Le tentazioni di Gesù in croce e le nostre tentazioni

Gesù in croce, deriso e abbandonato dagli apostoli

Nel racconto delle tentazioni nel deserto Luca fa presagire il ritorno del Tentatore: «… il diavolo si allontanò da lui per tornare nel momento fissato» (Lc 4,13). Questo momento è quello della croce, con l’ultimo attacco frontale, che metterà a dura prova la fedeltà di Gesù. Non sono infatti solo tentazioni sul modo di realizzare il Regno, ma anche una costatazione della sterilità apparente di tutta la sua opera. Sulla croce, infatti, pare che tutto finisca e torni come prima. Anzi, peggio di prima, perché il male sembra aver vinto! Dopo una breve illusione, la tragica delusione! «Speravamo» dice uno di quelli di Emmaus (cfr. Lc 24,21). Contemplare che Gesù ha vinto queste tentazioni vuol dire contemplare come ci salva ancora oggi.

Gesù solo e deriso

Le folle stanno a vedere. La parola da mettere in evidenza è “theorào” (vedere), da cui deriva la parola “teoria”. È l’unica volta che viene usata questa parola nel Nuovo Testamento. Che cosa ci vuol dire l’evangelista con l’uso di questa parola? Che la croce è la teoria di Dio.

Teoria, infatti, vuol dire spettacolo, teatro. La croce è il luogo dove si vede Dio. Quel Dio che nessuno ha mai visto, sulla croce si vede. Vediamo chi egli è. E’ lì che contempliamo la follia dell’Amore di Dio nell’umanità di Gesù. Perché ciò che Dio compie, lo compie da Dio, sempre in mo­do destabilizzante, eccedente. È lì che Gesù “avendo amato i suoi (il Padre e gli uomini) li amò sino alla fine” (Gv 13,1). E’ lì che si manifesta la gloria di Dio. Gloria che non è dopo o accanto alla cro­ce ma nella croce. Agàpe e Gloria costituiscono un solo e unico mistero che ci dice come Dio ci salva. Per questo Paolo scrive: (1Cor 2,2). Perché proprio lì è nascosto ogni tesoro della sapienza e della scienza. In Lui abita corporalmente la pienezza della divinità.

Ma cosa avranno capito le folle da questa visione?

I capi del popolo, i capi religiosi, arricciano il naso davanti alla croce. La croce è morte da maledetto. Muore come se Dio l’avesse abbandonato. Ecco lo scherno dei capi del popolo: “Ha salvato altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto” (v. 35). È l’obiezione religiosa davanti alla croce. Ma che Dio è un Dio che non sa salvarsi? Noi cerchiamo di salvarci a tutti i costi. Salvarci: da che cosa? Dalla morte, intesa come fallimento finale della vita, e da ogni fallimento. Tutto il male che facciamo è perché cerchiamo di salvarci. Allora cerchiamo di possedere infinite cose per garantirci la vita sacrificando alle cose, ci affermiamo sugli altri nei vari ambiti della vita (lavoro, politica, ecc.) anche commettendo ingiustizie (cioè mettendo in croce gli altri), cerchiamo consensi per sentirci importanti agli occhi altrui (narcisismo)…

Capiamo che qui ritorna la terza tentazione che Gesù ha vinto nel deserto: “gèttati giù di qui”, dal pinnacolo del tempio, perché Dio interverrà a soccorrerti (cfr. Lc 4,9-12). Piegare Dio a sé. Costringerlo a fare la mia volontà. Non la sua volontà, che per Gesù è quella di amarci fino alla morte, e alla morte in croce. Ecco perché Gesù rimane lì sulla croce. Perché si perde. Quindi quella che sembra una sconfitta dal punto di vista religioso, è la rivelazione della vittoria di Dio, che non salva se stesso. Per questo è l’Agnello immolato che apre i sette sigilli del libro della storia (cfr. Ap 5,1-9). La croce è la chiave interpretativa di tutta la storia.

