Cos’è l’accidia?
È significativa l’esperienza di G. Bunge. Quando egli presentò la riflessione su questo vizio gli studenti osservarono meravigliati: «Ciò che il suo padre del deserto descrive lì è il male del nostro tempo»[1]. Ma cos’è l’accidia?
L’accidia viene dal latino acedia, in greco akēdìa. L’«a» privativo e kedos significa cura. L’accidia è non curanza, indolenza, negligenza, indifferenza. Anzitutto verso la cura dell’anima, verso la vita spirituale, mancanza di cura verso la propria salvezza. Ma anche mancanza di cura, di impegno, nei confronti dei fratelli.
Mi sembra che si possa descrivere i volti dell’accidia come una quadruplice «fuga».
• Fuga da Dio. «La natura dell’accidia è la fuga da Dio, il desiderio di restare soli con se stessi e con i propri limiti, e di non essere disturbati dalla vicinanza di Dio»[2]. L’accidioso non ascolta la voce di Dio, si nasconde, ripetendo lo stesso gesto di Adamo ed Eva che dopo il peccato si nascosero allo sguardo da Dio (cf. Gen 3,1.10). Per questo cerca di fuggire dalla preghiera. E quando lo fa il “demonio meridiano” – così veniva chiamata l’accidia dai monaci – fa sentire pesante il tempo, che non passa mai, è interminabile.• Fuga da se stesso. Scappare da se stesso è il movimento contrario a entrare in se stesso. Il conoscersi a se stesso è entrare nel proprio intimo, nel cuore e scoprire nell’umiltà il proprio limite e la misericordia di Dio. Il figlio prodigo della parabola “rientrò in se stesso” (Lc 15,17), significa che egli iniziò a riflettere sulla situazione concreta che lo porterà al pentimento.
All’opposto quando il cuore si avvolge dell’accidia si rischia un disorientamento esistenziale. Ed è chiaro che quando si perde il senso della propria vita si ha una fuga da se stessi. La stessa temporalità perde di senso. Che senso ha ricordare, impegnarsi o sperare? Quindi l’accidioso perde il gusto dell’essere che si offre e si riserva sotto le fragili specie d’una temporalità piena di senso, cioè orientata e significativa. Questa perdita del senso dell’esistenza è molto pericolosa perché può provocare uno stato di scoraggiamento generale, cioè una visione di se stessi, degli altri, della vita attraverso lo schermo del pessimismo e del dubbio. L'accidia, in questo senso, è l'impossibilità per l'uomo di vedere qualcosa di buono e di positivo: tutto viene oscurato e ridotto al negativismo e al pessimismo.
Questa visione negativa su tutto e su tutti fa percepire la propria vita come giunta a un vicolo cieco. L'avversione e il disgusto nei confronti di tutto ciò che si è, si ha e si fa, legata a una bramosia diffusa per ciò che non è a portata di mano, paralizza a tal punto la vita da non lasciar spazio a nulla. Essere continuamente scoraggiati e insoddisfatti, dunque, diventa la modalità normale di affrontare l'esistenza. «È una sorta di asfissia - scrive E. Bianchi - o soffocamento dell'anima che condanna l'uomo all'infelicità portandolo a disdegnare ciò che ha, la situazione (di lavoro, affettiva, sociale) in cui vive e a sognarne una irraggiungibile, lo rende preda di paure svariate (per esempio, di malattie più immaginarie che reali), inefficiente sul lavoro, intollerante e incapace di sopportazione verso ‘gli altri’ (che diventano spesso il bersaglio su cui scaricare frustrazioni e aggressività), impotente a governare i pensieri che si affollano nella propria anima e che lo gettano nello scoramento, in una tale insoddisfazione di sé che egli si interroga se non abbia sbagliato tutto nella propria vita»[3].
Di conseguenza, anche ogni possibilità di futuro diventa inimmaginabile: chi si sente a un vicolo cieco non ha più progetti, non ha più mete da raggiungere. E se anche si intravede una via d'uscita, questa diventa troppo lontana, irraggiungibile. E lo scoraggiamento aumenta. Se tale situazione si trasforma in uno stato continuo e duraturo in cui chi è colpito dall'accidia non trova vie di uscita, allora si soccombe in una profonda depressione, in cui si è tentati di annullare sia la propria vita passata (rottura di vincoli o distruzione di una vita sociale) sia, addirittura, di azzerare ogni possibile futuro (suicidio).
• Fuga dal momento presente. L’accidia fugge ogni rapporto con il tempo presente. I Padri del deserto erano ben consapevoli che l’accidia era la tentazione di liberarsi dagli impegni e fatiche del presente.
