Le donne alla sequela di Gesù. La diaconia del Vangelo al femminile

LE DONNE ALLA SEQUELA DI GESU'

 

Come si relaziona Gesù con le donne e quanto è im­portante la loro presenza nella chiesa? Quale reciprocità e diaconia nella comunità apostolica di Gesù?

Gli evangelisti sono tutti concordi nell'attestare la pre­senza delle donne, discepole di Gesù, quando la loro testi­monianza è l'unica possibile circa gli eventi supremi della morte e risurrezione del Maestro. Infatti, diversamente dai suoi discepoli, loro c'erano sul Golgota e sanno bene dove è stato sepolto il corpo di Gesù. Sono loro che di buon mat­tino il giorno dopo il sabato si recano al sepolcro. E sono le prime a credere nel Risorto.

Ma chiaramente queste donne non fanno la loro prima comparsa sotto la Croce. Erano lì perché c'erano anche prima, fin dall'inizio: “quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano” (Mc 15,41). Seguire e servire, i due verbi chiave del discepolato. E non a fasi alterne e discontinue, ma in crescendo, fino alla fine.

Anche Luca ci ricorda la presenza delle donne accanto a Gesù. Le presenta insieme ai Dodici al seguito di Gesù in Galilea, come discepole e diaconesse (Lc 8,1-3). Ed è interessante il fatto che poco prima Luca abbia presentato l’episodio dell’incontro di Gesù con la peccatrice in casa di Simone il fariseo. C’è qualche accostamento tra questi due testi? Credo di sì: non c’è diaconia senza guarigione! Tanto è vero che nei sinottici troviamo, a questo proposito, un testo particolarmente illuminante: la prima guari­gione femminile operata da Gesù ha come protagonista la suocera di Pietro.

 

La prima diacona

I Sinottici concordano nel conferire alla guarigione della suocera di Pietro (Mt 8,14-15; Mc 1,29-­31; Lc 4,38-39) un significato simbolico fondamentale in ordine alla vita cristiana e al suo profondo significato racchiuso nella “diaconia”, il ministero del servizio.

Perché questa guarigione è così importante da essere posta in primo piano? Non è certo la gravità della malattia a costituirne la rilevanza: si tratta infatti, probabil­mente, di una semplice influenza, o comunque di un'altra malattia passeggera che comporta una situazione febbrici­tante. Da questo punto di vista è indubbiamente la meno sensazionale tra quelle operate da Gesù.

A cosa si deve allora la rilevanza di questa guarigione/ liberazione? A farne un simbolo è il contesto inaugurale del ministero di Gesù a Cafarnao in giorno di sabato e il modo in cui reagisce la miracolata. Rimessa in piedi dalla mano e dalla parola di Gesù, si mette subito a servire: “alzatasi li serviva” (anastàsa diekónei, Lc 4,39).

Marco sottolinea che Gesù la fece alzare “prendendola per mano”, Luca aggiunge il chinarsi sull'inferma. Il Signo­re si china perché lei si rialzi. Il suo abbassarsi la rimette in piedi, una sorta di “risurrezione” (il verbo è il medesimo che il NT usa per "risorgere"). In effetti, non si tratta sem­plicemente di un venire a star meglio ma di un simbolico rinascere che si esprime nel servizio, l'anima genuina del vivere cristiano.

Inoltre, c'è il fatto che la guarigione avviene di sabato. Come è noto, alla donna ebrea compete un servizio speciale in giorno di sabato: è lei che garantisce l'unità tra il culto si­nagogale e quello domestico, attorno alla mensa illuminata dalla menorah, il candelabro a sette braccia. Ecco dunque che, liberata dalla misteriosa febbre che la bloccava a letto, la suocera di Pietro si alza e dà prova della sua guarigione mettendosi a servire (diekónei). Inaugura la diaconia evan­gelica, innestata nella persona stessa di Gesù che è venuto “per servire” (Mc 10,45), che sta in mezzo ai suoi come il servitore, “diacono” (Lc 22,27).