Ci sono poi i soldati che rappresentano la violenza, il potere violento (e il denaro è la principale forza). Essi si fanno avanti e, offrendogli aceto, gli dicono: “Sei il Re dei Giudei, no? Allora... salva te stesso!” (cfr. v. 37). E’ l’obiezione politica: re da burla, non sa neanche salvare se stesso, chi vuoi che salvi? In realtà Gesù è il vero Re, perché non è venuto ad asservire gli uomini con il potere (in Matteo 20,24-28 si legge il monito di Gesù: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”) ma a liberarci da ogni potere che domina e asserve. Gesù in croce è  talmente libero dall’egoismo che sa dare la vita piuttosto che piegarsi a perdere la libertà di amare. Questo è l’uomo libero. Questo è il Regno. Per cui Gesù sulla croce vince anche quella che era la seconda tentazione nel deserto: imporre il regno di Dio con la violenza (cfr. Lc 4,5-8). Nessun compromesso con la logica del Nemico. Nessuna adorazione del potere e del Tentatore che glielo offre. Gesù ci dà il vero ideale di uomo. L’uomo è colui che è talmente libero da dare la vita.

Infine Gesù viene tentato anche dal malfattore, probabilmente un compagno di Barabba, con il quale aveva fatto la rivolta e ucciso delle persone: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!” (Lc 23,39). È come se dicesse: Perché se tu sei il Salvatore degli uomini, e ti sei commosso davanti alle sofferenze umane, hai rivelato la figura di un Padre misericordioso e amorevole, ora sei abbandonato alla morte? Perché questo Dio non risponde al grido dei miseri della terra e ti lascia morire? Perché sei in questo momento impotente e condividi il nostro stesso destino?”. È una prova diabolica che cerca di rompere l’unione Padre-Figlio.

Alcune donne sotto la croce

Marco (15,40-41) ricorda che “alcune” donne stavano presso la croce. Giovanni è più preciso: “Stavano sotto la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala” (Gv 19,25). E, come dirà nel versetto successivo, c’è anche “il discepolo che egli amava” (che potremmo essere ciascuno di noi). Tutti gli altri erano fuggiti. Gesù lo aveva previsto: «Gesù disse loro: Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge» (Mt 26,31; cfr. Mc 14,26). Quanta sofferenza avrà provato Gesù per questo abbandono, e ancor più per il “tradimento” (di Giuda, che lo consegna; di Pietro che, difendendosi, in realtà dice la verità: “non lo conosco”!), provando in sé quello che già riecheggiava il salmista: “Anche l'amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno” (Sal 40,10). Eppure Gesù li aveva chiamati – come annota Marco – perché “stessero con lui”! (Mc 3,14). Solo le donne, in questo, si manifestano vere discepole! Più precisamente: le donne e “il discepolo amato” (Giovanni, certamente, ma egli è figura di ogni discepolo amato).

Gesù ha accolto in sé il dolore dell’abbandono dei suoi “amici” (così chiama Giuda al Getsèmani in Mt 26,50: «Amico, per questo sei qui!»). Non giudica la loro incapacità di comprendere, la loro fuga di fronte al mistero dell’amore crocifisso, la loro fragilità… Lui che li ha scelti li continua ad amare, così come sono…

 

Le nostre tentazioni

Gesù ha vinto tutte le tentazioni. Ma noi rischiamo di dare retta ad esse. Oggi, in particolare, tra le tentazioni che possiamo provare nel cammino di discepoli di Gesù, ne ricordo tre – come le tre tentazioni nel deserto e le tentazioni a Gesù sulla croce da parte dei capi del popolo, dei soldati e dal malfattore -, che mi sembrano così “attuali”: l’accidia, lo scoraggiamento e agire seguendo le intenzioni del cuore "impuro".

La tentazione dell’accidia

È una tentazione oggi piuttosto diffusa. È una tentazione contro la gioia. Spesso si dice che l’opposto della gioia è la tristezza. Probabilmente è giusto. Ed è anche normale provare tristezza in certi momenti della vita, perché la tristezza è un’emozione primaria della vita umana. Gesù stesso ha provato la tristezza e angoscia nell’orto degli ulivi (cfr. Mt 26,37). Ma, a mio parere, l’accidia si oppone a quella gioia piena, «la gioia del Vangelo che riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù»[1]. Ma – come annota papa Francesco - «ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua»[2]. Perché? Tra le varie motivazioni a me sembra che l’accidia ne sia una. E, forse, la prima.

