La dinamica del pettegolezzo
A un'analisi attenta delle modalità comunicative si constata quanto sia diffuso il fenomeno del pettegolezzo, al punto che esso contribuisce a creare un vero e proprio stile comunicativo, non solo personale, ma anche di gruppo. Non di rado si è talmente coinvolti in questo meccanismo da non percepire più il limite tra la constatazione oggettiva dei fatti, che può anche prevedere la critica costruttiva, e il parlare malevolo verso qualcuno. Ciò si verifica lì dove non si condivide più la propria esperienza di vita, ma piuttosto quella degli altri, soprattutto degli assenti, dei quali vengono sottolineati aspetti curiosi, difetti, fatti inerenti alla sfera privata e affettiva, con l'intento di riderci sopra; ma nei casi più gravi, anche con lo scopo di denigrare e distruggere la fama della persona interessata.
Viene da chiedersi quale e quanto sia il grado di incidenza della società nel portare avanti la tradizione del pettegolezzo, cioè se prima ci sia la società pettegola, che genera nuovi pettegoli o viceversa. Certamente possiamo stabilire una stretta connessione: il pettegolo ha sempre dietro le spalle una tradizione pettegola che spesso viene assunta, anche inconsapevolmente, nel proprio modo di comunicare. Nello stesso tempo il pettegolo contribuisce a portarla avanti, a meno che — come vedremo — non prenda la decisione di cambiare rotta, di rompere con gli schemi abituali, per acquisire uno stile comunicativo nuovo, più rispettoso della vita privata dell'altro.
All'interno di questa « catena informativa » che permette al pettegolezzo di acquisire sempre maggior forza e di continuare la sua corsa, si giocano ruoli diversificati: « Si va dall'iniziatore, figura difficile da definire e rintracciare, all'interprete, una specie di opinion leader che certifica, se non l'autenticità, almeno la rilevanza della notizia. Ci sono poi gli interessati, ovvero coloro che traggono un vantaggio dal pettegolezzo, quindi i divulgatori, gli entusiasti che lo rilanciano con il loro convinto atteggiamento, fino ad arrivare ai resistenti, ovvero a coloro che si impegnano per dimostrarne l'inconsistenza »[1].
Ma come nasce un pettegolezzo? Quali sono le dinamiche che lo sostengono e lo alimentano fino a farlo diventare un dato acquisito nella comunità?
La risposta non è semplice, in quanto alla base ci possono essere situazioni diverse, che a loro volta cambiano a seconda degli attori che entrano in scena. Inoltre, l'evoluzione di un pettegolezzo può avere tempi e modalità diverse in relazione agli ambienti in cui nasce o alle modalità adoperate per alimentarlo e mantenerlo in circolazione.
Per capire l'evoluzione di un pettegolezzo o di una calunnia possiamo riferirci alla celebre aria del Barbiere di Siviglia, di Gioacchino Rossini. Si tratta dell'episodio dove don Basilio suggerisce a don Bartolo di screditare e calunniare il conte. Nel testo scritto da Cesare Sterbini viene descritto, con ricchezza di immagini, l'evoluzione della parola malevola, in questo caso di una calunnia, dal suo esordio frivolo e apparentemente innocuo, fino al suo epilogo drammatico: «La calunnia è un venticello, un'auretta assai gentile. Che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente, incomincia a sussurrar. Piano piano, terra terra, va scorrendo, va ronzando. Nelle orecchie della gente si introduce destramente, e le teste ed i cervelli, fa stordire e fa gonfiar. Dalla bocca fuori uscendo, lo schiamazzo va crescendo. Prende forza a poco a poco, scorre già di loco in loco. Sembra il tuono, la tempesta che nel sen della foresta, va fischiando, brontolando e ti fa d'orror gelar. Alla fin trabocca e scoppia. Si propaga, si raddoppia. E produce un'esplosione, come un colpo di cannone, un tremuoto, un temporale, un tumulto generale che fa l'aria rimbombar. E il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello, per gran sorte va a crepar »[2].
La lettura attenta del libretto ci fa notare il progressivo prendere forza della parola che, passando di bocca in bocca, di luogo in luogo, si propaga e si raddoppia, fino a non poter più essere controllata. Diventa chiaro come tale evoluzione avvenga in quanto trova un terreno favorevole e accondiscendente. Il pettegolezzo infatti può continuare a vivere e a diffondersi solo se trova alleati, collaboratori disposti a tenere alto il suo interesse, contribuendo alla sua diffusione.
Continuando la lettura di tale fenomeno e delle sue dinamiche, possiamo affermare che molti pettegolezzi nascono da un fatto realmente accaduto, una situazione di vita di una persona o di una famiglia di cui si è venuti a conoscenza, un discorso o una semplice parola ascoltata, uno sguardo, un atteggiamento, un comportamento e così via. A volte si è stati anche protagonisti di tali avvenimenti o di determinati discorsi, oppure si accoglie quanto riferito da altri.
In alcuni casi la constatazione oggettiva delle situazioni o la loro narrazione avviene in modo lineare e pacifico, senza sfociare nel pettegolezzo. Taluni infatti, per una correttezza morale e un grande senso della giustizia e della verità, riescono a condividere con gli altri le vicende delle persone, mediante una narrazione rispettosa del suo significato, mantenendosi al di sopra dei giudizi o delle critiche e quindi evitando di innescare meccanismi comunicativi degeneranti. Ma non sempre le cose stanno così, in quanto le dinamiche comunicative spesso portano a esiti completamente diversi. Sappiamo infatti quanta fatica costa mantenere alto il livello della comunicazione, conservando il giusto riserbo sulle questioni che riguardano la vita privata degli altri. Inoltre non bisogna dimenticare che in tale meccanismo entrano in gioco altri elementi: le fragilità umane, le abitudini contratte nel tempo, il proprio carattere, gli impulsi, le emozioni non controllate, le ferite o semplicemente una buona dose di cattiveria. Di conseguenza non sempre una situazione, un fatto, una parola sono condivise in modo rispettoso e coerente, cioè come semplice scambio di informazioni. Anzi queste spesso diventano oggetto di una personale interpretazione dove, per alcuni motivi che analizzeremo, il significato originale viene parzialmente o totalmente stravolto, amplificato, cambiato, rispetto alle situazioni iniziali vissute o ascoltate dalla narrazione di qualcuno. Tale stravolgimento interessa anche l'ambito della comunicazione non verbale, per cui uno sguardo può non essere colto nel suo vero significato, un atteggiamento o un comportamento possono essere fraintesi e così via.