Luca riprenderà il medesimo lessico per indicare la diaconia delle discepole itineranti con Gesù (Lc 8,1-3) e quella di Marta (Lc 10,40). Dunque, la suocera di Pietro è la prima “diacona”. Ma quel suo pronto mettersi a servire è un'indicazione che riguarda non solo le donne ma anche gli uomini, l'intera comunità cristiana. Non è forse il servizio la magna carta dell'essere discepoli del Signore?

 

Le Tre e le molte altre

 Gesù è il fulcro di un'intensa attività evangelizzatrice che coinvolge uomini e donne, discepoli e discepole. La notizia di un gruppo femminile itinerante con Gesù e i Dodici è data da Luca nel contesto di un “sommario” che, come abbiamo visto, segue all’incontro di Gesù con la peccatrice, e precede la parabola del seminatore, come a dire che l'opera di seminagione della Parola non è riservata solo agli uomini ma coinvolge non di meno le donne. Ecco dunque il gruppo apostolico di Gesù, pienamente dedito all'opera missionaria del vangelo. Esso è composto dai Dodici e dalle Tre chia­mate per nome, seguite da molte altre:

In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni (Lc 8,1-3).

Il fatto che siano tre le discepole menzionate per nome (Maria Maddalena, Giovanna, Susanna) appare simmetrico al gruppo dei tre discepoli più intimi (Pietro, Giacomo, Giovanni).

Una premessa fondamentale accomuna queste discepole: hanno fatto esperienza dell'amore sanante di Gesù, amore che libera, che restituisce a se stessi, apre agli altri.

 

Maria Maddalena

Magdala è il nome di un villaggio sul lago di Galilea (Migdal in ebraico vuol dire torre). Quindi la formula “Maria Maddalena” designa una persona con il nome del paese da cui proviene.  

Di Maria di Magdala si afferma che era stata guarita da “sette demoni”, e molto si è scritto sull'interpretazione di cosa ciò potesse signi­ficare. Non c'è dubbio che la possessione di sette demoni è un caso particolarmente grave, come si evince da Lc 11,26 dove Gesù parla dello spirito cattivo che non si rassegna a uscire dall'uomo, a va a prendere altri “sette” spiriti peggiori di lui. Sette è simbolo di pienezza, come a dire, tutta la diavoleria!

La tradizionale identificazione di Maria di Magdala con la peccatrice prostituta è senza fondamento.

Una cosa sembra comunque imporsi chiaramente: Ma­ria di Magdala è una donna liberata dall'amore di Gesù, restituita a se stessa, riconsegnata alla propria interiorità, guarita nella psiche e nello spirito. E lei, restituita a se stes­sa e interiormente sanata, sceglie di vivere ormai la propria libertà quale servizio d’amore. Ha capito il senso e il cuore del vangelo, ha capito – come poi dirà Paolo ai Galati – che la libertà cristiana si esprime nel servizio (Gal 5,1-15).

 

Giovanna

La seconda donna del gruppo chiamata per nome è Gio­vanna. Nessun accenno alla sua figura negli altri due Sinot­tici e neppure in Giovanni. Luca invece la menziona anche tra le fedelissime che si recano al sepolcro di Gesù insieme a Maria di Magdala (Lc 24,10).

E cosa dice Luca di Giovanna? Ci offre alcune informa­zioni che si rivelano estremamente preziose anche per la ricostruzione sociologica del gruppo di Gesù. Precisa che Giovanna è la moglie di Cusa, amministratore di Erode. Proviene dunque da una situazione sociale elevata. E subito s'impone una domanda: se era sposata, come mai peregri­nava con Gesù? Era d'accordo con tale scelta suo marito, che viveva alla corte di Erode? Era forse vedova la nostra Giovanna? Si fa notare che in tal caso Luca non avrebbe perso l'occasione di precisarlo perché nel suo vangelo (e anche negli Atti) è particolarmente attento alla condizione delle vedove che non manca di menzionare, dalla vedova di Sarepta (Lc 4,26) alla vedova di Nain (Lc 7,12) alle vedove di Lidda (At 9,39).

