«Io e Dio» è il titolo di un libro di Vito Mancuso, che si propone di «giocare la partita della vita e del suo senso come un incontro tra Io e Dio»[1]. L’autore, con i dati sociologici sotto mano, riconosce che non è vero che «Dio è morto», come aveva annunciato Nitezche. Ancora una stragrande maggioranza delle persone in tutto il mondo credono in Dio. Ma chi è questo Dio che è “tornato” nell’orizzonte di una gran parte dell’umanità? Mancuso non ha dubbi:
«Il Dio tradizionale non può più ritornare. Il Dio che ha retto la coscienza occidentale per quasi due millenni, il Dio che guidava gli eserciti e al cospetto del quale si celebrava la messa con il trionfale Te Deum dopo le vittorie militari, il Signore della storia che stava dietro ogni vento, il dio della Provvidenza… che guidava le sorti dei popoli verso la piena sottomissione alla Chiesa di Roma: quel Dio lì ormai non può più tornare. Dopo i milioni di innocenti massacrati nella più totale indifferenza celeste, è semplicemente impossibile parlare ancora di un Dio della Provvidenza storica. Ha scritto Primo Levi: “Se non altro per il fatto che un Aushwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza”. […]
Neppure può tornare il Dio che governa le piccole cose della cronaca quotidiana, quel Dio che conta i nostri capelli e senza il cui volere non cade a terra neppure uno dei passeri del cielo, come pensava Gesù: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contanti. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!” (Mt 10,29-31). Ogni giorno veniamo a sapere di malattie incurabili che si abbattono su piccoli e grandi senza nessuna distinzione morale, di incidenti e fatalità di ogni tipo, una valanga di cronaca nera con figli che uccidono genitori, genitori che uccidono figli, morti sulla strada, sul lavoro, al mare, in montagna, dovunque. Chi può guardare al mondo e sostenere con veridicità e onestà intellettuale l’idea di un governo provvidente e giusto sui singoli esseri umani da parte di Dio, compresa la cura per i loro capelli?»[2].
Cosa rispondere a queste obiezioni di Mancuso? Certamente non bastano poche battute per dare una risposta convincente. Bisogna anzitutto riconoscere che – forse sembrerà strano – l’uomo, già nell’AT, ma anche il cristiano, ha avuto idee distorte di Dio, frutto di una lettura a partire dalle proprie categorie culturali, e talvolta si è servito anche di esse per giustificare le proprie azioni. Per esempio i soldati tedeschi portavano scritto nella cintura: “Gott mit uns”, cioè “Dio è con noi”. Allora per capire bene chi è Dio davvero, che Gesù ci ha rivelato in pienezza, è bene tornare sempre a leggere con attenzione la Sacra Scrittura. E a leggerla alla luce della tradizione della Chiesa, cioè di quella comprensione che è cresciuta, purificata e maturata lungo i secoli, grazie all’azione dello Spirito santo. Ed è quello che faremo. Oggi, in particolare, ci soffermiamo sulla figura di Abramo e la “scoperta” di un Dio diverso da tutti quegli dèi – o meglio idoli – fino ad allora conosciuti.
Esperienza di Abram nella casa paterna
In Gen 11,27-32 abbiamo un testo che ci presenta alcune informazioni su Terach, il padre di Abramo, di Nacor e Aran, e l'esperienza che Abram ha delle relazioni familiari. Leggendo attentamente il testo si nota subito che le relazioni familiari sono dominate dalla figura del padre (Terach), citato ben 6 volte (ma il 6 è un numero imperfetto); della moglie e madre dei figli, infatti, non si fa menzione. Si noti anche la ripetizione dell'aggettivo possessivo nel v. 31: «Tèrach prese Abram suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio di suo figlio, e Sarai sua nuora, donna di Abram suo figlio...» (v. 31). La paternità di Terach è quindi all'insegna della possessività. Per questo non c'è da stupirsi che il primogenito sia stato chiamato Abram, che significa «(il mio) padre (ab) è elevato/eccelso (ram)»; cioè il “destino” di tale figlio è quello di esaltare il padre Terach. Si noti, poi, che il secondogenito, Nacor, ha lo stesso nome del padre del padre (cfr. Gen 11,22-24): è l'unico caso nella Genesi nel quale un figlio prende il nome del nonno! Aran, l'unico figlio il cui nome non sembra essere in associazione con una paternità, muore subito dopo aver generato Lot.
Le relazioni familiari sono dunque caratterizzate da questo legame possessivo di Terach nei confronti dei figli; e c’è l’esperienza dolorosa della morte.