Dobbiamo precisare che non sempre c'è l'intenzione di costruire una diceria con lo scopo di fare del male a qualcuno o di metterlo in cattiva luce. In alcuni casi, invece, questa ri-significazione ha una chiara premeditazione malevola, volta a creare interesse, curiosità, novità, attorno alla vita di qualcuno che non è presente, per screditare le sue scelte, il suo modo di vivere e quindi attentare alla sua reputazione. In questo caso parliamo di pettegolezzo maligno, fino ad arrivare alle forme più degenerative della calunnia e della diffamazione.
Pertanto, se i pettegolezzi sono antichi quanto l'uomo e se nel corso dei secoli hanno sempre trovato nuove strategie per diffondersi, non possiamo non sottolineare come tale fenomeno in questi ultimi decenni sia stato particolarmente amplificato dall'avvento dei social network. In tali piattaforme digitali una notizia, un fatto, una curiosità vengono messi in circolazione in maniera esplosiva e in tempo reale, senza neppure immaginare le conseguenze che questo può provocare. Il passaparola digitale è talmente libero e senza controllo che facilmente può generare malintesi. Un fatto può essere cambiato, amplificato, storpiato o anche totalmente stravolto, a discapito soprattutto delle persone interessate che si ritrovano al centro di quello che possiamo chiamare « cortile virtuale », dove si viene presi di mira, offesi, calunniati fino all'estremo. Sono tante le storie drammatiche che potremmo raccontare, fino ai recenti fatti di cronaca che hanno visto protagonisti adolescenti e giovani morti suicidi a causa di questo terrorismo pettegolo e bullista[3].
Le cause del pettegolezzo
Addentrandoci nei meandri di questo fenomeno così pervasivo e tentacolare, ci rendiamo conto delle molteplici cause che portano al nascere del pettegolezzo. Alcune di queste sono di carattere sociale, dovute all'ambiente in cui si vive, che spesso favorisce il nascere di tale modalità comunicativa deviata, come anche la continuità di quella che abbiamo chiamato « tradizione pettegola ». All'interno di questa tradizione si possono rintracciare altre cause legate a fattori più personali, a predisposizioni caratteriali, che favoriscono il nascere di tale condotta. Pertanto il pettegolezzo costituisce il riflesso tangibile di un vissuto ferito e segnato da molteplici contraddizioni. Un breve excursus può aiutare a sottolineare alcuni aspetti, che entrano in gioco nella dinamica del pettegolezzo, favorendone il suo nascere, il diffondersi e il perdurare.
L’abitudine
L'usanza di parlare male di qualcuno rientra a pieno titolo tra le cause del pettegolezzo e si colloca tra quei fattori sociali e ambientali di cui abbiamo parlato. L'abitudine, in quanto ci fa percepire come normale tale modo di esprimersi, narcotizza la coscienza morale, per cui non ci si rende conto del male che si sta compiendo e non si percepisce più il confine tra il bene e il male. Ne sono prova alcune espressioni ormai entrate nel linguaggio comune, che manifestano chiaramente questa anestetizzazione della coscienza: « Che male c'è? Tutti lo fanno ». « È più forte di me; neanche me ne rendo conto », oppure l'espressione proverbiale volta a giustificare il pettegolezzo: « Parlare bene o male di qualcuno, l'importante è parlarne ». L'abitudine contiene un potenziale negativo che lentamente porta alla perdita della speranza, della gioia e dell'entusiasmo, lasciando spazio alla tristezza.
In ambito religioso l'abitudine è un grande male, perché produce lentamente un appiattimento della vita spirituale, che di conseguenza si trasforma in una serie di pratiche rituali, fredde, dove prevale la meccanicità delle parole e dei gesti, piuttosto che il sentimento di amore verso Dio. È la logica farisaica di chi vive la fede riducendola all'osservanza fredda e precisa delle regole.
Si può scadere nel facile pettegolezzo per abitudine, contribuendo — senza accorgersene — ad alimentare il chiacchiericcio su una determinata situazione o persona, non pensando alle conseguenze che ciò può causare. L'abitudine di parlare male degli altri crea un vero e proprio circolo vizioso, una malattia contagiosa difficilmente guaribile se non si prende coscienza delle sue dinamiche perverse e distruttive. Ecco a tal proposito il pensiero di papa Francesco, in una meditazione tenuta a casa Santa Marta: « Noi siamo abituati alle chiacchiere, ai pettegolezzi. Ma quante volte le nostre comunità, anche la nostra famiglia, sono un inferno dove si gestisce questa criminalità di uccidere il fratello e la sorella con la lingua »[4]. Si sottolinea come i pettegolezzi siano diventati un'abitudine, un modo di esprimersi che rientra nella normalità dei discorsi, un vero e proprio stile di vita, la cui gravità non viene più percepita. Non stupisce che tali modalità comunicative si riscontrino in quei contesti relazionali dove, al contrario, ci si dovrebbe custodire a vicenda. Mi riferisco alle famiglie, alle comunità cristiane, ai contesti lavorativi e ad altre forme di aggregazioni, dove spesso si verificano situazioni gravi, dovute alle gelosie, alle invidie e quant'altro, che diventano occasioni di critica e pettegolezzo e le cui conseguenze ledono la dignità dell'altro, fino al punto da poter parlare di una forma sottile di « criminalità ».
L’invidia
Essa costituisce indubbiamente una delle cause scatenanti del pettegolezzo. Si tratta di un sentimento che nasce con l'uomo stesso e che manifesta una forte personalità narcisistica, totalmente rivolta verso il proprio io. Solitamente l'invidioso è uno che non sa vivere insieme agli altri, perché non sa apprezzare il bello degli altri e non accetta che qualcuno possa essere migliore o più capace. L'invidioso, insomma, si tortura e soffre terribilmente se si accorge che l'altro ha più di quanto egli ha o è.
Nell'Esortazione apostolica Amoris laetitia, a questo proposito viene sottolineato come «l'invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l'amore ci fa uscire da noi stessi, l'invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell'invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro »[5].
L'invidioso quindi nega la fraternità e, prima o poi, mette in atto tutte le strategie possibili per eliminare l'altro, considerato come un rivale. È la storia di Caino che uccide Abele perché non sopporta un fratello migliore di lui, i cui doni e sacrifici sono più graditi al Signore (cfr. Gen 4,4-5). È la vicenda di Giuseppe che viene venduto dai fratelli perché invidiosi della preferenza che il padre ha nei suoi confronti (cfr. Gen 37,1-36). È la storia di tanti uomini e donne, che segna drammaticamente le relazioni fraterne, che spezza i vincoli familiari, che incrina i rapporti di amicizia, che distrugge la comunione di un gruppo o di una comunità. Essa costituisce un grave peccato contro la carità fraterna, ma anche contro Dio, tanto che san Francesco nelle sue Ammonizioni paragona l'invidia al peccato di bestemmia: « Perciò, chiunque invidia il suo fratello riguardo al bene che il Signore dice e fa in lui, commette peccato di bestemmia, poiché invidia lo stesso Altissimo, il quale dice e fa ogni bene »[6].