Quale può essere stata la causa che ha spinto Giovanna a seguire Gesù? Luca non lo dice esplicitamente. Perciò possiamo supporre che valga anche per lei quanto detto per tutte: l'esperienza di guarigione e di amore liberante.

 

Susanna

La terza donna menzionata in questo passo è Susanna. Di lei non si dice altro che il nome. Ma questo fatto è già prezioso, dà spessore alla memoria storica circa la rilevanza delle discepole nel gruppo apostolico di Gesù. Queste discepole, in particolare le Tre, si sono “prese cura” di Gesù, lo hanno seguito e accompagnato fino alla fine.

 

Sotto la croce

Sul Golgota le amiche e discepole c'erano, lo attestano concordemente tutti i vangeli. Matteo (27,55-56) ricorda che erano in “molte” e ne focalizza tre, identificate median­te il nome, la provenienza o la parentela: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo. Quest'ultima, strada facendo, era intervenuta per chiedere a Gesù di far sedere i suoi figli uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra nel regno (Mt 20,20-21). La stessa cosa dice sostanzialmente Marco (15,40-41), con la differenza che la terza discepola è identificata non in base ai legami di parentela (“la madre dei figli di Zebedeo”) ma con il nome personale (“Salome”).

Giovanni è il solo che ricorda anche la presenza della madre e la nomina per prima:

“Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala” (Gv 19,25).

Qui le donne menzionate sono quattro, in primo posto la madre e in ultima posizione Maria di Magdala. Quattro come i soldati. Insieme a loro, che si spartiscono le vesti di Gesù, anch’esse ne raccolgono l’eredità. La madre di Gesù, a sua volta, richiama la tunica indivisibile: tocca in sorte a uno, il discepolo che Gesù amava.

La madre di Gesù appare solo a Cana e qui: apre e chiude l’“ora” del Figlio. Inoltre Maria, in quanto madre del Figlio e dei suoi fratelli, è segno dell’unità realizzata dalla croce, che abbraccia insieme il popolo dell’antica e della nuova alleanza, aperta a tutti. Infine, in quanto donna (cfr. v. 26), è la sposa, la figlia di Sion, il popolo della promessa che attende il suo Signore. Ai piedi della croce giunge l’ora delle nozze prefigurate a Cana: la donna incontra lo Sposo e diventa madre feconda di figli.

 

Evangelizzatrici del Risorto

Oltre ad essere presenti sotto la croce, le discepole di Gesù sono anche le prime ad accostarsi al suo sepolcro, confermandone così la morte (cfr. Lc 24,1-10; Mt 28,1-10; Mc 16,1-8). La loro testimonianza avrà coronamento nel mattino di Pasqua, quando sono ricondotte dai due angeli alla memoria delle parole di Gesù: “Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea... Ed esse si ricordarono” (Lc 24,6-8). La memoria equivale in certo senso al cuore, luogo in cui la parola va custodita. Con la Risurrezione la memoria delle parole di Gesù riaffiora alla coscienza. E le prime a “ricordarsi” sono le donne.

Il Signore risorto affida proprio alle donne il compito di evangelizzare la comunità dei discepoli, i suoi “fratelli” (Mt 28,10; Lc 24,8). Così anche in Giovanni il Risorto viene visto e testimoniato da Maria di Magdala che corre ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18). Soffermiamoci su quest’ultimo testo.

 

Maria di Magdala, rappresentante di ogni discepola e diacona del Vangelo

“Nel giorno dopo il sabato si recò al sepolcro di buon mattino quando era ancora buio [era già spuntata la luce ma era ancora buio dentro di lei], vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro” (Gv 20,1)

Maria di Magdala interpretò questo come profanazione della tomba, immaginò che qualcuno avesse portato via il corpo di Gesù; corre disperata dai discepoli.

Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (Gv 20,2).

Quel verbo al plurale (“non sappiamo”) lascia intendere che non era da sola. Giovanni però la presenta isolata perché vuole fare della sua persona una figura tipica, una rappresentante di tutte le discepole di Gesù. All’annuncio della Maddalena Pietro e l’altro discepolo corrono al sepolcro; vedono i teli funebri giacenti nel sepolcro e arrivano alla fede nella resurrezione, quindi tornano a casa.