Dico questo perché ci sono dei “sintomi” (di cui un medico sta bene attento per diagnosticare una malattia) molto diffusi, che sono proprio tipici di questa “malattia spirituale”. Quali?

a) Anzitutto una mancanza di cura per il proprio cammino spirituale. La persona prova un’atonia, un’avversione verso la preghiera, l’adorazione, l’ascolto della Parola di Dio. Così l’accidioso fugge da tutto ciò. Talvolta giunge anche a banalizzare o disprezzare tali pratiche. “A che serve dedicare del tempo per pregare sulla Parola di Dio?”.

b) L’accidioso, in pratica, fugge da Dio, dal rapporto con lui. Ed è comprensibile. Se, infatti, il suo cuore è pesante, scoraggiato, tediato, è chiaro che non desidera restare solo con se stesso e con i propri limiti, e ancor di più essere “disturbato” dalla vicinanza di Dio. L’accidioso non accetta la propria vita, non ascolta la voce di Dio, si nasconde, ripetendo lo stesso gesto di Adamo ed Eva che dopo il peccato si nascosero allo sguardo di Dio (cfr. Gen 3,1.10).

c) L’accidioso, inoltre, non ha voglia di impegnarsi. Prova disinteresse verso ogni forma di azione e iniziativa. O, per lo meno, gli costa molto farla. E se la fa spesso non la fa bene. Nella vita sacerdotale e religiosa l’accidia prende il volto del prete poco zelante, annoiato, che cerca di riempire il tempo con internet, con chiacchiere non edificanti, talvolta anche criticando o svalutando il bene che gli altri fanno. Oppure, al contrario, è il prete che riconduce il suo ministero ad un attivismo fine a se stesso, ad una funzione impiegatizia al servizio dell’organizzazione ecclesiastica. Attivismo che vuole riempire ogni momento con qualcosa per paura di doversi fermare e riflettere.

Il sacerdote accidioso non lo si vede mai, o quasi, pregare in pubblico; e nella celebrazione dell’Eucaristia è piuttosto frettoloso. L’omelia è breve, fin troppo, e i contenuti lasciano a desiderare. Non è certo una persona contenta di ciò che fa, soddisfatta della sua vocazione.

d) L’accidioso è una persona che fugge il presente. Trova pesante dedicarsi al suo dovere, alle cose quotidiane che deve fare; il sole gli appare lento nel suo movimento o immobile, mostrando il giorno lunghissimo. Sogna di poter approfittare di qualche novità per rompere la noia del presente. Talvolta questa noia del presente può portare l’accidioso sulla via del vizio.

"L’accidia – scrive papa Francesco – può prendere molte forme nella nostra vita di pastori, ed è indispensabile esserne coscienti per poterla scovare sotto i fronzoli che la nascondono. Delle volte è la paralisi, quando non si arriva più a sostenere il ritmo della vita. Altre volte attacca il pastore saltimbanco che nel suo andare e venire è incapace di fondarsi in Dio e nella realtà concreta nella quale è inserito. Appare anche in coloro che elaborano grandi piani lasciando da parte i mezzi concreti per realizzarli. O, al contrario, appare in coloro che si lasciano invischiare nelle bazzeccole quotidiane senza riuscire a vederle dal punto di vista di Dio"[3].

L’accidia paralizza la vita sacerdotale del sacerdote: "Alcuni vi cadono perché portano avanti progetti irrealizzabili e non vivono volentieri quello che con tranquillità potrebbero fare. Altri, perché non accettano la difficile evoluzione dei processi e vogliono che tutto cada dal cielo. Altri, perché si attaccano ad alcuni progetti o a sogni di successo coltivati dalla loro vanità. Altri, per aver perso il contatto reale con la gente, in una spersonalizzazione della pastorale che porta a prestare maggiore attenzione all’organizzazione che alle persone, così che li entusiasma più la “tabella di marcia” che la marcia stessa. Altri cadono nell’accidia perché non sanno aspettare, vogliono dominare il ritmo della vita. L’ansia odierna di arrivare a risultati immediati fa sì che gli operatori pastorali non tollerino facilmente il senso di qualche contraddizione, un apparente fallimento, una critica, una croce"[4].

e) L’accidioso è una persona che, fuggendo da se stesso, non cura l’esame di coscienza. Di conseguenza anche la confessione gli risulta pesante… quella di se stesso e quella legata al suo ministero.