La morte di Aran è seguita immediatamente dal matrimonio dei due figli maggiori (v. 29). Anche Abram si sposa con una donna di nome Sarai, il cui nome significa: «i miei principi». Sarai però è sterile. La famiglia di Terach è quindi doppiamente segnata dalla morte: da quella, come già detto, di Aran, ma anche dalla sterilità della sposa del primogenito (Abram).
Cosa fa Terach? Come reagisce a questa situazione? Prende i suoi familiari segnati dalla morte – e solo questi –, cioè Abram e Sarai (quindi la coppia sterile) e Lot, orfano di padre (cfr. v. 31)[3], ed esce con loro da Ur dei Caldei. Terach, quindi, cerca di strapparli dalla sventura[4]. È il tentativo di sfuggire dalla morte. Oggi forse noi faremmo ricorso alla scienza e in particolare alla tecnica. Sono certamente risorse molto utili, ma non risolvono il problema della morte, perché infatti la vita rimane un dono di Dio.
Si noti che nel suo viaggio verso Canaan, Terach fa una sosta a Carran. Ma di fatto Terach non uscirà più da lì, non riuscirà a raggiungere Canaan, e infatti lì vi morirà (cfr. v. 32).
La morte di Terach in Carran avviene 60 anni dopo la partenza di Abram[5]; il che vuol dire che Abam è riuscito a svincolarsi dal padre. Anticipando l'annuncio della morte di Terach prima della partenza di Abram, l'autore sacro suggerisce che Terach abitava nel lutto per la partenza di questo figlio, fa parte della morte ancora prima di morire. L'autore sacro cioè ci dice: Terach fa parte del passato. Per questo nei capitoli seguenti, anche se ancora era vivo, non si farà di lui più menzione.
Esperienza religiosa di Abramo prima della chiamata
Quale conoscenza di Dio Abramo prima della chiamata di Gen 12? Anzitutto sembra aver avuto una certa concezione di Dio a partire dalla contemplazione della natura e degli astri; ciò lo si deduce da ciò che dice al re di Sodoma in 14,22: «Alzo le mani davanti al Signore, Dio altissimo, creatore del cielo e della terra». Quindi emerge una visione di un Dio unico, contemplato a partire dallo splendore della creazione, esperienza probabilmente previa alla parola di Dio su di lui.
La Sacra Scrittura in modo molto generico afferma che i padri di Israele, come Tèrach «al di là del fiume», nei tempi antichi «servivano altri dèi» (Gs 24,2; cfr. anche Gd6 5,6-9).
Se invece ci rifacciamo alle nostre conoscenze sui gruppi seminomadici di quel tempo, dei quali Abramo ne faceva parte, Dio era capito come una presenza personale nelle vicende e nella vita del gruppo patriarcale e del singolo: Dio è con il gruppo, con la famiglia patriarcale. È un Dio che accompagna e protegge, che segue la storia del gruppo. È un Dio – o, meglio, un idolo - che non si vincola a nessun luogo (date le condizioni di vita del gruppo), a cui viene affidato il proprio presente e il proprio futuro. Probabilmente Abramo aveva questa concezione di Dio. Ma l’idolo o gli idoli che suo padre venerava non aveva preservato la famiglia dalla dolorosa esperienza della morte.
Dio si rivela ad Abramo
Chi strappa Abram dalla situazione di morte in cui versa tutta la famiglia è il Signore. «Il Signore disse ad Abram…» (Gen 12,1). Anzitutto fa esperienza di un Dio che parla. Non è muto come gli idoli. E lo chiama per nome! Si sente conosciuto e cercato da sempre, ma adesso scoperto e afferrato di sorpresa, come alle spalle, e abbracciato con forza e con un’infinita tenerezza amicale (Fil 3,8-14). E non solo. Dio darà un senso completamente nuovo al suo stesso nome, e lo lascia segnato per sempre: «Avraham, Avraham» (Gen 17,5, che spiega il significato del nome: «padre di una moltitudine di nazioni»). Dio «tira fuori» Abramo dalla situazione che sta vivendo, e lo proietta sui sentieri di un pellegrinaggio: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (12,1).
Così comincia la storia di Abram: con Dio che gli ordina di partire dalla propria terra (che, probabilmente va identificata con la regione chiamata in Gen 24,10 “Aram dei due fiumi”, oggi la valle del Balih, situata tra il Tigri e l’Eufrate), separandosi dal padre, dalla situazione stagnante.