Poi il vangelo ci ripresenta Maria, che nel frattempo era tornata al sepolcro:

Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto» (Gv 20,11-13).

 Maria è lì, al sepolcro, ma non è ancora arrivata alla fede nel Risorto, è ancora prigioniera della sua mentalità, quindi del dolore e del pianto. Rimane lì, perché vuole bene a Gesù, e piange, perché soffre per la sua assenza, per la sua perdita. Tuttavia la sua diagnosi non è corretta; il suo modo di valutare la realtà non corrisponde al vero. Nella sua testa è proprio così, ma nella realtà non è così. Agli angeli che le chiedono: “Donna perché piangi?”, lei ripete non la realtà ma la sua interpretazione: “Hanno portato via il mio Signore”. Non è vero che l’hanno portato via; è lei che lo pensa; e la sua idea la fa piangere, quindi si trova in una situazione di affetto e di ignoranza.

 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Gv 20,14-15a).

Gesù si rivolge a lei con quel vocativo importante di donna e le chiede: “Chi cerchi?”. È la domanda fondamentale che aveva già posto all’inizio ai discepoli che lo seguivano: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). È una domanda molto profonda. Tante volte i nostri itinerari di fede sono una ricerca di soddisfazione umana. Cerchiamo veramente lui o noi stessi? Se cerchiamo Lui e lo riconosciamo come il Risorto non c’è più spazio per il pianto. Ricordiamo che Gesù stesso aveva detto: “Piangerete e gemerete... Voi vi rattristerete, ma la vostra tristezza diventerà gioia” (16,20), perché “di nuovo vi vedrò e si rallegrerà il vostro cuore la vostra gioia nessuno può levare da voi” (16,22b-23a). Il passaggio dalla tristezza alla gioia è la nostra stessa risurrezione, frutto dell’incontro con lui. Dove non c’è gioia, non c’è Dio; anche se ci fosse perfetta osservanza e giustizia, c’è morte.

Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo» (Gv 20,15b).

È proprio fissata! Ha una idea in testa e sta seguendo quella; prende anche Gesù per il custode del giardino. È vero? No, eppure ha ragione. Come tutti gli equivoci del quarto Vangelo, anche questo è carico di significati. Il giardiniere richiama Adamo, il primo uomo, partner di Dio, chiamato a coltivare e custodire l’Eden (Gen 2,15). Ebbene Gesù è il giardiniere/Sposo, sceso nel suo giardino per incontrare la sorella sua sposa e inebriare tutti del suo amore (cfr. Ct 5,1). Nelle acque della morte ha passato la notte; per questo il suo corpo è bagnato di rugiada, i suoi riccioli di gocce notturne. Ora è lì, dalla sua diletta, e bussa (Ct 5,2) perché apra gli occhi e lo riconosca.

Il giardino, con i suoi odori, fa da scenario al Cantico dei Cantici. La sposa stessa è per lo Sposo un giardino pieno di profumi, “con mirra e aloe e tutti i migliori aromi” (cfr. Ct 4,12-16). Anche lo Sposo, a sua volta, è per lei sacchetto di mirra e grappolo d’uva (Ct 1,13s), melo tra gli alberi del bosco (Ct 2,3).

“Signore... dimmi...”. Questo “dimmi” è l’apertura alla conversione piena, come la Samaritana quando dice: “Dammi da bere”. È la stupenda pedagogia di Gesù. Egli si inserisce nel cuore dell’uomo e gradualmente lo provoca, perché sia l’uomo ad aprirsi liberamente alla conversione. Maria allora interroga l’unico (da lei chiamato Signore, anche se non ancora sa che è colui che va cercando) che è in grado di darle risposta. E gli chiede: “Dimmi, amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni” (Ct 1,7). Non vuole che lui. Senza di lui è vagabonda. Non trova casa presso nessuno dei suoi compagni, fossero anche luminosi come gli angeli.

Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!» (Gv 20,16).