L'invidia è capace di tutto, offusca la mente, è piena di rabbia, di odio e rende capaci di mettere in atto parole e azioni irragionevoli. E quando non può raggiungere i suoi obiettivi, ecco che si vendica sfoderando la sua arma più tagliente: il pettegolezzo in tutte le sue forme, purché l'altro in qualche modo venga colpito e messo in cattiva luce, offendendo la sua dignità con falsità, insinuazioni malevole, calunnie e diffamazioni.
La ricerca del consenso
Un'altra delle cause che portano al pettegolezzo è la ricerca smodata del consenso. Si tratta di un atteggiamento che riflette la mancata accettazione di se stessi e una insicurezza di fondo, che porta a ricercare continuamente l'approvazione altrui, per sentirsi confermati nelle proprie scelte e appagati nei propri desideri. Chi cerca il consenso degli altri è una persona fondamentalmente egocentrica, che ha bisogno di essere sempre al centro dell'attenzione, che non sopporta il confronto e la sana competitività. Spesso tale consenso viene ricercato anche attraverso modalità comunicative non opportune, dove le parole vengono usate per screditare l'altro, pur di apparire migliori. Per cui il parlare male di qualcuno, attraverso le varie forme di pettegolezzo, permette di mettersi in risalto, arrogandosi il diritto di dire una parola sull'altro, di proferire sentenze, di giudicare, di criticare, fino ad arrivare alle forme estreme della calunnia e della diffamazione. Si tratta in fondo di una forma di volontà di potere sull'altro, che si pretende di porre sotto il proprio controllo, seguendo i movimenti della sua vita privata. L'obiettivo che si vuole raggiungere è quello di trovare nuove informazioni e, nel breve tempo possibile, perché si possa avere l'esclusiva di nuovi pettegolezzi e quindi ottenere ulteriori consensi. Su questo tema trovo interessante il saggio di Stefano Guarinelli, dove vengono elencati i cosiddetti « ingredienti psicodinamici » del pettegolezzo, e si precisa come esso costituisca « una forma di potere. Piaccia o non piaccia, sembri o non sembri eccessivo ricorrere al termine stesso di potere, le cose stanno così. Ove potere, evidentemente, non corrisponde necessariamente all'ambizione di giungere a ruoli di governo »[7].
Il rancore
Una delle cause più comuni che portano a parlare male del fratello è il rancore. È un sentimento molto diffuso, che nasce da una ferita dovuta a un torto subito, da una delusione, dal mancato chiarimento in seguito a una situazione vissuta male o fraintesa, da una malattia o da un lutto non accettati... Si tratta di un modo malato di vivere la relazione che, per vari motivi, si è incrinata e che si fatica a ricomporre. Esso si declina in modi diversificati e si manifesta come rancore verso se stessi, gli altri e Dio.
Quando il rancore viene covato lungamente nel cuore, intacca la qualità stessa della vita relazionale, in quanto procura un annebbiamento del giudizio critico. Le valutazioni sugli altri non vengono fatte nella verità e nella libertà, perché si è divenuti prigionieri del proprio punto di vista « rancoroso »: tutto viene filtrato in modo restrittivo e negativo attraverso di esso. Il rancore porta a concentrarsi in modo ossessivo su un determinato avvenimento, su un atteggiamento, su una parola non compresa, su progetti falliti, su aspettative non soddisfatte, a tal punto da portare a prendere le distanze da tutti coloro che, in qualche modo, sono considerati causa del proprio malessere. Una cosa è certa: il rancore porta alla perdita della pace interiore e non permette di affrontare serenamente la propria vita, in quanto questo sentimento corrode la propria esistenza determinando, in alcuni casi, il sorgere di patologie fisiche e psichiche.
Tra le varie manifestazioni del rancore, accanto all'odio, alla rabbia, all'indifferenza, troviamo proprio il pettegolezzo, che possiamo definire come espressione verbale del rancore. Quando non si riesce a sanare una relazione, attraverso la manifestazione dei propri sentimenti, la chiarificazione, la correzione fraterna, pervenendo a un perdono sincero, è molto probabile che si attivi, anche inconsapevolmente, il pettegolezzo, la critica, la mormorazione. Si tratta di un modo sottile di vendicarsi del fratello, un inganno che fa più male a se stessi che a coloro ai quali è rivolta la critica. Infatti non di rado accade che i destinatari del rancore possono ignorare di essere oggetto di pettegolezzo, soprattutto quando le colpe loro addossate risultano non reali o presunte. Afferma papa Francesco: « Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico delle persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l'affetto verso noi stessi. Questo ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall'affetto, a riempirci di paure nelle relazioni interpersonali. Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo »[8]. Il perdono pertanto ha la meglio sul rancore, allontana la tendenza al facile pettegolezzo e nello stesso tempo permette di riacquistare quella serenità e quella libertà necessarie per costruire relazioni autentiche[9].
La tentazione
Essa rientra a pieno titolo nella dinamica del pettegolezzo e ne è una sua causa. Dal punto di vista spirituale, possiamo parlare di una forma sottile di tentazione della lingua o peccato di parola che, attraverso il pettegolezzo, inietta il veleno della distruzione e della morte. Essa infatti pregiudica la dignità di una persona, la serenità e l'unità di una famiglia, di una comunità; genera litigi, chiusure egoistiche, sospetti, fraintendimenti e malesseri di ogni sorta.