Ma l’accidia può anche contagiare il laico impegnato nel servizio ecclesiale. C’è accidia quando si perde il senso di ciò che si fa, del fine che si vuole raggiungere. E anche quando si dice di conoscere il fine… in realtà non ci si crede più. Si fanno le cose perché si devono fare, ma non con convinzione, con impegno. Non si tratta di semplice pigrizia, perché il pigro sa ciò che è bene, ciò che è importante. L’accidioso, invece, è una persona che soffre l’asfissia dell’intelletto, cioè i suoi pensieri creano tenebra interiore; manca la luce che sola può illuminare il senso dell’esistere e dell’impegno. Oppure anche qui, come per il sacerdote, si cade nell’attivismo. Con esso si cerca così di coprire il vuoto, il tedio interiore.

L’accidia come “malattia dei cristiani” – spiega papa Francesco - va contro la voglia di annunziare agli altri la novità di Gesù. Essa «fa dei cristiani persone ferme, tranquille ma non nel senso buono della parola: persone che non si preoccupano di uscire per dare l’annuncio del Vangelo. Persone anestetizzate». Un’anestesia spirituale che porta alla considerazione «negativa che è meglio non immischiarsi» per vivere «così con quell’accidia spirituale. E l’accidia è tristezza». È il profilo di «cristiani tristi nel fondo» a cui piace assaporare la tristezza fino a divenire «persone non luminose e negative»[5].

L’accidia non risparmia anche la vita di coppia matrimoniale.

L’accidioso che è caduto nella tentazione di fuggire si trova privo dello slancio ad agire per il bene della comunione coniugale. Rischia di mettersi a cercare delle compensazioni fuori del nucleo familiare: affetti, doppi legami, il lavoro, lo sport, attività varie… Troverà dei buoni pretesti per giustificare queste compensazioni. […] Quando svanisce il dinamismo interiore che nasce dal dono di sé, incessantemente rinnovato, nella vita coniugale può sopraggiungere la monotonia ed essa può diventare insopportabile[6].

Come reagire al demone dell’accidia?

Con gli strumenti che tradizionalmente la Chiesa ci indica: l’adorazione di Dio – in particolare del Crocifisso – come rimedio dalla fuga da Dio; la preghiera – la meditazione della Parola di Dio come rimedio alla fuga da se stesso; l’espiazione come rimedio alla fuga dal momento presente; la missione come rimedio alla fuga dall’agire. Vediamo brevemente questi quattro elementi.

a) L’adorazione a Dio. L’adorazione è un atteggiamento ed un’impostazione di vita che non fugge – come l’accidioso – dalla relazione con Dio e con gli altri. Adorazione vuol dire «consegna di sé al proprio Creatore»[7], perché Lo riconosciamo come Dio. L’adorazione è espressione dell’amore. Adoriamo il Signore perché è «Amore infinito e Misericordioso»[8]. Con l’adorazione ci mettiamo davanti al Signore Gesù non solo fisicamente, ma anche mentalmente e spiritualmente. Con l’adorazione fissiamo l’attenzione nelle cose spirituali, alle quali l’accidia vuole scappare. Con l’adorazione consegniamo a lui la nostra anima ed esistenza. Con l’adorazione confessiamo che dobbiamo essere liberati dal ripiegamento su noi stessi.

b) La meditazione della parola di Dio. La Parola di Dio forma la nostra vita, ci mostra la volontà di Dio. La Parola di Dio mi illumina interiormente, mi fa guardare – cosa che l’accidioso non vuole fare - con umiltà e verità nel mio intimo, mi dà la luce per distinguere ciò che è bene e ciò che è male. Ha ragione il salmista quando prega: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 118,105).

c) L’espiazione. Il momento presente è il kairos dell’unione di amore tra la volontà di Dio e la nostra volontà. È nel momento presente che Dio ci guida con il suo amorevole agire divino. La volontà divina è nostra santificazione, «santità, quella che dobbiamo fare tutti i giorni – afferma papa Francesco -, e che è una strada che si può percorrere solo se a sostenerla sono quattro elementi imprescindibili: coraggio, speranza, grazia, conversione».[9] Volontà di Dio è che ognuno di noi prenda parte nell’opera redentrice ed espiatoria di Cristo Gesù, per completare  «quello che manca ai patimenti di
Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa
» (Col 1,14). Così l’imitare il Signore in spirito d’espiazione si vive nel quotidiano delle giornate; nell’impegno per realizzare bene i doveri di stato nella famiglia, nel lavoro, nella parrocchia; nel portare con gioia la croce, nell’accettare con serenità gli imprevisti, nell’offrire i piccoli sacrifici.

d) La missione. Tutti abbiamo la missione di annunciare il Vangelo. La missione di incontrare le persone – con il coraggio di uscire, di andare nelle “periferie esistenziali” – per portare la bontà e la tenerezza di Dio. «Predicare, annunciare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada»[10] e ci libera dall’accidia.