Gesù prima l’aveva chiamata “donna”, adesso “Maria”. Il nome proprio indica l’individualità, entrare nell’esperienza personale. Chiamare uno per nome significa anche dargli una vocazione, una missione. E non solo: se finora nel racconto è chiamata “Maria”, ora Gesù la chiama in aramaico: “Miriam!”. È il suo nome, detto da una voce familiare e inconfondibile: “Una voce! Il mio diletto!” (Ct 2,8a). “Egli viene come un cerbiatto, saltando per i monti e balzando per le colline” (Ct 2,8b). Ormai l’inverno è passato (Ct 2,10): viene per tirar fuori dal recinto di morte la sua amata. Egli la conosce e la chiama per nome; e lei riconosce la voce di colui che ha esposto, disposto e deposto la sua vita per lei, per riprenderla di nuovo (cfr. 10,1 ss.).

“Essa allora voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: ‘Rabbunì!’, che significa: Maestro!” (v. 16). La sposa si era già voltata al giardiniere (v. 14). Ora si volta ancora. La prima volta si era voltata in modo fisico, ora questo voltarsi indica la conversione. In tal modo si appresta a intraprendere un cammino nuovo, interamente all’insegna della fede. Interrompe la spirale distruttiva in cui si trovava e si rende disponibile ad accogliere la “novità” della risurrezione.

Rabbunì”. Miriam lo riconosce al suono della voce che dice il suo nome; e gli risponde in aramaico[1]. Il giardiniere è il suo Gesù che conosce. Non lo chiama “Gesù”, ma “rabbunì”, nome che si dà, oltre che al maestro, anche allo sposo. Maria ha davanti Gesù di Nazareth, suo maestro e sposo.

Nel giardino risuonano “grida di gioia e di allegria, la voce dello sposo e quella della sposa”. Ad esse segue il canto di coloro che lodano l’amore eterno di Dio, che ristabilisce la sorte del suo popolo (Ger 33,11). Qui si compie infatti la nuova alleanza tra Dio e il suo popolo. Miriam e Gesù sono la coppia primordiale dell’umanità nuova, soli nel giardino al mattino di Pasqua.

 Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”» (Gv 20,17).

 Nel Cantico dei Cantici la sposa diceva che – quando ha trovato l’amato – lo ha abbracciato, lo ha bloccato e non lo lascia andare (cfr. Ct 3,4); ecco qui la novità! Questo versetto si capisce proprio nella luce del Cantico: Maria vorrebbe abbracciarlo, vorrebbe in qualche modo trattenerlo. Ma Gesù non va trattenuto, va seguito…

 “Non mi trattenere, va’ dai miei fratelli e dì loro….” (v. 17). Non è facile trovare nel vangelo dei versetti in cui Gesù chiami gli uomini fratelli - è un linguaggio nostro, ma non è comune nel testo evangelico -. Il Risorto chiama i discepoli “i miei fratelli”, e manda Maria di Magdala ad annunciare a loro il mistero della Pasqua. Notiamo la distinzione: “Padre mio e Padre vostro”. Non dice: “salgo al Padre nostro”; questo è molto importante perché la relazione che Gesù ha con il Padre rimane unica, in quanto Figlio dall’eternità. Ora egli “sale al Padre”, cioè la sua missione, che è passata attraverso la croce, ora termina con l’esaltazione. E questo vale anche per chi lo segue, anche per la Maddalena. Infatti è venuto perché anche noi andiamo dove lui da sempre è. Solo quando saremo anche noi nella dimora del Padre suo e nostro, ci sarà l’abbraccio finale. Non dobbiamo trattenere Gesù, lo riporteremmo ancora nel sepolcro, la terra da cui è uscito. Dobbiamo invece seguirlo nella casa del Padre suo celeste, che è ormai anche nostro. Lì si consumano le nozze. Solo al termine del cammino, nostro e di tutti, ci sarà l’unione piena, anticipata nell’abbraccio della Maddalena e di quanti, come lei, lo amano.

 Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto (Gv 20,18).