E’ interessante notare anche il parallelismo con Gen 1: «Dio disse... »: è Dio che prende l’iniziativa e “fa”, crea una cosa nuova nella storia. Così, come Dio ha preso l’iniziativa di creare l’universo, ora prende l’iniziativa per iniziare la storia della salvezza. E lo fa con la sua parola che rivolge ad Abram. Lasciarsi coinvolgere dalla Parola divina significa lasciare che sia Dio ad essere l’architetto della nostra vita.
Che cosa dice Dio ad Abram? Anzitutto si ha un imperativo: «vattene»: lascia il paese, la patria, la casa del padre, il clan, la cultura... Il verbo, letto nella versione della Bibbia CEI in italiano, ci fa comprendere che si tratta solo di allontanarsi da un luogo. Ma l'espressione del comando, tradotta letteralmente dall’ebraico, è significativa: «va' per te dalla tua terra...». Il cammino di Abram non sarà solo un cammino di tipo fisico, ma soprattutto un cammino spirituale. Dovrà viaggiare prima di tutto dentro se stesso.
Si noti anche la pedagogia di Dio: chiede ad Abram di lasciare, in un ordine non casuale, in crescendo, la terra (l'ambiente fisico), la parentela e il padre. Per un nomade non è poi così difficile lasciare la propria terra. Diventa più difficile lasciare la propria tribù, cioè la sua cultura, ogni sicurezza, ogni legame affettivo. Lasciare tutto per andare «...verso la terra che io ti indicherò (lett. “io ti farò vedere”)». In questo cammino Abram farà esperienza della paternità di Dio, una paternità liberante, ben diversa da quella di Terach.
Si noti il contrasto tra la chiarezza di ciò che Abram è chiamato a lasciare e l'oscurità della destinazione. Non è nominato il paese. Non è facile sapere quale strada prendere. Semplicemente Abram deve mettersi in cammino, lasciando il noto per l'ignoto.
Questa è la logica di ogni chiamata: lasciare dietro di sé la sicurezza per addentrarsi nell'ignoto. Non esiste la risposta alla chiamata di Dio con delle sicurezze; esiste solo un affidarsi alla Parola divina, un atto di fiducia nel Dio che chiama. Tutta l’identità di Abramo nasce dal suo perdersi dietro e dentro la Parola di Dio. Lascia tutto per avventurarsi in una avventura divina.
La chiamata, poi, è accompagnata da sette promesse, tutte al futuro: «farò di te un grande popolo, ti benedirò, renderò grande il tuo nome, diventerai benedizione, benedirò coloro che ti benediranno, maledirò chi ti maledirà, in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (vv. 2-3). Promesse che sono accompagnate da una pienezza di benedizione (per cinque volte viene ripetuta la parola “benedizione”), quindi una pienezza di vita. E se Dio promette una “pienezza”, ciò vuol dire che Abramo, riconoscendo un certo vuoto nella sua vita, si sente attratto dalla prospettiva di ciò che Dio gli promette.
Ciò che Dio promette ad Abramo
La tradizione rabbinica individua in Gen 12,3-4 sette promesse divine, sette sfaccettature del progetto che Dio si impegna a garantire ad Abramo; ricordiamo che il numero sette indica pienezza. A queste promesse poi si aggiungerà anche un'ottava, quella della terra.
• «Farò di te un grande popolo». Da Abramo anziano e da Sara anziana e sterile, Dio farà nascere un popolo «numeroso come la polvere della terra» (13,6) e come le stelle in cielo (cfr. 15,5). È da notare che questa promessa della discendenza contiene anche un motivo di vita contro la morte. Come ben sappiamo i figli erano per l’ebreo (e per l’orientale in genere) quasi il segno della continuazione di sé. Sarà Cristo, il Messia, della stirpe di Abramo, a sconfiggere la morte.• «ti benedirò». La benedizione di Dio verrà sperimentata da Abramo come: capacità di generare un figlio (cfr. 21,1-7), possibilità di trovare pascoli fertili per il suo bestiame (cfr. cap. 13), protezione nei momenti di difficoltà di relazione con gli altri (cfr. 12,10-20; cap. 14), l'essere fedele nel momento della prova (cfr 22,16-18), il poter morire «in felice canizie, vecchio e sazio di giorni» (25,8).• «Renderò grande il tuo nome». Il Signore si impegna a fare in modo che il nome di Abramo venga ricordato da tutte le generazioni (cfr. Sir 44,19). Per gli ebrei Abramo è «la roccia da cui sono stati tagliati, la cava da cui sono stati estratti» (Is 51,1). Anche per i cristiani il nome di Abramo è fondamentale perché lo considerano «padre nella fede» (Rm 4,16-17), come lo è per i musulmani che lo chiamano Al Kalil = amico di Dio (cfr. Is 41,8).
