Dal tronco, apparentemente morto, Dio fa spuntare un nuovo germoglio: pone un nuovo inizio che, tuttavia, rimane in profonda continuità con la precedente storia della promessa. Come non pensare, in questo contesto, alla conclusione della genealogia di Gesù secondo Matteo – genealogia che, da una parte, è caratterizzata totalmente dalla continuità dell'agire salvifico di Dio e, dall'altra, alla fine si capovolge e parla di un inizio tutto nuovo, con cui Dio stesso interviene, donando una nascita che non proviene più da un 'generare' umano? Sì, possiamo supporre con buone ragioni che Matteo, nel nome di Nazareth, abbia sentito echeggiare la parola profetica del 'germoglio' (nezer) e nella qualifica di Gesù come 'nazoreo' abbia visto un accenno all'adempimento della promessa, secondo cui Dio, dal tronco morto di Isaia, avrebbe donato un nuovo virgulto, sul quale si sarebbe posato lo Spirito di Dio. Se aggiungiamo che, nell'iscrizione sulla Croce, Gesù è stato qualificato 'nazoreo' (ho Nazōraîos) (cfr. Gv 19,19), il titolo acquisisce il suo significato pieno: ciò che inizialmente, allude tuttavia contemporaneamente alla sua natura: Egli è il 'germoglio'; Egli è Colui che è totalmente consacrato a Dio, dal seno materno fino alla morte”[3].
A queste due interpretazioni ne aggiungiamo una terza, che mi sembra più appropriata. La parola “nazareno” deriverebbe dal verbo nesar, che significa “proclamare”, come si legge in Is 31,6: “Verrà il giorno in cui nosrim grideranno sulla montagna di Efraim: ‘Su, saliamo a Sion, andiamo dal Signore, nostro Dio” (Is 31,6). Perché ci sembra il senso più appropriato? Perché Gesù inizierà a proclamare il Vangelo proprio dalla Galilea. All’inizio del terzo capitolo l’evangelista Matteo ci dice che Gesù, dalla Galilea, va al Giordano da Giovanni Battista, per farsi battezzare. In seguito, dopo l’arresto di Giovanni, Gesù si ritira in Galilea e comincia a predicare da lì. Ed è proprio in questo contesto che Matteo (4,13) vede realizzata la profezia di Isaia 8,23-9,2 sulla grande luce che risplende sulla “Galilea delle genti”. Ed è da qui, la regione (la Galilea, che significa distretto, e ha, anche la stessa radice del verbo galah, che significa deportare, ridurre in schiavitù, da cui deriva galut, deportazione, esilio) che ha conosciuto per prima la deportazione, che Gesù inizia la sua missione, secondo la Scrittura. Per cui “sarà chiamato il Nazareno” equivarrebbe a “sarà chiamato il Galileo”, poiché la “Luce delle genti” avrebbe cominciato a brillare sulla “Galilea delle genti”.
Paternità di Giuseppe
Matteo, a differenza di Luca, non ci dice nulla della vita della sacra famiglia nei suoi lungi anni a Nazareth. Certamente in questa città di frontiera ricevette l'educazione umana e religiosa. Gesù, come tutti i bambini di allora, frequentò la sinagoga, dove imparò a leggere, a scrivere e a conoscere la Torah. Ma molto importante è stata anche l'educazione ricevuta dai genitori. Giuseppe è stato un vero e proprio padre per Gesù; è stato lui a comunicargli i valori che caratterizzavano la tradizione ebraica e che lui, uomo "giusto", viveva. Probabilmente certi valori che hanno caratterizzato la persona di Gesù adulto, come ad esempio la capacità di dimenticare se stesso per gli altri, l'onestà, la rettitudine, l'attenzione al povero e gli ultimi, l'allergia all'ipocrisia, ecc., li ha ricevuti fin da bambino da Giuseppe. Oggi, in un tempo di crisi della paternità, ricorrere a San Giuseppe può essere profiquo per tanti padri per riscoprire e vivere la bella, seppur impegnativa, vocazione che hanno ricevuto da colui che per primo è Padre!
____
[1] J. Ratzinger, L'infanzia di Gesù, Rizzoli, Milano 2012, p. 129.
[2] Ibid., pp. 127-128.
[3] Ibid, pp. 134-136.