Inoltre essendo il cuore “instabile”, “girovago”, l’accidioso è assalito e trascinato a destra e a sinistra da turbe di pensieri, un cuore che poggia sulla melma della propria confusione. Certamente quest’instabilità si manifesta in diversi modi: dal cambiare luogo o impegno, al fuggire verso situazioni ritenute ideali; dall'instabilità di umore all'instabilità di giudizio; dall'instabilità nei rapporti interpersonali alla sfiducia verso se stessi. Così Bunge descrive quest'irrequietezza interiore che si manifesta in mille modi:
«Bisogni di cambiar casa, lavoro, amicizie, compagnie... Impossibilità di portare a termine un lavoro iniziato, di finire la lettura di un libro... Tutto quello che si inizia viene abbandonato. Il più delle volte non ci si rende nemmeno conto di quel che ci sta accadendo. Abbiamo un sacco di ragioni plausibili che ci spingono a ‘cambiare aria’ [...]»[4].
Se per il monaco del deserto quest'irrequietezza e instabilità interiore si concentrava nel simbolo di una cella che gli stava troppo stretta, per l'uomo d'oggi assume altri volti: una scalata affannosa alla carriera, la ricerca di sempre nuove emozioni, un'angosciante forma di divertimento, la paura di lasciare spazi vuoti da impegni, l'instabilità nei rapporti ecc. Sono tutti palliativi di fronte a una fuga dal vuoto che si nasconde dentro di noi, e di cui l'accidia è il segno: stare da soli diventa terribile e crea paura, la paura di scoprire quale è lo stato del nostro volto interiore.
In questa situazione in parte anche l’informazione può essere un modo per fuggire dalla noia, perché ci aiuta a dimenticare i problemi, o almeno a distrarci dall’affrontarli[5].
• Fuga dall’agire. Per San Tommaso una caratteristica dell’accidia è il disgusto dell’azione, taedium operandi[6], un torpore che toglie la volontà dell’agire. Tristezza, delusione, pigrizia, sconforto, spengono lo slancio per le iniziative, la voglia di ogni sforzo.
In ambito apostolico – scrive papa Francesco – l’accidia va contro lo zelo apostolico e contro la voglia di annunziare agli altri la novità del Signore Gesù. «Proprio questa è “la malattia dell’accidia dei cristiani”, un “atteggiamento che è paralizzante per lo zelo apostolico” e “che fa dei cristiani persone ferme, tranquille ma non nel senso buono della parola: persone che non si preoccupano di uscire per dare l’annuncio del Vangelo. Persone anestetizzate”. Un’anestesia spirituale che porta alla considerazione “negativa che è meglio non immischiarsi” per vivere “così con quell’accidia spirituale. E l’accidia è tristezza”. È il profilo di “cristiani tristi nel fondo» a cui piace assaporare la tristezza fino a divenire «persone non luminose e negative”»[7].
Altri effetti dell’accidia
● Anxietas cordis. Cassiano traduce il termine greco akedìa con l'espressione latina anxietas cordis. Certamente una delle manifestazioni più caratteristiche di questo stato esistenziale è l'angoscia, l'ansietà, la quale, partendo dal cuore (intrappolato in quello stato di confusione e di turbamenti che abbiamo descritto), investe tutta la vita. Così la vita appare senza più punti sicuri, senza certezze, come appoggiata su di una superficie fluttuante; ogni appiglio che ci si illude di afferrare crolla rovinosamente. E più la costruzione della propria vita appariva solida e certa, più evidente è il disastro finale e maggiore l'angoscia.
Un fenomeno caratteristico che accompagna questo stato di ansietà è la preoccupazione eccessiva per il proprio corpo. Si potrebbe dire che a un'anxietas cordis segue un'anxietas corporis. Si ha l'impressione che il proprio corpo sfugga al controllo: non si riesce ad abitare il proprio corpo e ci si lascia trascinare in un'illusoria e quanto mai esagerata preoccupazione per la salute fisica. A riguardo di queste paure sul proprio stato fisico, Bunge fa notare come «Evagrio conosceva bene, del resto, anche il legame segreto che esiste fra malattia psichica e malattia fisica, tema che tanto occupa la medicina moderna. Nel capitolo dell'Antirrhetikos sulla tristezza, che è, come sappiamo, strettamente legata all'accidia, egli descrive fenomeni psicosomatici sorprendenti, visti come conseguenza di stati ansiosi eccessivi, che affascinerebbero uno psichiatra moderno[8].