È da notare la relazione di questo brano con quello della torre di Babele (11,1-9) a motivo del «nome». Questo «nome grande» che Dio promette per Abramo è puro dono divino. Ci troviamo quindi di fronte a due logiche opposte: da una parte l’uomo che conta sulle proprie forze[6]; dall’altro l’uomo che è «grande» perché crede. Abramo credette a questa promessa[7]. La fede rende possibile ciò che umanamente è impossibile.
• «Benedirò coloro che ti benediranno». Si noti che la condizione affinché i popoli accolgano la benedizione attraverso Abramo è quella di accettare che Dio abbia scelto lui e non altri. Che sia l'eletto.• «coloro che ti malediranno maledirò». Chi, invece, in qualche modo tenterà di eliminare Abramo (e i suoi discendenti) dalla faccia della terra, dovrà fare i conti con la morte. Evidentemente non è Dio che maledice, ma sono i popoli che, rifiutando di accogliere il progetto di Dio, la sua offerta di salvezza in Abramo, entrano (o rimangono) nella morte.
Se è così, ci si accorge che coloro ai quali è destinata la benedizione hanno anch'essi qualcosa da lasciare, da abbandonare: la bramosia, la gelosia che sbarra l'accesso alla benedizione. La vita, infatti, non può svilupparsi in pienezza in un contesto di rivalità e di concorrenza, ma solo in un contesto di condivisione e di scambio. In questo senso, come Abram deve accettare di abbandonare la sua terra, la sua patria (cultura) e la sua casa per rispondere all'invito di JHWH, chi vuol ricevere la benedizione deve anch'egli sottrarsi alla logica di invia, di bramosia, per non rimanere nella morte.
• «e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (promessa ripetuta in 22,1). Abramo è chiamato a diventare benedizione per tutti i popoli (v. 3), strumento quindi di salvezza per l'umanità.
In questa benedizione attraverso Abramo San Paolo vede già contenuta la promessa del Messia. Il mondo intero sarà benedetto («tutte le famiglie della terra») con la sua venuta (cfr. Gal 3,7-9).
• Infine possiamo aggiungere un'ultima promessa, l'ottava, che riguarda la terra. Già al v. 1 JWJH aveva parlato della «terra»: «Vattene dalla tua terra... verso la terra che ti farò vedere». In seguito, dopo aver attraversato il paese, quando giunge a Sichem, presso la Quercia di More, riceve la promessa divina: «Alla tua discendenza io darò questo paese» (12,7): promessa ripetuta più avanti, quando, dopo essersi separato da Lot, si stabilisce nel paese di Canaan, il Signore gli dice: «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente. Tutto il paese che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza per sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra... » (13,14-17). L’espressione «alza gli occhi…» non va intesa solo in senso fisico; significa anche che la terra promessa dev’essere accolta con gli occhi della fede. È facile immaginare cosa Abramo avrà visto: una terra collinosa, con poca acqua, e quindi piuttosto sterile. Una terra difesa dai cananei con le armi. Eppure è proprio questa terra che Dio ha deciso di dare ad Abramo, tanto che gli ordina di prenderne visione: «Alzati, percorri il paese in lungo e in largo, perché io lo darò a te» (v. 17). E Abramo obbedisce: «Poi Abram si spostò con le sue tende…» (v. 18).
Infine in 15,18 il Signore gli conferma la promessa («Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate») con un vero e proprio giuramento (cfr. 15,7-20).
La risposta di Abramo
Come reagisce Abramo alla Parola di Dio e alle promesse divine che l'accompagnano? Non fa domande, non chiede spiegazioni, non chiede segni che assicurino la veridicità della promessa[8]. La scrittura dice: «Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore...» (12,4). Decide di fidarsi questo Dio che non conosce ma che conosce il suo nome; rischia sulla sua parola, e parte senza tentennamenti.
Per Abramo questa partenza rappresenta come una nuova nascita: il verbo “uscire”, utilizzato alla fine per esprimere la sua partenza («Abram aveva settantacinque anni quando uscì da Carran» - v. 4), è infatti il verbo della nascita quando colui che nasce si trova in posizione di soggetto. E’ un cammino che lo apre alla benedizione, e allo stesso tempo lui stesso sarà strumento di benedizione per gli altri.