La tentazione dello scoraggiamento

Se non siamo accidiosi possiamo però cadere in un’altra tentazione: quella dello scoraggiamento. Quando vediamo persone che remano contro, quando sentiamo critiche, quando ci accorgiamo che ci parlano alle spalle ci viene la voglia di mollare tutto. La critica negativa, l’avversione e l’incomprensione di fratelli e sorelle che appartengono alle nostre comunità cristiane, ai gruppi e ai movimenti, può essere una grande tentazione: quella di lasciarci cadere le braccia. Per di più gli scandali all’interno della Chiesa da parte di persone che dovrebbero essere dei modelli ci può davvero sconcertare e scoraggiare. «Vale la pena ancora impegnarsi?» – può essere il pensiero – e quindi la tentazione – che passa per la nostra mente.

Gesù aveva previsto l’avversione e la persecuzione – addirittura collegandola con la beatitudine – nel discorso sulla montagna: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (Mt 5,11-12). Se fossero “non credenti” ci faremmo una ragione. Ma talvolta anche per noi è “l’amico” a farci soffrire. E ci viene la tentazione di mollare tutto. Dimenticandoci che Gesù ci invita a seguire lui, il rifiutato per eccellenza.

Eppure proprio all’interno di queste prove, se anziché guardare al mio “io ferito” guardo al Crocifisso, possiamo incontrare Dio e sperimentare in noi la sua forza e la sua pace. È l’esperienza, per citare un testimone tra tanti, di San Giovanni della Croce.

I dieci anni, dal 1567 al 1577, costituiscono una stagione intensissima nella vita di Giovanni, ricca di ministero della Parola, di accompagnamento spiritua­le, di consolidamento della riforma, di molteplici fon­dazioni. Egli sembra appartenere a fratelli e so­relle con cui condivide gli ideali profondi della pro­pria esistenza. È proprio vero? All’esterno non pare. Anzi è ritenuto un uo­mo di successo, per il suo messaggio spirituale, per le sue opere. Ciò suscita reazioni.

Già tra il 1575-1576 è fatto prigioniero dai Calzati di Avila perché ritenuto un disobbediente, ma è libe­rato poco dopo, per intervento del Nunzio di Madrid. Invece il 2 dicembre 1577 è preso e strappato nella notte dalla sua casetta presso il Convento dell’Incar­nazione, delle Carmelitane di Avila, e condotto prigio­niero nel convento dei Calzati a Toledo.

Vi giunge sempre di notte, bendato, forse l’8 di­cembre e vi resterà fino al 17 agosto 1578. Conosciamo le condizioni disumane del suo car­cere toledano e il pressing psicologico e spirituale esercitato su di lui con infinite astuzie. Quella di Toledo è una vera macina. Giovanni è come cesellato, rifinito dallo scalpello del­l’Amato, anzitutto nel cuore della sua fede, ma con in­cidenza di prim’ordine in tutte le dimensioni del suo vissuto: spirituale, psicologico, mistico, estetico. Denudandolo, quell’esperienza di fede, lo restitui­sce a sé stesso rinnovato. Egli rinasce. Il carcere non è un grembo materno, che lo rigenera, ma è il modo in cui assume ed elabora il carcere che lo rende uomo nuovo.

Il criterio vale per lui e per tutti noi! Non è la cro­ce che ha significato in sé, ma è Cristo che glielo im­prime. Non è la croce che genera salvezza, ma l’amore di Colui che acconsente a esservi inchiodato.

Imprigionato, Giovanni è un uomo libero. Speri­menta come la libertà non consiste nel fare quello che si vuole, ma nel volere quello che si fa.