Non è più piangente, corre di nuovo e questa volta corre da evangelizzatrice; è la dinamica della nostra esperienza di fede, che viene rappresentata da questa figura altamente simbolica. Colei che ama ha l’occasione di incontrare il Signore, lo ha incontrato perché lo ha amato, perché lo ha cercato con intensità e con amore, nonostante i suoi sbagli; si è sentita semplicemente chiamare per nome e quel nome è stato sufficiente per cambiarle la prospettiva della vita, si è messa in moto, è diventata un’altra creatura, è l’immagine della Chiesa che nasce nel mattino di pasqua e si mette in moto, non piange più, il problema è risolto, ha incontrato il Signore: «Cristo mia Speranza è risorto!». A quel punto inizia una corsa di evangelizzazione.

 Ognuno di noi può evangelizzare solo se ha visto il Signore, cioè se lo ha incontrato. E tu lo hai visto, lo hai riconosciuto, incontrato? Non ti chiede anzitutto di andare a dire questo e quest’altro, ma di testimoniare un incontro. Maria di Magdala va’ a dire ai discepoli “Ho visto il Signore”. Diventa messaggera, annunciatrice, evangelizzatrice dell’incontro con Gesù risorto, e annuncia che il Padre di Gesù è anche il Padre nostro, annuncia che c’è una nuova famiglia, che l’Unigenito risorgendo ha molti fratelli. Ed è compito della Chiesa Vergine-Madre continuare quella storia di Gesù. È la figura femminile ideale, figura della Chiesa.

 

LA DIACONIA DEL VANGELO

 

Alla luce dei brani che abbiamo preso in considerazione vediamo che la diaconia del Vangelo richiede, in negativo, un cammino di liberazione, di guarigione; in positivo la donna è testimone dell’incontro con il Risorto. Se ciò vale per ogni credente, la donna, rispetto all’uomo, è meno dispersiva; anche se si dedica alle cose di ogni giorno, lo fa con attenzione particolare alle relazioni. Relazione con Gesù, per ascoltarlo in profondità e vivere la sua parola nella quotidianità; relazione con gli altri, per annunciarlo con le parole e il servizio concreto all’interno di questa relazione.

 

Un cammino di guarigione

Iniziamo con l’aspetto negativo: Gesù, che ci vuole alleate e collaboratrici della diaconia del Vangelo ci vuole anzitutto guarire dalle nostre patologie. Quali? Ne indico alcune.

• La prima patologia con cui fare i conti è la philautia, cioè l’essere interessati solo a se stessi, il non aprirsi al mondo con interesse per la diversità, compresa la diversità del “maschile”, di cui Gesù è il modello perfetto, e di tutto quel maschile che c’è nella Chiesa, visto che siamo chiamati ad essere uomini e donne di fraternità.

• Una seconda patologia è l’ira, cioè l’aggressività incanalata in modo distruttivo laddove si vuole dominare sugli altri, vincere contro di loro, far loro male ovvero incanalata come lamentela senza fine, silenzio ostile o depressione che non cessa fino quando gli altri non si piegano alla propria volontà. Qui la guarigione consiste nel neutralizzare tali derive dell’aggressività per convertirla ed utilizzarla invece come forza tranquilla che permette di dire la propria e al contempo di riconoscere le ragioni altrui.

• Una terza patologia è la paura che non passa: paura di non essere voluti bene, stimati, sostenuti… La paura può paralizzare (gli animali a volte si fingono morti nella speranza che il predatore vada oltre!), trasformarsi in panico (nella speranza che qualcuno si prenda cura), portare alla fuga o a chiedere protezione o a sottomettersi. Ognuno di queste modalità (se non si tratta dell’unico “strumento” a disposizione) a volte può anche andare bene, ma è comunque importante conoscere le proprie paure, accoglierle con realismo e andare al di là: ciò è possibile condividendole con qualcuno che contiene e aiuta a riflettere.

• Una quarta patologia è l’orgoglio ferito. C’è un orgoglio sano che dice il naturale bisogno di essere trattati con rispetto. Chi non ha una giusta stima di sé non sa esigere rispetto. L’orgoglio ferito, invece, può condurre alla permalosità, alla chiusura risentita, alla vendicatività.