La lettera agli Ebrei così commenta questa partenza di Abram: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì, partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (11,8). Si tratta di una fede iniziale, che verrà poi messa alla prova. E tuttavia è essa a cambiare il corso della storia, facendo della storia umana una storia della salvezza. È una fede che nasce dall’ascolto della Parola, della promessa. Ed è una parola che Abramo porterà sempre dentro di sé. Per questo Abramo, a differenza di Adamo che non obbedisce alla parola («Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi certamente moriresti»: Gen 2,16-17), è padre nella fede. Quando arriverà a Sichem costruirà un altare: è il riconoscimento che il Signore è Colui che dona, e l'uomo è sempre colui che accoglie, risponde nella fede.
Dieci anni dopo, quando il figlio dalla propria moglie Sara non sembra arrivare, Abramo non teme di interrogare Dio, mostrando di non capire. Infatti al Signore che gli si rivela e gli assicura una “grande ricompensa”, Abramo chiede: «Mio Signore, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco... Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede» (Gen 15,2-3). Possiamo immaginare il dramma di Abramo. Abramo, incrociando gli altri clan della Palestina, avrà visto la presenza di figli che continuano a correre per il deserto. Allo stesso modo guardando i residenti, i cananei, avrà visto città piene di eredi che le renderanno ancora più ricche. Per Abramo, invece, Eliezer sembra essere l’unica speranza. Sarà lui a recitare la preghiera funebre al posto di quel primogenito che Abramo ha sognato e che non ha avuto; sarà lui a seppellire Abramo e Sara nel riposo dei padri; sarà lui a ereditare le poche cose di questo povero clan. Come vedete questa è oscurità: è l’oscurità della fede. E tuttavia questa oscurità all’improvviso può squarciarsi, conoscere dei momenti di luce. Segue infatti una nuova assicurazione di Dio: «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle... tale sarà la tua discendenza» (Gen 15,6; promessa rinnovata in 22,17). In 13,16 Dio aveva promesso una discendenza «come la polvere della terra». Ora alla quantità aggiunge la qualità: le stelle del cielo non solo sono numerose, ma anche luminose. Quindi una discendenza gloriosa tra i popoli della terra (cfr. Rm 9,4). I tempi di Dio non sono i tempi degli uomini. Ma non per questo Dio viene meno alla promessa.
Qual è la risposta di Abramo? Qui, in Gen 15,6 a differenza di 12,4 (dove si dice che Abramo parte), di 12,7 (Abramo costruisce un altare[9]) e di 13,18 (Abramo sposta le tende) il testo mette in evidenza un atto interiore del patriarca: egli “credette”, cioè si affidò e il Signore «glielo accreditò come giustizia» (v. 6). Abramo crede: in ebraico il verbo (he’emin) è lo stesso che dà origine all’amen con cui concludiamo le nostre preghiere e significa «appoggiarsi a…», «fidarsi di…». È il verbo della sicurezza. Il patriarca si fida di Dio e della sua parola e a lui consegna se stesso e il suo futuro. Questo gli viene «accreditato»: si tratta di un verbo usato nella Bibbia per indicare i sacrifici validamente celebrati. Il nuovo, vero sacrificio da offrire a Dio è perciò l’atto interiore di fede.
La promessa che Dio fa ad ognuno di noi
Queste parole che Dio dice ad Abram riguardano anche noi. Anche noi siamo destinatari di una promessa di pienezza, di benedizione.
• In Cristo Gesù, la Parola fattasi carne, Dio ci ha benedetti con ogni grazia. Egli vuole che la nostra vita sia “piena”. Da parte nostra, però, dobbiamo accogliere la sua benedizione con la fede di Abramo, accettare il rischio di “partire”, cioè di rompere il nostro io, con le sue sicurezze, per ritrovarlo più grande. È la rinuncia alla pretesa di autonomia per vivere di un potere preso in prestito, ancorandoci alla reale sorgente di ogni bene. È un vivere di nuovo in dipendenza: dipendenza da Dio, da cui proviene ogni bene. È un decentramento libero, fatto da un io adulto, è un gesto di libertà.
La nostra grandezza e realizzazione deriva dall’esserci legati alla reale sorgente di potenza; la nostra stabilità deriva dall’esserci appoggiati non più alle persone o alle cose (questo è la sfida del «lasciare tutto»), ma al Dio delle persone e delle cose. Potenza e stabilità non più conquistate a gomitate, cercando in tutti i modi di farci spazio nella vita, ma dal dono di Dio.