Non ha cercato o voluto il carcere, e ne fuggirà ap­pena possibile, ma per il tempo che vi rimane, quello - un luogo immondo - è lo spazio di un appuntamen­to da non mancare, come lo fu Babilonia per gli ebrei, la croce per Gesù. Tanto più che i suoi carcerieri, ver­so i quali ha sempre parole di bontà, sono convinti di operare per il bene.

In quei nove mesi toledani - il tempo di una gesta­zione - egli non abdica alla propria intelligenza: pen­sa, immagina, crea, progetta e, quando gli è reso pos­sibile, scrive. Le sue opere poetiche (circa 970 versi), in molte delle loro espressioni più alte e raffinate, ri­salgono a questo periodo.

Qui Giovanni della Croce ci appare nella sua au­tentica statura di discepolo del Signore. Non dobbiamo dimenticare che il percorso di Giovanni della Croce è stato lungo: è uno spirito provato, fin dalla più tenera infanzia. Le percosse della vita lo hanno lentamente forgiato, reso indomito. Lentamente si è trovato a non sottrarsi più a disagi, precarietà, emarginazioni, ma ad amarli. Diremmo che li preferisce come luoghi privile­giati per amare. Egli sa fin dall’adolescenza che il suo Signore abita il disagio: nel povero, nell’afflitto, nell’in­fermo, nel carcerato, in chi è solo, nell’angosciato.

Giunto a maggiore età, preferi­sce alla carriera ecclesiastica l’Ordine carmelitano, nell’Ordine chiede per sé la regola non mitigata, dive­nuto sacerdote non più l’Ordine ma la Certosa, poi non la Certosa ma le fatiche della riforma. Progressivamente si è fatta strada in lui la consa­pevolezza - già colta come prefigurazione simbolica nella sua vita di fanciullo e di adolescente - che la sventura può diventare epifania di grazia.

Elabora le ferite del passato; non ne rimane prigio­niero; impara, attraverso di esse, a proiettarsi con energie nuove verso il futuro.

Anche dal carcere toledano, come dalle privazioni precedenti uscirà ancor più temprato e ardente. Il suo vissuto testimonia che la croce guarisce, co­me il serpente elevato da Mosè nel deserto (cf Gv 3, 14), e rigenera.

Di cosa è stato privato nel carcere di Toledo? Sap­piamo che gli fu lasciato solo il breviario, che poteva celebrare, a seconda della luce del sole che entrava da una minuscola feritoia. Gli hanno tolto i beni più pre­ziosi: la Bibbia, che meditava anche viaggiando a dorso d’asino, l’Eucaristia, i colloqui con Teresa, la comunità degli Scalzi, la dolce amicizia dei più intimi, il ministe­ro dell’accompagnamento spirituale e quello dell’an­nuncio della Parola, ma anche la natura che amava contemplare, lo studio di cui si nutriva, lo scrivere.

Per un uomo di relazioni intense come lui la pena più acuta è stato l’isolamento coatto, la privazione d’o­gni contatto umano.

Egli mostra, non teoricamente, ma col proprio vis­suto, la validità dell’antico principio, biblicamente ra­dicato, che è fondamento del processo di santificazio­ne di ognuno: i nostri ostacoli diventano i nostri veicoli.

Quali gli ostacoli conosciuti dal prigioniero di To­ledo? Indubbiamente tutte le contrarietà che hanno accompagnato la sua esistenza, che egli ha elaborato come opportunità di grazia.

Se ci chiediamo: “Dove scoprire la Presenza?”, dobbiamo cercarla nella la “notte oscura” ove abita. Questa coesistenza tra tenebre e luce trova il suo registro nella verità cristiana già affermata: la glo­ria è nella croce, non dopo, non accanto. Il nostro ostacolo è costituito anzitutto da ciò che noi siamo, dal fardello della nostra indole, storia, edu­cazione, ferite non elaborate. Si diventa santi non con­tro, ma attraverso queste nostre realtà. L’ostacolo non è cancellato, ma trasfigurato: chiamandolo anzitutto per nome, riconoscendolo parte del progetto buono di Dio, credendo che la sinergia grazia-responsabilità è efficace nei suoi confronti.