Non a caso la tentazione delle origini, alla quale hanno ceduto i nostri progenitori, è stata attuata proprio attraverso una parola ingannatrice, tagliente e suadente, che ha insinuato il dubbio sulla veridicità della parola di Dio. Non a caso il Diavolo viene chiamato « menzognero e padre della menzogna » (Gv 8,44), divisore, accusatore. Nel pettegolezzo questi trova un alleato formidabile per portare avanti le sue perverse macchinazioni. Credo sia importante non tralasciare questa lettura spirituale del pettegolezzo come tentazione diabolica, per non rischiare di ridurlo a un fenomeno puramente sociale o psicologico e quindi ritenerlo solo conseguenza di fragilità psicologiche o inconsistenze caratteriali. Su questo punto non sono mancati interventi autorevoli, come quello pronunciato da Paolo VI, circa l'azione ordinaria del diavolo che, in modo astuto, lavora indisturbato nel fertile terreno delle fragilità e delle debolezze dell'uomo: «È lui il perfido e astuto incantatore che in noi sa insinuarsi per via dei sensi, della fantasia, della concupiscenza, della logica utopistica o di disordinati contatti sociali nel gioco del nostro operare, per introdurvi deviazioni, altrettanto nocive quanto all'apparenza conformi alle nostre strutture fisiche o psichiche o alle nostre istintive profonde aspirazioni »[10]. Questo pensiero è stato ripreso da papa Francesco, nell'Esortazione sulla chiamata alla santità, dove si ribadisce che l'esistenza del diavolo è qualcosa di più di un mito, di una rappresentazione simbolica o di un potere astratto; si tratta di un essere personale che ci tormenta e di fronte al quale non possiamo abbassare la guardia. Per questo il Papa invita a essere vigilanti e a resistere alle innumerevoli sollecitazioni del Maligno, impugnando le armi della preghiera, della parola di Dio, dei sacramenti e della carità verso i fratelli. A tal riguardo annota: « Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l'odio, con la tristezza, con l'invidia, con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distruggere la nostra vita, le nostre famiglie e le nostre comunità, perché “come leone ruggente va in giro cercando chi divorare” ( 1Pt 5,8) »[11].
Le conseguenze del pettegolezzo
Possiamo con certezza affermare che le conseguenze prodotte dal pettegolezzo vanno sempre molto al di là delle intenzioni di chi lo mette in circolazione, e ciò vale anche per chi pensa che qualche parola di troppo, in fondo, non faccia male a nessuno. L'esperienza invece conferma che i pettegolezzi, anche quando sembrano pronunciati in modo innocuo e inoffensivo, producono sempre situazioni negative e incontrollabili, diventando come i mozziconi di sigarette ancora accesi gettati d'estate in un bosco. Questo perché il pettegolezzo rientra tra quelle parole o espressioni che in ambito linguistico vengono denominate performative, cioè parole che non hanno solo una funzione informativa o descrittiva, ma che, nel momento in cui vengono pronunciate, toccano profondamente la persona e la realtà modificandole nel bene o nel male. Non a caso comunemente si dice « fare pettegolezzi », e non « dire pettegolezzi », con un chiaro rimando al fatto che si sta svolgendo un'azione ben precisa. Quindi comprendiamo sempre più la pericolosità del pettegolezzo, mai innocuo, proprio perché realizza quello che dice, provoca conseguenze negative sul soggetto al quale è diretto, modificando anche le relazioni. In questo senso, sottolinea Francesco di Sales nella Filotea, « il maldicente, con un sol colpo vibrato dalla lingua, compie tre delitti: uccide spiritualmente la propria anima, quella di colui che ascolta e toglie la vita civile a colui del quale sparla »[12].
Il pettegolezzo distrugge la buona fama di una persona, della quale viene compromessa la reputazione, provocando la nascita di sospetti, di pregiudizi, fino al punto da intaccare la qualità delle relazioni che, in qualche modo, subiscono delle trasformazioni. Si tratta di una dinamica non rara, che si verifica soprattutto negli ambienti dove si vive un forte clima di competitività. In questi casi la maldicenza diventa la chiara espressione dell'invidia che si nutre verso qualcuno considerato più bravo, più brillante e quindi ritenuto un rivale che in qualche modo si deve mettere in ombra.Il pettegolezzo inquina l'ambiente e intossica la mente e il cuore perché si tratta comunque di un fenomeno tentacolare che progressivamente si allarga e va a contaminare i pensieri degli altri, stuzzicando la curiosità di sapere qualcosa di nuovo sulla vita privata di qualcuno. Spesso, all'interno di alcuni contesti aggregativi, si vive di pettegolezzi, non si riesce a innalzare il livello qualitativo della comunicazione, portandolo su argomenti più edificanti. Così, a lungo andare questo clima degradato finisce per coinvolgere tutti, anche chi vorrebbe restare fuori da determinate dinamiche.Il pettegolezzo blocca la spontaneità nelle relazioni e abbassa la qualità della vita. Chi percepisce di essere oggetto di maldicenza comincia ad attivare una serie di meccanismi di difesa che lentamente portano a non avere più fiducia nell'altro, a non parlare più spontaneamente, a chiudersi in se stesso per paura di essere criticato o frainteso. In alcuni casi, soprattutto per i soggetti più fragili, queste situazioni possono anche segnare l'inizio di varie forme di malesseri fino a sfociare in uno stato di depressione anche Il pettegolezzo è un'arma a doppio taglio, in quanto le sue conseguenze ricadono non solo sulla vittima designata, ma anche su chi ne è responsabile o ritenuto tale. Infatti, chi è abituato al facile pettegolezzo o addirittura viene eletto, per questa particolare predisposizione, a essere il leader del gruppo, prima o poi paga il prezzo del suo comportamento, rimanendo sempre più solo. Perché a lungo andare il pettegolo comincia a diventare scomodo, inopportuno, pericoloso e quindi da tenere a debita distanza, in quanto lo si avverte come un elemento destabilizzante per il gruppo.
- Il pettegolezzo rallenta il progresso nella vita spirituale, personale e comunitaria perché offusca la dignità dell'essere figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza. Se con il battesimo siamo diventati il tempio santo di Dio, tutte le nostre membra, compresa la lingua, devono essere messe a servizio di Dio e devono dare testimonianza del suo amore. Per cui tutte le volte che la bocca non si apre per rendere lode al Signore, ma per giudicare e calunniare il fratello, noi stiamo tradendo la nostra vocazione e stiamo distruggendo l'unità della comunità. Ogni pettegolezzo è un attentato alla comunità. Il parlare male dell'altro vanifica il cammino di fede in quanto contravviene al comandamento dell'amore verso il prossimo, verso il quale dobbiamo mostrare sentimenti di carità, di stima, di affabilità, fino al perdono incondizionato dei nemici e dei persecutori (cfr. Rm 12,1421). Non ci può essere vita spirituale, né tanto meno crescita spirituale, se non si prende coscienza del male fatto e non ci si lascia purificare dalla misericordia di Dio. Infatti il sincero pentimento non solo cancella i peccati e ristabilisce l'uomo in uno stato di grazia, ma spinge ad assumersi le proprie responsabilità riparando il male fatto. E l'impegno diventa quello di riparare le proprie colpe chiedendo scusa alla persona calunniata, ristabilendo, per quanto possibile, la reputazione della stessa[13].