● Asfissia dell’intelletto, cioè l’incapacità di utilizzare la facoltà razionale, di vedere chiaro, di discernere, di individuare la realtà e la verità delle cose e di se stessi. Evagrio ci ricorda che l'accidia «è solita avviluppare l'anima tutta intera e soffocare 1'intelletto»[9]. Ecco perché è difficile smascherarla: chi ne soffre, non riesce a riconoscerla, in quanto l'accidia - dice Evagrio - «oscura la luce divina negli occhi»[10]. Significativamente, ancora oggi, in situazioni di questo genere, diciamo: ‘Soffoco!’»[11].● Cuore appesantito. Un evidente sintomo spirituale dello stato di accidia è quello che potrebbe essere definito col termine evangelico di «cuore appesantito»: «state bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita» (Lc 21,34). Tale pesantezza interiore evoca altre immagini, come quella del cuore indurito, insensibile e impenetrabile (il contrario è il cuore compunto, il penthos) e quella del cuore piombato in un sonno profondo, in un torpore. In ogni caso, la situazione che ne deriva è tipica di chi ha perso un'agilità interiore, di chi non è più attento agli stimoli che rendono dinamica e in tensione l'esistenza; di chi non sa discernere occasioni o pericoli e di conseguenza si lascia trascinare, soccombere. Questa pesantezza, che investe tutta la vita, crea una struttura di uomo ‘addormentato’.
Ma è utile ricordare ancora che tale pesantezza si nasconde in profondità, nel cuore. Citando il Sal 118(117), 28, Cassiano nota come il testo scritturistico si esprima così: «Dormitavit anima mea prae taedio, id est prae acedia». E commenta: «non il corpo, ma l'anima si assopisce. Perché veramente dorme di fronte alla contemplazione di tutta la vita…»[12].
● Insensibilità e indifferenza. Una conseguenza grave di questo stato di torpore e altro sintomo radicale del potere dell'accidia è l'insensibilità, l'indifferenza (anaisthesìa), una sorta di morte spirituale che ‘anestetizza’ ogni senso interiore attraverso cui si prende contatto con le realtà più profonde del proprio io e soprattutto con Dio. È, dunque, una situazione veramente drammatica: è come essere caduti in balìa di quegli idoli «che hanno occhi e non vedono, orecchie e non ascoltano, narici e non odorano...», cioè incapaci di comunicare e lasciarsi penetrare dalla parola. Tutto ciò rende la vita passiva, trascinata, spenta; nulla suscita interesse, crea tensione o gusto. Sottolineiamo due tipiche reazioni che scaturiscono da tale stato di indifferenza.
La prima reazione consiste in un'amara mormorazione contro Dio, tanto da generare un disgusto per la sua Parola: si passa dall'eucharistia all'acharistia: «l'accidia accusa Dio di essere senza cuore (letteralmente: senza viscere, àsplachnos) e di non essere amico degli uomini (aphilànthropos)»[13]. Una seconda reazione che caratterizza questo stato di insensibilità è la tendenza a banalizzare la realtà. Mascherata da una falsa parresia, si ride di tutto: tutto viene trascurato, tutto perde valore, non si prendono sul serio le cose che compongono la vita. Con l'illusione che sono cose piccole e insignificanti - ammoniscono i Padri - si giunge a disprezzare e banalizzare ciò che è importante.
L’accidia, male del nostro tempo
L’accidia e la depressione sembrano essere le conseguenze più evidenti di una cultura e mentalità narcisista, che fa di se stessi il centro di ogni realtà. La presenza diffusa di questo vizio può essere letta come un potente segno di avvertimento: essa ricorda che è falso il sogno di una civiltà felice, realizzato grazie alla tecnologia e all’abbondanza dei beni. La crescita tecnologica non può compensare la povertà della vita interiore, la perdita del senso di gratuità delle cose, di quello stupore che, secondo gli antichi, caratterizzava l’origine della sapienza e dell’esperienza spirituale. Gli studi condotti in sede psicologica confermano quanto depressione e tristezza si presentino come fenomeni preoccupatamente in crescita nelle società occidentali, colpendo in particolare la fascia di età che dovrebbe essere la più aperta alla vita. Uno studio sui comportamenti suicidari tra i giovani ha mostrato una notevole escalation, a partire dagli anni Sessanta, interessando in modo particolare gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, i Paesi in cui l’ideale della vita all’insegna della sicurezza e dell’abbondanza di beni sembra essere maggiormente diffuso e praticato. Ciò che allarma in particolare coloro che studiano il suicidio giovanile è «l’andamento in continua ascesa di tali valori, soprattutto in alcuni Paesi, e la mancanza di idee precise su come arginare o prevenire il fenomeno. Se infatti trent’anni fa nei Paesi occidentali le condotte suicidarie adolescenziali rappresentavano circa un ottavo dell’intero fenomeno suicidario, oggi esse ne costituiscono un quinto. Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi più colpiti: fra gli anni Cinquanta e gli Ottanta l’incidenza del suicidio tra i giovani è triplicata. La classe di età più fortemente implicata è quella dei «giovani adulti" (20-24 anni) che raggiunge il ragguardevole tasso specifico di 30 per 100.000; tendenza che non sembra arrestarsi»[14].