In Giovanni de Yepes l’esistenza diventa un transitare di sfida in sfida. Si delinea, come metodo della sua vita e criterio di scelta, il ritenere che ove sia necessario più impe­gno, lavoro, rischio, sofferenza, quello sia il luogo ove meglio essere assimilato a Cristo crocifisso, suo sposo. Non dimentichiamo che per lui la croce è la piena ma­nifestazione dell’Amore.

Le vulnerabilità del vissuto diventano pietre miliari nella storia della sal­vezza di questo discepolo.

Quando i Calzati lo catturano e lo trascinano ben­dato come loro prigioniero nella cella carceraria di To­ledo, non si rendono conto che stanno facendo, in fondo, il suo gioco, che è il gioco di Dio. Non perché la vittima vi si sia prestata o tanto meno abbia cercato un simile gioco crudele, ma perché una peripezia in più è soltanto, pur con tutto il suo peso, una nuova occasione d’amore. Le situazioni-limite sono il suo pane.

«Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?» chiede l’orante del Salmo 11. Il carce­rato di Toledo risponde che può soltanto amare.

Il processo interiore cui è sottoposto plasma una personalità fortissima. Egli è un vero mite, umile e do­cile, ma irremovibile. È un uomo determinato, non un mediatore. Solo una figura così illuminata e di dolce robustezza poteva portare a termine l’opera della rifor­ma.

 

La tentazione di assecondare le intenzioni del “cuore impuro”

Ritorno alle folle che stanno a vedere. Cosa hanno capito? Hanno riconosciuto in quel crocifisso il Messia che ci salva? Riconoscere il Signore non solo sulla croce ma anche nell’oggi in cui è presente e operante nel paradosso del mistero pasquale – la croce che portiamo con lui, le croci che portano i fratelli nella fede, la presenza del Signore dove c’è bontà, dono di sé, solidarietà, ecc. – è essenziale per un credente. Perché il Signore non è – per la mia vita concreta – il Signore del passato, della storia, del ricordo, ma del presente, dell’oggi. E’ questa la prospettiva dell’evangelista Luca. Egli ha infatti un problema diverso dagli altri evangelisti, perché Giovanni ha visto Gesù, quindi è rimasto affascinato e abbagliato e così ci introduce nel mistero; lo stesso Marco, che l’ha visto, racconta l’esperienza di Pietro che l’ha visto; anche Matteo si riferisce a ciò che ha visto e sperimentato e lo trasmette: questa esperienza di Dio così forte. E l’ha scritto per chi non l’ha visto ovviamente, perché attraverso la parola possano anche loro vederlo e farne esperienza. Luca invece non l’ha visto e, come noi, ha letto i Vangeli e tutti i resoconti che c’erano su Gesù e scrive per la terza generazione, di chi non l’ha visto e può “vederlo” e “contemplarlo” in modo diverso: con gli occhi della fede.

Per riconoscere il Signore presente nell’oggi è necessario avere un “cuore puro”: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8); lo vedranno nel Cielo, ma anche già ora possono vederlo (il “già e non ancora” della beatitudine). Cioè un cuore rinnovato dallo Spirito Santo che pensa (ragiona), desidera e agisce con intenzioni rette, conformi al Vangelo. Allora potrà riconoscerlo negli avvenimenti, nelle persone, in me stesso (nell’azione dello Spirito che abita in me).

Dobbiamo allora chiederci: il mio pensare, il mio volere, il mio agire sgorga da un cuore puro, oppure ci sono ancora intenzioni non in linea con il vangelo? Ci sono ancora motivi di autoaffermazione, di vanità, di tornaconto personale, ecc.?

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[1] Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 1.

[2] Ibid, n. 6.

[3] J.M. Bergoglio, Amour, Service & Humilté, Paris 2013, 65-66.

[4] Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 82.

[5] Papa Francesco, Omelia da Santa Marta, Oltre i formalismi,1 aprile 2014.

[6] J.Ch. Nault, Il demonio meridiano. L’accidia, un’insidia sconosciuta del nostro tempo, Cinisello Balsamo (MI) 2015, 182.

[7] CCC n. 1078.

[8] Ibid., n. 2097.

[9] Papa Francesco, Omelia da Santa Marta, La santità è sperare con coraggio ogni giorno, 24 maggio 2016.

[10] Papa Francesco, Omelia da Santa Marta, La gioia del cristiano non è allegria di un momento, 10 maggio 2013.

Ultima modifica il 01 Aprile 2019

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