I rimedi al pettegolezzo
La prudenza non è mai abbastanza
Nel percorso di conoscenza di se stessi dovremmo spesso esaminare la qualità e la modalità delle parole che abitualmente usiamo nelle nostre conversazioni. Considerare, ad esempio, quante volte il nostro modo di parlare è stato conveniente o no, se ha contribuito a innalzare la qualità della conversazione, se ha insinuato dubbi sulla vita di qualcuno, denigrato, offeso. Si tratta di verificare il valore e il significato che diamo alla parola nel processo comunicativo. È importante chiedersi se, prima di parlare, facciamo un prudente discernimento di quello che stiamo per dire o se piuttosto ci lasciamo guidare dall'istinto, dalla rabbia, dalla leggerezza, dalle emozioni del momento, e finiamo per lasciarci facilmente contagiare dall'ambiente pettegolo.
In questa esperienza di discernimento un ruolo particolare lo riveste la virtù della prudenza, che è stata sempre considerata la virtù che regola e misura tutte le altre — non a caso gli antichi la chiamavano auriga virtutum (cocchiere delle virtù). Essa permette di distinguere, tra le cose che vorremmo dire e fare, quelle che portano al bene e quelle che portano al male, ciò che è secondo lo Spirito di Dio è quello che è contrario. Chi è prudente è anche sapiente, capace cioè di valutare attentamente prima di procedere, secondo quella lungimiranza che permette di prevedere le conseguenze che possono scaturire da un determinato uso della parola. Per questo il Libro della Sapienza dirà: « Ho conosciuto tutte le cose nascoste e quelle manifeste, perché mi ha istruito la sapienza, artefice di tutte le cose » (Sap 7,21). Nel suo libro sul combattimento spirituale, a proposito del modo di regolare la lingua, Lorenzo Scupoli così si esprime: « Le cose che ti cadono in cuore per dirle, siano da te considerate prima che passino alla lingua, perché di molte ti accorgerai che sarebbe bene che da te non fossero mandate fuori »[14]. La prudenza quindi educa a usare saggiamente le parole, a dare loro il giusto significato; insegna a saperle misurare, a saperle porgere, a saper attendere il momento opportuno per esprimerle o per tacerle, secondo la massima sapienziale: « C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare » (Qo 3,7). Pertanto, riscoprire la virtù della prudenza significa dare un orientamento preciso alla propria vita, ai propri pensieri e alle proprie azioni, riappropriandosi di quella capacità di riflessione e di discernimento personale che permette di agire secondo il bene proprio e quello degli altri e soprattutto di distinguerlo dal male. Un confine che il pettegolezzo tende sempre più ad annullare e a confondere, avallando un modo di fare e di dire che sembra sempre più « normale », fino a diventare un costume di vita che certamente non rende ragione della verità della persona e delle relazioni.
L'esperienza conferma come ci lasciamo facilmente coinvolgere nelle dicerie e nei pettegolezzi e come spesso parliamo a ruota libera: tutto diventa lecito e la menzogna finisce lentamente per sostituirsi alla verità. Tante conversazioni sono caratterizzate da questo modo malato di comunicare, si va oltre la constatazione dei fatti, si amplifica qualche situazione, si aggiunge qualcosa di falso, si usa una parola allusiva, la cui falsa innocenza diventa capace di stuzzicare la curiosità dei presenti. In questi contesti le parole si degradano facilmente, fino a sconfinare nel pettegolezzo.
Cosa fare allora quando ci troviamo in tali situazioni e ci accorgiamo della facilità con la quale si rischia di rimanere intrappolati in queste dinamiche perverse? Se già la prudenza permette di misurare e verificare le parole da dire, la stessa virtù può aiutarci a capire quando è il caso di intervenire per depotenziare il pettegolezzo e quando è conveniente stare in silenzio, ma nel modo giusto. Due armi strategiche che possono aiutare a non rimanere intrappolati nel fascino bacato del pettegolezzo.
Depotenziare il pettegolezzo
È uno dei modi per contribuire a innalzare il livello delle conversazioni, scegliendo di far perdere forza al pettegolezzo, evitando che il proprio intervento possa in qualche modo contribuire ad alimentare le dicerie, con domande curiose o aggiungendo ulteriori parole ed espressioni allusive che lasciano percepire qualcos'altro, creando un ulteriore pettegolezzo. Di solito, infatti, si verifica un effetto domino: una parola perversa ne richiama un'altra e così via. Depotenziare il pettegolezzo significa dare un nuovo corso alla comunicazione, attraverso un nuovo significato dato alle parole. Significa immettere nella conversazione parole ed espressioni cariche di bene, che possano frenare la corsa della parola malata e bloccare il contagio. In concreto cercare di portare il discorso su un livello diverso: cambiando argomento, concentrando l'attenzione su altre questioni, possibilmente più edificanti. Anche la parola di Dio ci fornisce alcuni elementi concreti per contrastare il pettegolezzo. Così leggiamo nel Libro del Siracide: « Non contendere con un uomo chiacchierone e non aggiungere legna al suo fuoco » (Sir 8,3). Mentre il Libro dei Proverbi sottolinea: « Per mancanza di legna il fuoco si spegne; se non c'è il calunniatore, il litigio si calma » (Pr 26,20). Sono testi molto significativi, che usano la stessa immagine per sottolineare la possibilità di diminuire la forza distruttiva del pettegolezzo attraverso l'uso sobrio e moderato delle parole, per non incrementare il fuoco devastante procurato dalla lingua. Pertanto lì dove qualcuno sarà disposto a immettere questo principio di bene, attraverso l'esercizio sapiente della parola, allora il pettegolezzo comincerà a indietreggiare, a perdere forza, perché non troverà un alleato disposto a rilanciarlo, permettendogli di continuare la sua corsa.
Il giusto silenzio
Un'altra importante arma per depotenziare il pettegolezzo è il silenzio, ma bisogna essere capaci di comprendere quale silenzio adottare; non tutti i silenzi infatti sono uguali, in quanto ognuno esprime uno stato d'animo ben preciso. Ci sono silenzi carichi di gioia, di stupore, di attesa; altri di tristezza, di dolore; altri ancora di rabbia, di rancore, di arroganza. C'è il silenzio dell'esistenza credente come contemplazione e risposta di fede al mistero di Dio. Ma c'è anche il silenzio nel suo risvolto più deteriore, che si chiama mutismo, che non ha niente a che vedere con il silenzio vero: questo infatti non è mai muto, ma è portatore di una certa profondità. Dirà a proposito Romano Guardini: « Tacere non significa affatto essere muto. Il vero tacere è precisamente il correlativo del vero parlare: si appartengono l'un l'altro come l'inspirazione e l'espirazione (...) il discorso che non implica relazione diventa un cicaleccio »[15].