Ciascuno di noi Dio ha ricevuto o riceverà anche una parola specifica che dobbiamo custodire nel nostro cuore, come ha fatto Maria. È questa parola che personalmente il Signore, come ad Abramo, ci ha rivolto, che specifica la nostra vocazione. È questa parola infallibile la nostra guida nel pellegrinaggio della fede (Sal 118, 105). Come Abramo ci lasciamo condurre dalla Parola del Signore.
• La discendenza. Dio ha promesso che Abramo avrà un figlio dalla moglie sterile, avrà una discendenza. Per gli ebrei i figli sono importantissimi, rappresentano la “continuazione” dopo la morte dei genitori. In un certo senso promettere la discendenza vuol dire promettere la vita. Per Abramo questa vita che continua nei figli. Per noi cristiani la vita quella che viene da Dio, quella che è più forte della morte: «Dio… ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio primogenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16; cfr. 3,36; 5,24, 6,40.47, ecc.). E Gesù ci invita calorosamente a desiderare e accogliere da lui questo dono: «Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà» (Gv 6,27).
Ma che cos’è la “vita eterna”? Non è solo la vita nel paradiso, dopo la morte, ma è la vita di Dio che già abita in noi in forza del battesimo, quella vita che vuole espandersi e portare i frutti quando siamo consapevoli di questo dono e lo alimentiamo con una vita vissuta nella grazia del Signore e con i sacramenti. Si chiama “eterna” non perché è la vita biologica che dura all’infinito, ma è la vita con una qualità indistruttibile, la vita dell’Eterno. Dio infatti non risuscita i morti ridonando la vita biologica, ma è un Dio che dà ai vivi che credono in lui questa vita (cfr. Gv 3,15-15.36; 6,40.47). Osservava acutamente papa Benedetto: «Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile». E continua: «Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa “vera vita”; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti. […] Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte»[10].
• Inoltre come per Abramo ci è promessa la «terra». Quale terra? Non possiamo non ricordare le parole di Gesù: «Beati i miti perché erediteranno la terra» (Mt 5,5 con citazione di Sal 37,11). Che cos’è questa terra promessa?
- La terra è anzitutto il nostro cuore. Chi sa rispondere al male con la mitezza della beatitudine lo possiede, non si lascia trasportare dalle passioni. Sa mantenere rimanere nella pace e nella serenità. Ma è necessario un cammino, o, meglio, un lavoro di “cura” del proprio cuore. Nella Genesi si narra che Dio affida all’uomo da lui creato il compito di coltivare la terra (cfr. Gen 2,15). Ma – si noti – l’uomo è stato plasmato con l’humus del suolo (cfr. Gen 2,7). Di conseguenza coltivare la terra è anche un segno/invito a coltivarsi. A coltivare il proprio cuore con l’ascolto della Parola di Dio, con la vigilanza, e con l’esercizio delle virtù.
- La terra e gli spazi vitali che abitiamo. Tra il possesso del proprio cuore – con compostezza e mitezza – e il possesso della terra (la famiglia, la comunità, il luogo di lavoro, la città, la patria, la politica, l’economia…la natura) c’è una relazione profonda. Perché si “possiede” come dono da accogliere solo ciò che si ama e si coltiva.
Il contrario di possedere la terra è contendere spazi. In ogni contesa di spazi si cela un’assenza di mitezza e un desiderio di potere. Esistono contese aperte e contese attutite, non sempre facili da discernere. Ma le distinguiamo con chiarezza a partire dai loro frutti: quelli che hanno desiderio di potere disputano spazi che poi non coltivano. Conquistano ma non fanno, e non lasciano fare ad altri. Accumulano territori – lavori, incarichi, responsabilità… –, ma quando non possono occuparsene loro non può farlo nessun altro, perché non hanno creato una squadra e non hanno lavorato con nessun altro. Ciò deriva dalla mancanza di mitezza nel proprio cuore, dal non aver trovato il proprio spazio, il proprio luogo, e quindi ci si dedica a combattere per quello degli altri. E dopo che lo si è conquistato, lo si lascia andare in rovina. Il violento conquista per poi disprezzare e abbandonare. Il mite, se la sua pace non viene ben accolta, si scuote la polvere dai sandali e se ne va in un’altra città, in un altro posto (cfr. Mt 10,14 e parr).
Per questo il Vangelo dice che solo i miti erediteranno e quindi possederanno la terra perché solo loro sono in grado di amarla e mantenerla a beneficio di tutti. Qui si apre un tema di grande attualità oggi: lo sfruttamento e conservazione dei beni della terra. Su questo fronte i miti sono coloro che abitano la terra senza violentarla o deturparla, vivendo in alleanza con essa, sfruttando i beni con coscienza e cura in quanto la terra non è una preda ma un dono di Dio a beneficio di tutta l’umanità.