Tra le motivazioni di tale incremento la ricerca mostrava una correlazione tra fenomeno suicidario e trasformazioni sociali avvenute nello stesso periodo, quali la crisi dell’istituto familiare, la dissoluzione del tessuto sociale, l’aumento di comportamenti distruttivi a livello giovanile. Si tratta di elementi in crescita anche a motivo di proposte culturali sempre più propagandate e diffuse a livello di media, il cui messaggio di fondo è che qualunque cosa ci si senta di fare diventa perciò stesso lecita: tale fenomeno secondo l’autore mostra «le contraddizioni e le antinomie di un mondo sempre meno basato su fondamenti e punti di riferimento etici»[15].
Si pensi ancora alla diffusione, sempre più ampia e incoraggiata a livello pubblico, di droghe, alcool, farmaci per sopperire alla tristezza di vivere, all’incapacità di dare stabilità alle proprie scelte, alle relazioni, a impegni di qualsiasi genere... Al fondo di tale situazione si nota il disagio e l’impotenza di poter riempire un vuoto radicale, ontologico, della costituzione umana: l’accidia, essendo un male dello spirito, si mostra refrattaria a soluzioni meramente tecniche.
Forse questo vizio appare così diffuso perché riflette l’odierna mancanza di speranza. Di fronte alle difficoltà sorge, inevitabile, l’interrogativo sul senso di un impegno che si rivela incapace di oltrepassare risultati immediati e possibili frustrazioni: «Nel nostro mondo l’accidia non prende più il volto della pigrizia, ma quello del lasciare fare, dell’abbozzare. Tanto, si dice: “Sono tutti uguali e migliorare è impossibile”. Questo modo di ragionare evita costantemente di mettere in questione la propria condotta [...]. Viviamo nel mondo del fare, ma l’agire è spesso accompagnato dalla disaffezione: la smania di distrazione prevale sulla capacità di attenzione [...]. L’accidioso non sa faticare. Soprattutto non si sa dedicare. Nel nostro tempo vi sono uomini che non sanno coltivare a lungo neppure un amore. Dicono: che noia!»[16].
La pace, dono del Risorto
«Beati gli operatori di pace…». Gesù dichiara beato chi opera la pace, e chi desidera esserlo deve impegnarsi a realizzarla. Ma cos’è la pace? È solo assenza di conflitti? No, molto più. È infatti una Presenza: quella del Risorto: «Egli è la nostra pace» (Ef 2,14) e vuole regnare nel nostro cuore.
Corriamo sempre il rischio di perdere la pace per le cose più diverse: per un motivo davvero grave o per una sciocchezza. Il nostro Nemico cerca di distogliere il nostro sguardo fiducioso dal Signore, da ciò che è essenziale, e guardare a noi stessi, a sentirci vittime di ingiustizia, a ribellarci… a farci valere, a battere i pugni, e ad usare anche la violenza.
Spesso ci agitiamo, ci inquietiamo nel tentativo di voler risolvere tutto da soli, mentre sarebbe molto più efficace restare calmi, sotto lo sguardo di Dio, lasciandolo agire e operare in noi con la sua saggezza e la sua potenza, infinitamente superiori alle nostre. «Poiché così dice il Signore Dio, il Santo d'Israele: “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell'abbandono confidente sta la vostra forza”. Ma voi non avete voluto» (Is 30,15).
Il nostro non vuole essere, ben inteso, un invito alla pigrizia e all'inerzia; ma un'esortazione a non agire mossi da uno spirito d'inquietudine e di fretta eccessiva, bensì sotto l'impulso mite e pacifico dello Spirito di Dio. San Vincenzo de' Paoli, la persona meno sospettabile di pigrizia, diceva: «Il bene che Dio opera si fa da sé, quasi senza che uno se ne accorga. Bisogna essere più passivi che attivi; e così Dio solo farà per mezzo di voi ciò che tutti gli uomini insieme non potrebbero fare senza di lui».
Questa pace del cuore ci libera da noi stessi, aumenta la nostra sensibilità verso l'altro e ci rende disponibili al prossimo. Solo l'uomo che gode di questa pace interiore può aiutare in modo efficace un fratello. Come, infatti, donare la pace ad altri se non la si possiede? Come potrà esserci pace nelle famiglie, nella società, tra le persone, se prima di tutto non regna la pace nei cuori?