Il silenzio da adottare per arginare il pettegolezzo dovrà essere carico di una certa significatività e non essere mai un silenzio sterile o muto, che potrebbe dire altro o essere frainteso. Non basta perciò stare in silenzio, ascoltando semplicemente i pettegolezzi degli altri, e pensare di non macchiarsi di alcuna colpa, per il fatto che non stiamo partecipando attivamente alla discussione. Questo sarebbe un inganno, una scelta che fa diventare complici, in quanto tale silenzio può significare assenso di quanto si sta semplicemente ascoltando. Ci sono inoltre silenzi che dicono più delle parole, soprattutto quando sono accompagnati da gesti, da smorfie, da sorrisi velati, che lasciano intendere che si sta approvando quello che si sta ascoltando. In alcuni casi, quando il silenzio viene alternato da mezze parole o da espressioni quali: « Meglio che non parlo... », « Se la mia bocca potesse parlare... », « Ah, se sapeste.. ! », ciò fa nascere il sospetto di essere depositari di chissà quali verità o segreti inerenti alla vita privata di una persona. Atteggiamento che andrà ad accendere negli altri la curiosità di sapere di più, fino a costringere a svelare situazioni e fatti privati che probabilmente erano stati confidati nel segreto o di cui si è venuti a conoscenza, e che da questo momento diventano di dominio pubblico. Sottolinea il Siracide 19,10-12: « Hai udito una parola? Muoia con te! Sta' sicuro, non ti farà scoppiare. Per una parola va in doglie lo stolto, come la partoriente per un bambino. Una freccia conficcata nella coscia: tale una parola in seno allo stolto ». Un chiaro invito a mortificare la propria lingua, a saper custodire le parole che abbiamo ascoltato o che ci sono state confidate in segreto. Il silenzio, in alcuni casi, è meglio della parola, in quanto diventa rivelatore di una certa maturità umana e di quella profondità spirituale carica di amore e di compassione. Scrive sapientemente un autore contemporaneo: «A Babele ci si salva tacendo... Con il silenzio si attenua la forza devastatrice dello scandalo, si spuntano gli artigli della detrazione, si spennano le ali della calunnia, si smorza la violenza dell'odio, mentre aumenta la forza difensiva nei confronti degli urti delle avversità »[16].
La via della correzione
Quando si ha certezza di chi sia l'autore di pettegolezzi e dicerie o nel momento in cui si percepisce che i discorsi che si fanno in compagnia di amici, nei gruppi e in altri contesti aggregativi, stanno degenerando e sconfinando nel pettegolezzo, allora bisogna provare a correggere. Se la situazione lo consente, tale correzione potrà essere praticata anche sul momento, trovando naturalmente le parole e le modalità più adeguate. Comunque, è sempre preferibile la via della riservatezza e quindi la correzione fatta in modo personale, a tu per tu con il fratello o la sorella (cfr. Mt 18,15-18).
La pratica della correzione fraterna, condotta nella riservatezza e nella discrezione, evita di sbandierare le fragilità del fratello e di farle diventare oggetto di pettegolezzo e di critica. La correzione pertanto, se da un lato diventa un grande atto di carità, che recupera il fratello alla verità, nello stesso tempo diventa un deterrente al pettegolezzo, in quanto va a bloccare quel meccanismo che contribuisce alla diffusione del pettegolezzo stesso. Tale passaggio contiene anche una indicazione molto importante, che dovremmo attuare nella correzione, e cioè la capacità di sapersi porgere all'altro, misurando le parole, esprimendole nei tempi e nei modi più opportuni. Una modalità che suppone una grande capacità di discernimento e di pazienza per evitare di « mortificare inutilmente il peccatore ». Molto spesso, invece, il nostro modo di correggere diventa un tribunale, dove l'altro viene semplicemente accusato, appunto “spellato”, senza nessuna misericordia, così da peggiorare la situazione[17].
Stretegie virtuose
Vogliamo ora sottolineare alcuni atteggiamenti virtuosi da assumere nel proprio cammino per evitare di essere travolti dal male prodotto dai pettegolezzi. Si tratta di un cammino di fortificazione, per non cedere alla tristezza, allo scoraggiamento o a sentimenti di rancore o di vendetta, che potrebbero portare alla facile tentazione di combattere il male con il male. La battaglia invece deve essere condotta nel campo del bene, con la potenza dell'amore e della misericordia.
Essere pazienti
In questa lotta contro il pettegolezzo la prima arma da sfoderare è la pazienza. Ce ne vuole veramente tanta! Un vecchio proverbio dice che « la pazienza è la virtù dei forti », eppure anche i più forti in alcuni momenti possono perderla, soprattutto quando le situazioni diventano talmente insopportabili da portare all'esasperazione. Avere pazienza significa diventare capaci di rimandare la propria reazione alle avversità, sopportando il dolore con animo sereno, controllando la propria emotività e perseverando nelle azioni. Ma avere pazienza significa soprattutto educarsi ad avere uno sguardo nuovo, misericordioso verso chi ce la fa perdere. Questo in fondo è il significato dell'espressione « sopportare pazientemente le persone moleste », che tra tutte le opere di misericordia è indubbiamente la più dimenticata, oltre che fraintesa. Dimenticata, per la sua intrinseca difficoltà, in quanto ci viene chiesto un puro atto di carità, un andare oltre i consueti modi di rapportarci con coloro che molestano; fraintesa, perché l'avverbio « pazientemente » non è ben interpretato, o forse, volutamente accomodato, secondo il nostro modo limitato di concepire il tempo. Essere pazienti infatti significa dare tempo al fratello di ravvedersi, sopportandolo non una sola volta, ma continuamente, senza rabbia e risentimento. Scrive papa Francesco, commentando l'inno all'amore di san Paolo: « Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l'altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com'è. Non importa se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi aspettavo. L'amore comporta sempre un senso di profonda compassione »[18]. Questo non significa tollerare o giustificare il peccatore, ma andare oltre il suo errore e la sua fragilità così come fa la misericordia di Dio che continua ad amarci e ad aspettarci nonostante le nostre continue infedeltà. Avere pazienza nei confronti di chi, come nel nostro caso, ci molesta con le parole, significa acquisire qualcosa della magnanimità di Dio, che ci permette di assumere quel « fattore cristiano » di cui parla Bonhoeffer, intendendo ciò che è straordinario rispetto all'ordinarietà del nostro modo di fare: « È ciò che supera i farisei in una giustizia maggiore, il di più, ciò che va oltre... Dove non c'è questo fattore singolare, straordinario, non c'è nulla di cristiano »[19].