- Dio stesso. Infine la terra promessa è Dio stesso. Siamo fatti per Lui e solo lui – come afferma sant’Agostino – può saziare il nostro cuore. La terra promessa è per eccellenza il possesso di Dio, che già inizia nella vita che viviamo (il “già” rimanda ad una pienezza nel futuro (il “non ancora”). Ricordiamoci le parole di Gesù in Gv 14,2-3: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via». Il presente del cristiano è il luogo dell’accoglienza, della continua ricerca di Dio in mezzo alle ambiguità della storia. Non è quindi una terra che si conquista in modo immediato. Per arrivarci occorre passare attraverso paesi stranieri, come fece lo stesso Abramo, che subito dopo si recherà in Egitto. Tendere a questa terra e, insieme scoprire di vivere in terra straniera, ci ricorda come è importante non perdere di vista il “fine” del nostro cammino, lasciandoci “bloccare” da altre realtà, buone in sé, ma che possono divenire – per un affetto disordinato – motivo di ostacolo.
Che cosa voglio? Che cosa desidero? Cosa cerco?
C’è un bel brano del Vangelo che può aiutarci a guardare dentro il nostro cuore e chiarire meglio a noi stessi che cosa in realtà voglio, che cosa cerco. Si tratta dell’incontro di Gesù con i primi discepoli in Gv 1,35-42.
Il Battista vede passare davanti a sé Gesù e lo indica, dà una testimonianza per tutti quelli che erano presenti, un annuncio: “Ecco l’agnello di Dio” (v. 36).
Per il Battista i suoi due discepoli (erano tutti quelli che in quel momento aveva con se!) sono l'offerta che fa a Gesù. Egli aveva condiviso trepidante l'attesa, ma ora, quale amico dello sposo, «gioisce di gioia per la voce dello sposo», avverte di dover diminuire, perché lui cresca (cfr. 3,22-36). Non avendo più motivo di trattenere i discepoli, li accompagna fino al dono totale di sé.
L'invito ad offrirsi era giunto ai discepoli attraverso lo sguardo: “Fissando lo sguardo su Gesù che passava” (cfr. v. 36). Quello del Battista è uno sguardo d'intesa e di reciproco riconoscimento. Uno sguardo intenso che, silenziosamente, penetra nell'intimo e svela qualcosa della nascosta identità della Parola fatta carne all'opera nel mondo e nell'uomo. Uno sguardo che indica ai discepoli l'ora di avviarsi, il tempo di mettersi in esodo alla sequela della Parola.
Il Battista, tuttavia, oltre a riconoscere il passaggio, svela ai suoi l'essere stesso di Gesù: “Ecco l'Agnello di Dio”, “Guardate l'Agnello di Dio” (cfr. v. 36). Nella solitudine del secondo giorno l'aveva già riconosciuto come il portatore dello Spirito, «colui che toglie il peccato del mondo» (cfr. 1,29), ma ora lo testimonia di fronte ai suoi. Gesù è l'agnello-servo che purifica gli uomini con la parola di verità, è l'agnello pasquale che dona lo Spirito e ricrea l'umanità nel sangue e nell'acqua (cfr. 19,28-37). Il Battista rende testimonianza a Gesù, servo e agnello, perché anche i suoi discepoli possano vedere quello che lui vede e, abbandonando lo «stare», si affidino al «camminare». Lo sguardo e la parola del Battista sono talmente coinvolgenti che il cuore dei due viene come inondato da una inattesa illuminazione. “I due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù” (v. 37). La sequela di Gesù è proprio la creazione nuova. Per la prima volta, due uomini si staccano da un legame puramente umano per aderire alla comunione con il Figlio di Dio. Tale passaggio è un salto di qualità, una conversione. Attraverso il cammino del discepolo, l'uomo diviene Dio per partecipazione. I due non hanno ancora questa consapevolezza, ma si affidano ad una persona carica di fascino e di mistero. Come autentici discepoli del profeta si riconoscono peccatori, perciò bisognosi anch'essi dell'Agnello di Dio.
I discepoli iniziano a seguire Gesù e non osano parlargli. Solo ad un certo momento Gesù stesso, voltandosi verso di loro, prende la parola: “Che cosa cercate?” (v. 38).