«Conquista la pace interiore e una moltitudine troverà la salvezza presso di te», diceva san Serafino di Sarov, un grande santo russo del Settecento. Per acquisire questa pace interiore, egli si è sforzato di vivere nella preghiera incessante. Dopo sedici anni di vita monastica e sedici di vita eremitica, ritornato al monastero di Sarov rimase altri sedici anni recluso in una cella. Egli ha cominciato a irradiare in modo visibile quanto s'era operato nella sua anima solo dopotutti questi anni di vita contemplativa. Ma con quali frutti! Migliaia di pellegrini andavano da lui e ripartivano confortati, liberati da dubbi e inquietudini, illuminati sulla loro vocazione, guariti nel corpo e nell'anima.
L'esortazione di san Serafino non fa che testimoniare la sua esperienza personale, identica a quella di tanti altri santi. L'acquisizione e il mantenimento della pace interiore, impossibili senza la preghiera, dovrebbero essere considerati una priorità, soprattutto per chi ha la pretesa di voler fare del bene al prossimo. In caso contrario, spesso comunicheremmo a chi è nella difficoltà solo le nostre inquietudini.
Pace e lotta spirituale
È necessario soffermarci su un'altra verità, non meno importante: la vita cristiana è una lotta, una guerra senza tregua. San Paolo ci invita, nella Lettera agli Efesini, a rivestire l'armatura di Dio per lottare non «contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6,12). Ogni cristiano dev'essere ben convinto che la sua vita spirituale non può in alcun caso ridursi a uno scorrere tranquillo di giorni senza storia, ma deve essere il luogo di una lotta costante (contro il male, le tentazioni, lo scoraggiamento), a volte dolorosa, che terminerà solo alla morte.
La lotta spirituale del cristiano, pur essendo talvolta dura, non è mai la guerra disperata di chi si batte in solitudine, alla cieca, senza nessuna certezza circa l'esito dello scontro. Non combattiamo da soli con le nostre forze, ma con il Signore che ci dice: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). La nostra arma principale non è la naturale fermezza del carattere o l'abilità umana, ma la fede, questa totale adesione a Cristo che ci permette, anche nei momenti peggiori, di abbandonarci con fiducia cieca a colui che non ci abbandonerà. «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13).
Il credente, in tutte le sue battaglie, qualunque ne sia la violenza, si sforzerà di custodire la pace del cuore. Infatti la pace interiore non è solamente una condizione della lotta spirituale, essa ne è — molto spesso — il fine. È molto frequente che la lotta spirituale consista esattamente in questo: difendere la pace interiore dal nemico che si sforza di rapircela.
In effetti, una delle abituali strategie messe in atto dal demonio per allontanare un'anima da Dio e ritardarne il progresso spirituale è tentare di farle perdere la pace interiore. Ecco cosa dice in merito Lorenzo Scupoli, uno dei più grandi maestri spirituali del XVI secolo, molto stimato da san Francesco di Sales: «Il demonio si sforza con tutto se stesso di bandire la pace dal nostro cuore, perché sa che Dio dimora nella pace ed è nella pace che opera grandi cose».
Sarà molto utile rammentarlo perché spesso, nello svolgimento quotidiano della nostra vita cristiana, accade che sbagliamo combattimento — se così si può dire —, che mal orientiamo i nostri sforzi. Combattiamo su un terreno dove il diavolo ci trascina sottilmente e sul quale può vincerci, invece di combattere sul vero campo di battaglia dove, con la grazia di Dio, siamo sempre sicuri di vincere. Questo è uno dei grandi segreti della lotta spirituale: non sbagliare combattimento, saper discernere, malgrado le astuzie dell'avversario, contro cosa dobbiamo realmente lottare e dove dirigere i nostri sforzi. È errata la convinzione che, per riportare la vittoria nella lotta spirituale, occorra vincere tutti i nostri difetti, non soccombere mai alla tentazione, non avere più debolezze e mancanze. Su questo terreno saremo immancabilmente sconfitti! Perché, chi di noi può avere la pretesa di non cadere mai? Non è certo questo che Dio esige, «poiché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Sal 103,14). Al contrario, la vera lotta spirituale, più che nel perseguire un'invincibilità e un'infallibilità assolutamente fuori dalla nostra portata, consiste principalmente nell'imparare a non turbarci eccessivamente quando ci capita di essere miseri e a saper approfittare delle nostre cadute per rialzarci più in alto. Cosa sempre possibile, a condizione di non perderci d'animo e di conservare la calma.