Sdrammatizzare
Questa « santa pazienza », da accogliere come dono che viene dall'alto, richiede anche un certo lavoro personale, perché non diventi un atteggiamento passivo, bensì un'esperienza feconda di crescita umana e spirituale. Parliamo di quella pazienza attiva all'interno della quale si cerca di capire come stanno i fatti, di verificare la fondatezza degli stessi e di agire di conseguenza con la giusta capacità di attesa, imparando a sdrammatizzare. E sì! Imparare a sdrammatizzare, per ridimensionare il problema e per evitare di far diventare quel determinato pettegolezzo il centro dei propri pensieri e della propria esistenza. In effetti, il tornare continuamente a rimuginare su quanto si è sentito dire sul proprio conto, comporta un notevole spreco di energie, soprattutto psicologiche, che viceversa potrebbero essere impiegate in altri ambiti e in modo molto più fecondo. In questo senso la pazienza attiva deve portare a lavorare sui propri pensieri e sui propri sentimenti, per dirigerli verso nuovi orizzonti, soprattutto verso pensieri positivi di bene e di pace.
In questo percorso di pacificazione e di semplificazione non può mancare il momento della verità, che deve essere condotto con intelligenza e franchezza, sia sul versante esterno sia su quello interno. Il momento esterno corrisponde alla lettura della situazione che si è presentata e nella quale si è coinvolti. Essa serve a verificare la natura del pettegolezzo, per capire se è fondato su un fatto realmente accaduto o è frutto di qualche fraintendimento o semplice e fantasiosa invenzione. Il momento interno corrisponde a quello che potremmo chiamare presa di coscienza dei propri limiti, il riconoscere effettivamente di avere mancato in qualcosa, che c'è una colpa reale, sulla quale qualcuno ha poi costruito una diceria. È il momento della purificazione del cuore, dell'umiliazione, della guarigione dai sensi di onnipotenza, dal sentirsi migliori degli altri. Questo duplice aspetto della verifica viene sottolineato nel libro del Qoelet, che invita a sdrammatizzare le dicerie, per evitare di sentirne qualcuna sul proprio conto, per poi guardarsi dentro e constatare la propria miseria: « Non fare attenzione a tutte le dicerie che si fanno, così non sentirai che il tuo servo ha detto male di te; infatti il tuo cuore sa che anche tu tante volte hai detto male degli altri » (Qo 7,21-22).
Essere vittime di pettegolezzi paradossalmente può costituire un'esperienza vantaggiosa e motivo di crescita. Essa può aiutare a mettere ordine nella propria vita, individuando ciò che bisogna togliere o modificare, imparando con umiltà a guardare più a se stessi che agli altri. Questa capacità introspettiva manifesta una notevole maturità umana e spirituale, che non ha paura di mettersi di fronte alle proprie colpe per denunciarle in maniera risoluta e continuare il cammino con un cuore libero e purificato da ogni forma di ipocrisia. Inoltre, se queste esperienze dolorose vengono vissute in un atteggiamento di fede, possono diventare occasioni preziose per radicarsi sempre più in Dio. Illustrando i benefici spirituali che possiamo ricavare dalle colpe altrui così scrive padre Jacques Philippe: « A volte è grazie a una delusione patita in una relazione con qualcuno, da cui molto (forse troppo) ci aspettavamo, che impariamo a tuffarci nella preghiera, nella relazione con Dio e ad aspettarci da lui quella pienezza, quella pace e sicurezza che soltanto il suo amore infinito può assicurarci. Le delusioni che abbiamo nelle relazioni con gli altri ci fanno passare da un amore idolatrico a un amore realistico, libero e dunque finalmente felice»[20].
Bene-dire
In questo percorso di guarigione, volto- a contenere le conseguenze del pettegolezzo, non bisogna mettere in atto solo la strategia della difesa, ma anche quella dell'attacco che non è diretto a sconfiggere il nemico, ma a custodirlo, ad amarlo, ad affidarlo al Signore perché sia lui a toccare il suo cuore. È la strategia dell'amore che si caratterizza come preghiera di intercessione, non solo per coloro che soffrono e che vogliamo raccomandare al Signore, ma, nel nostro caso, per coloro che ci perseguitano e dicono male di noi, usando imprudentemente la lingua. Nel Discorso della montagna, Gesù raccomanda (Mt 5,43-48) questa forma di preghiera: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
Non sarà stato un discorso di facile comprensione, anzi avrà fortemente urtato la sensibilità di coloro che si ritenevano giusti in quanto fedeli alle prescrizioni della Legge. È un invito a fare diversamente rispetto alla mentalità tradizionale nel concepire il rapporto con Dio e con i fratelli. Siamo nella logica evangelica dell'amore verso il nemico, dove la Legge trova il suo pieno compimento. Si tratta della più grande provocazione di Gesù davanti alla quale avanziamo i nostri « ma », « però » « fino a tanto? ». Ci viene chiesto un atto straordinario che non rientra nell'ordine naturale dei nostri pensieri e dei nostri comportamenti, dove tendiamo in genere ad amare coloro che rientrano nel nostro orizzonte affettivo e che in qualche modo ci ricambiano. Amare i nemici rimane uno scandalo, e potrebbe persino dare adito a una sorta di complicità con il male da loro commesso. Eppure questo atteggiamento diventa il tratto distintivo dei discepoli del Signore che ci insegna a condannare in modo irresoluto il peccato, ma a mostrare compassione e misericordia per il peccatore. Per cui quel « Voi, dunque... », con cui Gesù conclude il discorso, apre orizzonti completamente diversi, ci invita a un cambiamento di mentalità, ad assumere nuovi criteri di valutazione del fratello; ci invita in definitiva a entrare nella vita stessa di Dio, per cogliere qualche battito del suo cuore e per imparare da lui il vero amore.
Bonhoeffer, commentando questo brano di Matteo, sottolinea un aspetto particolare di questo amore incondizionato per i nemici, un amore che deve osare tanto, fino a diventare benedizione: « Se ci colpisce la maledizione del nemico perché egli non può sopportare la nostra presenza, noi dobbiamo alzare le mani per benedire: voi, nostri nemici, voi i benedetti del Signore, la vostra maledizione non ci ferisce; possa la vostra povertà essere colmata con la ricchezza di Dio, con la benedizione di colui contro il quale voi vi ostinate inutilmente. Vogliamo senz'altro portare la vostra maledizione, purché voi riceviate la benedizione »[21].