• Una quinta patologia è la tristezza senza fine. È normale sentirsi tristi a causa di delusioni, insuccessi e perdite. Bisogna tuttavia fare lutto ed arrivare ad una sua chiusura. Delusioni, perdite e insuccessi vanno integrati in un contesto più ampio caratterizzato dalla speranza e dalla volontà di crescere, imparando anche dal negativo che la vita riserva. In altri termini, la tristezza va accolta e deve fare il suo corso. Come l’autunno fa con le foglie o come l’agricoltore fa quando pota, la vita porta via realtà per noi importanti. La fiducia sta nel sapere che la sapienza e l’amore viaggiano anche attraverso questo.

• Infine, patologie dell’animo sono tutte quelle forme di dipendenza (alcool, gioco d’azzardo, cibo, sesso, web, rapporti chiusi e possessivi…) che imbrigliano e che sono al posto di relazioni libere e nutrienti. Guarire passa dal saper stare con il disagio, dal leggerlo con intelligenza e dal lavorarci su per costruirsi come persone libere e relazionalmente disponibili. Per guarire abbiamo da imparare a nutrirci bene, non solo di cibo, ma anche di relazioni e di pensieri “buoni”, evangelici, come pure accogliere la potenza dello Spirito Santo che riceviamo nei sacramenti e in particolare quello dell’Eucaristia.

Curando le patologie di cui stiamo parlando, si possono neutralizzare i nemici dell’amore e si possono sostenere gli alleati dell’amore. Anzitutto l’apertura agli altri. Poi la mitezza, che non è mancanza di forza, ma forza che tiene conto degli altri e delle loro ragioni. La confidenza in Dio che ci permette di attraversare le paure e di andare al di là di esse. L’umiltà che accetta con spirito di apprendimento le critiche, gli smacchi, gli insuccessi. La gioia di base dovuta al sapere di essere amati da Dio anche quando il suo amore esigente permette prove di crescita e di maturazione.

 

La diaconia del Vangelo al femminile

In atteggiamento di ascolto del Maestro: Marta e Maria

La donna è chiamata a servire il Vangelo valorizzando tutta la sua capacità di relazionalità. Ed è quanto Gesù chiede ad ogni donna. Paradigmatico è, in questa prospettiva, l’episodio evangelico di Marta e Maria su cui ora mi soffermo che troviamo in Lc 10,38-48. Nel Vangelo secondo Luca è appena iniziato il lungo viaggio che porterà Gesù a Gerusalemme, il viaggio emblematico della sua obbedienza e il cammino con i discepoli in quanto momento formativo educativo.

“Mentre erano in cammino entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella di nome Maria la quale, sedutasi ai piedi di Gesù ascoltava la Sua parola Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti disse: Signore non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti! Ma Gesù le rispose: Marta Marta tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno: Maria si è scelta la parte migliore che non le sarà tolta”.

Siamo abituati in genere a contrapporre le due sorelle, come se fossero due alternative, o l’una o l’altra, rischiando di difendere in qualche modo Marta perché sembra rimproverata dal Signore. Qualcuno può avanzare osservazioni del genere: “Per fortuna Marta aveva fatto da mangiare, altrimenti Gesù avrebbe saltato il pranzo! Fosse stato solo per Maria non avrebbero mangiato quel giorno!” La Chiesa venera Santa Marta come figura esemplare, quindi non dobbiamo contrapporre le due persone, non è corretto domandare: è meglio l’una o è meglio l’altra?

L’insegnamento, che questo episodio vuole trasmettere, è anzitutto di completezza, cioè di valorizzazione di tutti gli aspetti; una persona equilibrata sa non esagerare e sa dare a ogni atteggiamento il valore giusto. Quindi le due donne sono due sorelle e devono essere molto unite perché i due atteggiamenti devono coesistere. Come ha insegnato la parabola del buon samaritano bisogna sapere la legge e bisogna metterla in pratica; così bisogna ascoltare la Parola e diventare autentici servitori.