Si potrebbe dunque a ragione enunciare questo principio: il primo obiettivo della lotta spirituale, verso cui devono tendere i nostri sforzi, non è ottenere sempre la vittoria (sulle nostre tentazioni, sulle nostre debolezze, ecc.), ma è piuttosto imparare a custodire il proprio cuore nella pace in tutte le circostanze, anche in caso di sconfitta. Dobbiamo mirare a questa vittoria completa sui nostri difetti e desiderarla, ma essere ben consapevoli che non bastano le nostre proprie forze, e non pretendere di ottenerla immediatamente. È unicamente la grazia di Dio che ci darà la vittoria, e la sua azione sarà tanto più potente e rapida se sapremo mantenere l'anima nostra in pace e abbandonarci con fiducia nelle mani del Padre.
Operatori di pace
Nel Vangelo Gesù si avvicina sempre pacificando o pacifica avvicinandosi. Questo significa essere “operatori di pace”: fare come Gesù. Aiutare le persone a ritrovare l’essenziale, ciò che conta. Vi sono persone che, a causa della loro profonda pace interiore emanano un’atmosfera di pace e di serenità, che dissolve nei cuori le inquietudini, ridesta la fiducia, rende l’animo tranquillo e sicuro. La loro anima è così piena dello Spirito Santo e di benevolenza verso i fratelli, che qualsiasi forma di aggressività, di violenza, di cupidigia è estranea al loro comportamento.
Ma operare la pace è ancor più. Non è solo stemperare le tensioni, acquietare gli animi. È operare per il bene e la felicità degli uomini, riconosciuti fratelli. Infatti in ebraico la parola “pace” significa prosperità, pienezza, buone relazioni umane. È questo che si augurano gli ebrei con il saluto “shalom”. Operare la pace vuol dunque dire operare per il vero bene del prossimo. E far del bene agli altri, ovviamente, vuol dire voler il loro vero bene, quello di cui hanno davvero bisogno, non quello che immagino io. Il che significa che l’impegno per il bene e la gioia degli altri passa attraverso la conoscenza dell’altro, attraverso la relazione. Come, d’altra parte, fa il Risorto con noi.
Certo, senza la giustizia non ci può essere la pace. E in questo la nostra beatitudine si collega all’altra: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia». Per avanzare nella costruzione di un mondo in pace, di giustizia e di fraternità, il santo padre ci ricorda che va sempre tenuto fermo il seguente principio: il tutto è superiore alla parte, ed è anche più della loro semplice somma. «Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia»[17].
Papa Francesco ci dice che per il cristiano questo impegno va accompagnato nella fede «che l'unità dello Spirito armonizza tutte le diversità. Supera qualsiasi conflitto in una nuova, promettente sintesi»[18].
Il costruttore di pace deve però anche sapere che talvolta l'unica via alla pace passa attraverso il conflitto. È la giustizia a chiederlo e in questa direzione abbiamo già citato le parole di Gesù: «sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,34). L'inevitabile conflitto consente di mettere in crisi la solitudine del dominatore. E come avverte papa Francesco c'è sempre la tentazione di sottrarsi al conflitto. Il cristiano, invece, deve «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo»[19].
La buona politica è al servizio della pace
Nel messaggio in occasione della 52° giornata della pace (1° gennaio 2019), papa Francesco ha affermato con chiarezza e forza: «La pace è simile alla speranza di cui parla il poeta Charles Péguy; è come un fiore fragile che cerca di sbocciare in mezzo alle pietre della violenza. Lo sappiamo: la ricerca del potere ad ogni costo porta ad abusi e ingiustizie. La politica è un veicolo fondamentale per costruire la cittadinanza e le opere dell’uomo, ma quando, da coloro che la esercitano, non è vissuta come servizio alla collettività umana, può diventare strumento di oppressione, di emarginazione e persino di distruzione» (n. 2). Già Pio XI aveva affermato che la pace è il campo della più alta carità[20].
Ora in politica c’è spesso un modo di agire che – guarda caso – assomiglia da vicino a quello del Nemico, e quindi in pieno contrasto con il modo di agire ispirato a quello divino. Nel suo studio Ritter individua l’origine di questo stile “demoniaco” nell’idolatrare il rapporto amico-nemico: «Questa è l'essenza demoniaca del potere, che anche laddove si combatta con effettiva serietà per un fine ideale, alla lunga il successo viene accordato solo a colui che combatte con maggiore vigoria per il suo interesse egoistico e per far valere la sua personale volontà, e che colleghi questa sua volontà di farsi valere con la posta in gioco per la sua causa. Dichiarando “nemico” tutto ciò che gli si oppone sulla via del successo e ponendo questo rapporto amico-nemico al di sopra d'ogni altra valutazione, perde per lui anche il momento etico, la sua validità autonoma e incondizionata»[21].