Questo commento ci aiuta a comprendere il significato della benedizione, che non è semplicemente un atto umano, ma scaturisce dall'incontro con Dio, il solo che può benedire le nostre esistenze, rendendoci capaci di diventare benedizione per gli altri. Ricordiamo che il primo atto che Dio compie sull'uomo creato a sua immagine è proprio la benedizione. Così infatti si legge nel libro della Genesi: « E Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi » (Gen 1,27-28). All'origine quindi c'è una parola di bene, una trasmissione di vita, un invito a fecondare, diventando benedizione per gli altri. L'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, porta in sé questo principio di bene, questa capacità di bene-dire, e in tal modo viene associato alla stessa opera creatrice di Dio. L'idea biblica di benedizione comprende tutto il positivo dell'esistere e del vivere e quindi ogni volta che si benedice si crea, si trasmette vita, si comunica l'amore stesso di Dio: « La parola di benedizione contiene in se stessa la sua forza di attuazione, è di per sé efficace e irrevocabile. In questa prospettiva la benedizione non è tanto un bene-dire, quanto un bene-dare: trasmettere, comunicare una sorta di “energia di bene”, destinata a esplicarsi in molti modi nell'esistenza di chi riceve la benedizione »[22].
Allora la benedizione non è più una semplice preghiera, un gesto, un rito, o come qualcuno la considera, un atto scaramantico per allontanare chissà quali negatività; essa diventa una esperienza di comunicazione vitale, dove la stessa parola viene chiamata in causa per il suo alto valore comunicativo. In questa prospettiva il parlare bene del fratello costituisce di per sé una straordinaria benedizione, in quanto mediante essa si comunica la bellezza di un Dio Padre che ama i suoi figli e per questo non può che dire e fare cose belle per loro. Per cui, quando si parla bene di una persona, si contribuisce a creare vita, a mantenere viva una relazione, a custodirla, immettendo in essa un principio di bene, di pace e di armonia. Una parola buona e bella risana il cuore, infonde speranza, valorizza l'altro, invitandolo a dare il meglio di sé. Dire-bene promuove la vita, rinsalda l'amicizia, contribuisce a creare stili di vita liberi, sani e rispettosi della diversità dell'altro.
Viceversa il dire male e quindi il pettegolare in tutte le sue declinazioni, esprime la realtà opposta e introduce tra le persone un principio di morte, dove le relazioni vengono incrinate dal sospetto, dal giudizio, fino a essere totalmente distrutte. Questo perché, in riferimento al principio performativo, precedentemente sottolineato, la parola non è mai la semplice pronuncia di un suono, ma porta in sé ciò che vuole esprimere e quindi realizza ciò che dice. Una parola maldicente non sarà mai innocua, ma andrà a incidere negativamente sulla persona interessata e sull'ambiente, pregiudicando, in qualche modo, l'armonia delle relazioni.
Bene-dire, come capacità di dire e fare cose belle e buone per l'altro, costituisce una straordinaria sfida per la società odierna, ma soprattutto per la Chiesa chiamata a manifestare l'amore di Dio attraverso segni concreti che la rendano sempre più credibile. Benedirsi reciprocamente diventa il criterio per valutare la maturità di una comunità cristiana che ha incarnato il messaggio evangelico della carità. Dice san Paolo: « La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda » (Rm 12,9-10).
Ecco allora la parola d'ordine: « Gareggiare nello stimarsi a vicenda ». Questa è la strada da percorrere per chi vuole guarire dal male del pettegolezzo. Questo è l'antidoto alla maldicenza: ricominciare ad amare, a stimarsi, a considerare l'altro come un fratello che Dio ha posto sul cammino di ciascuno per ricordarci la sua stessa benedizione. La fraternità quindi diventa il luogo dove vivere e riconoscere la benedizione di Dio e nello stesso tempo essa costruisce la fraternità in tutta la sua bellezza, mediante quell'olio prezioso e quella rugiada, di cui parla il Salmo 133, che scendono dall'alto e portano la vita per sempre. Una parola vera e bella può creare fraternità, può curare le ferite dell'anima, può impreziosire la vita, può ridare speranza. È questo il tempo di ridare dignità alla parola, facendole ritrovare la sua genuina vocazione, quella di essere ponte e non ostacolo, portatrice di verità e non di menzogna, strumento di pace e non di guerra.
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[1] D.E. Viganò, Il brusio del pettegolezzo, Forme del discredito nella società e nella Chiesa, EDB, Bologna 2016, pp. 47- 48.
[2] G. Rossini, Il barbiere di Siviglia, Melodramma buffo in due atti di C. Sterbini, a cura di E. Rescigno, Ricordi, Milano 1988, pp. 64-65.
[3] Al riguardo cfr. Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, Etica in internet, Paoline, Milano 2002.
[4] Francesco, Omelie del mattino, vol. Il, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2014, p. 8.
[5] Francesco, Amoris laetitia, Esortazione apostolica postsinodale sull'amore nella famiglia, Paoline, Milano 2016, n. 95.
[6] Fonti Francescane, Ammonizioni, VIII, a cura di E. Caroli, Editrici Francescane, Padova 2004, p. 112.
[7] S. Guarinelli, La gente mormora. Psicologia del pettegolezzo, Paoline, Milano 2015, p. 138.
[8] Francesco, Amoris laetitia, n.107.
[9] Sul tema cfr. L. Pasqua, Dal rancore al perdono, Edizioni Rinnovamento nello Spirito Santo, Roma 2015.
[10] Paolo VI, Liberaci dal Male, in Insegnamenti di Paolo VI, X, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1972, p. 1171.
[11] Francesco, Gaudete et exsultate, Esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, Paoline, Milano 2018, n.161.
[12] Francesco di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota, Paoline, Milano 1984, p. 221
[13] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1459, 2487.
[14] Lorenzo Scupoli, Combattimento spirituale, cap. XXIV, San Paolo, Milano 1992, p. 121.
[15] R. Guardini, Lettere sull'autoformazione, p. 132.
[16] M.G. Masciarelli, Abitare il silenzio, Dehoniane, Roma 1998, p. 61.
[17] Cfr. L. Pasqua, Fatta per amore. La correzione fraterna, Paoline, Milano 2016, pp. 35-40.
[18] Francesco, Amoris Laetitia, n. 92.
[19] D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia 1975, p. 132.
[20] J. Philippe, La libertà interiore. La forza della fede, della speranza e dell'amore, San Paolo, Milano 2004, p. 71.
[21] D. Bonhoeffer, Sequela, p. 128.
[22] D. Mosso, Benedire, Elledici,Torino 1987, p. 7.