Sappiamo quanto l'antico Israele abbia desiderato vedere il volto di YHWH: “Mostrami la tua gloria... tu non potrai vedere il mio volto... perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. Ti nasconderò con la mia mano e passerò... Quando sarò passato toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (cfr. Es 33,18-23). Non si può vedere Dio e rimanere in vita. È questa la convinzione che percorre tutto l'Antico Testamento.
Quando i due iniziano a seguirlo, Gesù è di spalle, ma lui stesso si volta e mostra il suo volto: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9). La supplica del salmista si fa compiuta realtà: “Volgiti Signore, un poco, e abbi pietà dei tuoi servi” (Sal 90,13). Ma i due discepoli non sanno ancora che stanno vedendo il volto di Dio.
Gesù, dunque, domanda loro: “Che cercate?”. Sono le prime parole che Gesù pronuncia nel vangelo di Giovanni. Più avanti nel vangelo, il Risorto si volgerà alla Maddalena, dicendo: “Chi cerchi?”. È come se Gesù dicesse: “Cosa cerchi? Cosa ti attendi ma me? Perché mi cerchi? Chi cerchi in verità?”. La sua domanda fa direttamente appello al desiderio profondo di queste persone e vuole che esse esprimano tali desideri.
Che risposta danno i discepoli a Gesù? La seguente: : “Rabbi (che significa maestro), dove abiti?”. Esprimono il desiderio di stare a lui vicino, di imparare alla sua scuola di vita. Il termine “dimorare”, infatti, più che l'ambiente materiale, indica la condizione esistenziale e personale in cui uno vive. E Gesù accoglie questo desiderio:
pronunciando un imperativo e una promessa: “Venite e vedrete”. È l’invito a fare esperienza stando con lui, instaurando con lui una comunione di vita. Allora vedranno. Faranno esperienza di Lui, del seguire Lui con fede.
E noi cosa gli rispondiamo? Che cosa vogliamo davvero?
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[1] V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti, Milano 2011, 18.
[2] Ibid, 32-34.
[3] Curiosamente non si dice che prese con sé il figlio Nacor con la moglie Milca. Perché sono rimasti a Ur dei caldei? Forse è una decisione di Nacor di staccarsi da un padre così possessivo? Forse c'è stato un litigio ma per ben altro motivo? La scrittura non ce lo dice.
[4] La tradizione ebraica, invece – ed in questo è seguita dal Corano – sostiene che Abramo è dovuto fuggire da Ur perché aveva urtato la sensibilità religiosa dei suoi concittadini distruggendo le statue delle loro divinità per affermare l'unicità di JHWH.
[5] Terach, infatti, more all'età di 205 anni (Gen 11,32). Aveva 70 anni al momento della nascita di Abram (cfr. Gen 11,26). E Abram aveva 75 anni quando venne chiamato da Dio. Quindi alla chiamata di Abram Terach aveva 145 anni.
[6] Secondo la tradizione ebraica Abramo sarebbe stato gettato nel forno ardente per aver rifiutato l’idolatria (cioè di scrivere il proprio nome sui mattoni che dovevano servire alla costruzione della torre di Babele per avere un «nome» che rimanga in modo perenne – cfr. 11,4 - ; ma grazie all’intervento divino Abramo ne esce indenne. Nel midrash, infatti, leggiamo: «Il Signore fece tremare la terra e fiamme e faville uscirono dal forno, bruciando tutti i curiosi che si assiepavano intorno. Abramo, in cambio, uscì illeso dal forno, senza una sola scottatura».
[7] Il Sal 127 sembra essere un commento al racconto di Babele, individuandone la logica di fondo. L’uomo fatica invano «se il Signore non costruisce la casa» (v. 1). Lo stesso salmo dichiara che «dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo. (..) Beato l’uomo che ne ha piena la faretra…» (vv. 3-4). Questa è la promessa di Dio ad Abramo.
[8] Nel vangelo, invece, il Signore è molto duro con chi chiede continuamente dei segni. Chiama «perversa e adultera» la sua generazione; ad essa darà tuttavia il «segno di Giona» (cfr. Mt 12,39; 16,4).
[9] In questo modo Abramo riconosce come suo il Dio che gli ha parlato e dimostra di credere alla sua promessa. Egli lo fa quattro volte: prima a Sichem (12,7), poi a Betel (12,8; 13,4); a Ebron (13,18) e a Moria (22,9). Abramo sa bene che non sarà lui – secondo la promessa - ad entrare in possesso della terra («Alla tua discendenza io darò questo paese»: 12,7); i suoi discendenti, quando entreranno in paese, sullo stesso altare renderanno grazie al Dio fedele.
[10] Benedetto XVI, La gioia della fede, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012.