Il dichiarare nemico tutto ciò che si oppone a sé costituisce il punto di partenza di chi crede e opera come se l'essenza del potere fosse la lotta in sé e per sé. Così nella lezione di don Sturzo: «Si deve avere sempre presente il proposito di non portare la lotta politica a fondo per la distruzione dell'avversario, di non rendere impossibile l'intesa con i partiti che si combattono, di non tagliare mai i ponti sul terreno elettorale e parlamentare. L'errore enorme di ridurre il paese a due blocchi fermi e chiusi per l'eliminazione del competitore dovrebbe essere bandito con ogni cura. Non bisogna mai portare le lotte sul piano di una guerra civile. Ci sono partiti che non hanno altro scopo che la conquista del potere: per tali partiti la sconfitta è una vera perdita; il loro lavorìo sarà di nuovo quello di guadagnare adepti per un'altra lotta. I partiti che invece hanno un ideale più alto, la realizzazione di un programma morale e sociale, sanno utilizzare la sconfitta a un più vantaggioso piano di azione. Noi siamo a favore di questo secondo tipo di partiti»[22].
Quando chi governa un'istituzione trasforma la normale competitività in conflittualità permanente, identificando se stesso con la causa politica, abbandona l'interesse comune per il proprio, ponendo l'istituzione in uno stato di perversione. Il quadro etico di riferimento non cambia, cioè i soggetti in questione non si sognerebbero mai di negare i principi morali fondanti, ma praticamente il loro operato è posseduto dal demoniaco. Il loro male è tutt'altro che banale (come lo definisce al Arendt[23]), ma affonda le sue radici in deliberate e ponderate riflessioni.
Giova un riferimento ad alcune costanti dello “stile demoniaco”:
L'affermazione smisurata di sé. Col ritenersi unico, insuperabile, insostituibile, il politico inizia un deleterio processo di autoreferenzialità, che lo allontana dalle persone e dal servizio al loro bene, mentre divinizza il proprio ruolo e potere. L'etica politica può ammettere solo un'affermazione di sé nel quadro di regole precise e ferree, nel contesto di un servizio che fa bene più agli altri che a sé, visto che non esiste vero servizio che non sia sacrificio ad ogni livello. Il cinismo. Cinico è colui, scriveva Ocar Wilde, che «conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna»[24]. Cinico è dunque chi presta attenzione alla concretezza, ma non crede in nulla. Tali persone – spesso brillanti – non perdono occasione per smontare con battute sagaci ciò che gli altri credono.
Sono molti gli atti politici ispirati da rassegnato cinismo. Non rientra in esso l'ostacolare la crescita economica e culturale dei cittadini, pur avendone le possibilità di promuoverla? Non è diabolico chi ha lasciato crescere la criminalità organizzata pur di non sconvolgere equilibri consolidati nella loro convivenza? Non c'è del perverso nello scegliere e nominare successori o collaboratori, di cui si conosce precisamente la loro pessima qualità morale e scadente professionalità?
L'ambiguità. È demoniaco ciò che è ambiguo. Per definizione è ambiguo ciò che può ammettere due o più significati. Spesso l'ambiguità è favorita dalla vaghezza, cioè da una mancanza di precisione nel definire i termini. Chi esercita il potere in un'amministrazione pubblica, in una compagine politica, in un'organizzazione internazionale, diventa ambiguo quando nel riferirsi a ciò che è costitutivo del suo essere e del suo agire, introduce pluralità di significati e muta quelli esistenti. Succede allora che alcuni concetti essenziali per un'istituzione, quali l'ordine, il bene comune, la giustizia, l’onestà, la fiducia e così via, assumono significati diversi a seconda delle circostanze. Il demoniaco è proprio questa costante mutevolezza.
Perché servo del bene comune nella sua verità e interezza, chi comanda deve scegliere e le sue scelte devono essere chiare e pubbliche. Non può governare gli altri chi non dice mai chiaramente da che parte sta e perché. Il parlare sì, sì, no, no non è una questione di stile, ma di autenticità (cfr. Mt 5,37).
La menzogna. Il demonio è il principe della divisione e della menzogna. Quante vittime hanno causato le menzogne espresse per ragion di Stato? Nel suo The art of political lying, Swift parlando del mentitore politico così lo definisce sinteticamente: «egli non si chiede mai se una data proposizione sia vera o falsa, ma piuttosto se, in quel momento o in quel contesto, sia conveniente sostenerla o ricusarla»[25]. La calunnia. Nella maggior parte dei casi il nemico se non esiste va creato. Insinuazioni, pettegolezzi, sospetti, dubbi creano quell'humus in cui al nemico vengono fatti assumere tutte quelle caratteristiche che hanno la pretesa di legittimare la diabolica cattiveria riservatagli da chi esercita il potere. Gezabele scrisse lettere calunniose sul conto di Nabot (1Re 21,8-16).
Esiste un modo per resistere al demoniaco presente nel potere? L'analisi di Ritter ci offre un quadro preciso di resistenza attuata sulla base di un esercizio costante di ragione, diritto e morale: chi esercita il potere «deve unire in sé i più forti contrasti: essere appassionato e tuttavia assennato, pieno di fede nella sua missione e tuttavia consapevole dei suoi limiti. Deve potersi irrigidire contro i suoi nemici e tuttavia mantenersi infine pronto alla riconciliazione, dov'essa sia razionalmente possibile. È veramente un'unione rara di facoltà contraddittorie, ma è anche l'indispensabile presupposto di ogni vera grandezza storica»[26].
Alle tentazioni nel deserto, il Cristo rispose con la fermezza dalla profonda coscienza della sua missione (Lc 4,1-13). La tentazione ci può essere anche per il cristiano, ma è possibile combatterla, senza cedere. È una lotta dura. Ma a questo è chiamato colui che opera per il bene comune, per la pace.
«… saranno chiamati figli di Dio»
Rendere fratelli è l’opera del Padre e di chi già è figlio. La pace vera, quella lasciataci da Cristo (Gv 14,27), quella che nasce dal cuore, è capace di creare l’autentica famiglia di Dio, dove tutti si sentono compresi e amati come figli di Dio e fratelli tra loro.
Operare la pace è dunque proprio di chi agisce come suo Padre. Per questo Dio, che è interamente interessato alla felicità degli uomini, chiamerà suoi figli coloro che agiscono come Lui.
E «chiamarli» significa che lo sono e vengono da Lui riconosciuti tali. Vale a dire che con il loro essere ed agire danno al mondo l’immagine del vero Dio.
NOTE
[1] G. Bunge, Akedia. Il male oscuro, Magnano (Bi), Qiqajon, 1999, 34.
[2] J. Ratzinger, Regarder le Christ. Exercices de foi, d’espérance et d’amour, Paris 1992, 89.
[3] E. Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano 1999, p. 44.
[4] G. Bunge, Akedia..., cit., pp. 69-71.
[5] Cf. E. Rojas, El hombre light. Una vida sin valores, Madrid 1992; J.A. Vallejo-Nágera, Conócete a ti mismo. Los grandes problemas psicológicos de nuestro tiempo, Madrid 91990.
[6] S. Tommaso D’Aquino, S.Th. II-II, q. 35, a. 1.
[7] Papa Francesco, Omelie da Santa Marta, Oltre i formalismi, 1 aprile 2014.
[8] G. Bunge, Akedia..., cit., p. 73.
[9] Evagrio Pontico, Praktikos, 36.
[10] Evagrio Pontico, Antirrhetikos, VI,16.
[11] G. Bunge, Akedia..., cit., p. 62.
[12] Giovanni Cassiano, De institutis coenobiorum, X,4.
[13] Giovanni Climaco, Scala Paradisii, XIIL, 90, PG 88, col 860A.
[14] P. CREPET, Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio, Milano, Feltrinelli, 1993, 35. Dati molto simili si trovano in ricerche più recenti (cfr Hardwired to Connect: The New Scientific Case for Authoritative Communities, New York, Institute for American Values, 2003; C. WALLACE, «Kids These Days: Tbc Changing State of Childhood», in The Christian Century 122 [2005] n. 6, 26-40), o svolte in atri Paesi, come la Francia (A. ANATRELLA, Non à la société dépressive, Paris, Flammarion, 1993, 249) e 1’Italia (C. BUZZI - A. CAVALLI - A. DE LILLO, Giovani nel nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, il Mulino, 2002; A. MAGGIOLINI, Sballare per crescere?, Milano. FrancoAngeli, 2003, 31).
[15] Ivi, 52.
[16] S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Milano, Feltrinelli, 1997, 12 s.
[17] Evangelii Gaudium, 235.
[18]Ibid, 230.
[19]Ibid, 227.
[20] Pio XI, Discorso alla FUCI (18.12.1927).
[21] Ibid., 38.
[22] L. Sturzo in De Rosa, Luigi Sturzo, Utet, Torino 1977, 390.
[23] H. Arendt, Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano 1986, 227.
[24] O. Wilde, Tutte le opere, Vol. II. Teatro e Poesia, Casini, Roma 1987, 69.
[25] J. Swift, The art of political lying (1710), Blackwell, Oxford 1966, 11.
[26] G. Ritter, Il volto demoniaco del potere, cit., 38, 191-192.