Anzitutto l’episodio è ambientato in cammino: “mentre era in cammino Gesù entro in un villaggio (non importa il nome) e una donna lo accolse nella sua casa” (quella donna ha un nome, si chiama Marta).

È un elemento molto positivo questa ospitalità accogliente, ha una valenza simbolica. Ancora una volta è un elemento tipicamente femminile della disponibilità accogliente; diventa una cifra simbolica dell'umanità disposta, ben disposta verso la Parola di Dio.

La sorella di Marta che accoglie Gesù nella propria casa si siede ai suoi piedi e ascolta la sua Parola. L’atteggiamento è proprio quello della discepola: è l’atteggiamento di chi è seduto, cioè è comodo, è tranquillo per poter ascoltare, non è preso da altre cose.

Il problema di Marta non è il fatto del servizio, ma che è tutta presa dai molti servizi. Il problema è questa molteplicità di interessi e di azioni che in qualche modo dissipano la persona e, con l’intenzione di accogliere bene Gesù, in realtà lo si trascura.

Avrete fatto certamente anche voi l’esperienza di avere ospiti a casa e se volete trattare bene una persona sapete che ci sono tante cose da preparare. Però è possibile che, mentre uno prepara il tavolo e cerca la tovaglia bella e tira fuori i bicchieri e deve pulire i piatti belli e deve preparare questo e quant'altro per accogliere bene quella persona, non si ha tempo per stare con la persona stessa. Non la si valorizza per quello che l’ospite è; si concentra l’attenzione piuttosto sugli oggetti, le posate, i bicchieri, i tovaglioli, il vaso bello per accoglierlo, ma la persona è abbandonata.

L’immagine di una accoglienza positiva può dunque trasformarsi in un’accoglienza superficiale dove la preminenza è data alle cose. L'atteggiamento di Marta ha del prepotente nei confronti di Gesù, lo rimprovera, lo chiama Signore con un titolo onorifico, ma allo stesso tempo gli fa una domanda che nasconde un rimprovero: “Non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola?” Come dire: “non te ne accorgi? Lo vedi che sto lavorando solo io?”. E dato che lei ha già capito come bisogna comportarsi gli dà un ordine: “Dille dunque che mi aiuti!” Perché è chiaro che quello che vedo io è il modo corretto.

La risposta del Maestro incomincia con il doppio vocativo, ha un tono di dolce rimprovero: “Marta, Marta…”. Non è un tono duro, proprio il doppio nome ha questa valenza. Ricordiamo altri casi. In Luca durante l’ultima cena Gesù dice a Pietro: “Simone, Simone: il diavolo vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede” (Lc 22,31). Proprio nel momento in cui il discepolo pretende di seguirlo, garantendogli: “qualunque cosa succeda io ti seguirò”, il maestro lo rimprovera: Simone, Simone!”. Altro esempio: la chiamata di San Paolo: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9,4; 22,7; 16,14).

Il doppio nome iniziale assume un tono di rimprovero ma di rimprovero buono, amichevole, famigliare che intende far capire alla persona che sta sbagliando; è un modo gentile per invitare l’ascoltatore a rendersi conto che il proprio atteggiamento è scorretto.

“Ti preoccupi e ti agiti per molte cose”. Ecco il guaio: sei preoccupata e agitata. Non è il servizio che sta criticando, è la tua preoccupazione e la tua agitazione che non va bene mentre indispensabile è una cosa sola. Qual è l’unica cosa necessaria? La relazione con le persone. La relazione personale è quel bene fondamentale indispensabile ed eterno. È questa la parte buona! Nell'originale greco non c'è il comparativo (“la parte migliore”, come è stato tradotto il testo); c'è semplicemente l'aggettivo positivo: “la parte buona è la parte che non verrà tolta”.

Che cosa ha scelto Maria? La parte buona, cioè la relazione con Gesù. È questo l'elemento positivo e fondamentale perché spesso anche noi rischiamo di confondere il nostro atteggiamento di fede con delle cose, con delle pratiche molto concrete, con degli oggetti, con delle azioni che facciamo mentre tutto si gioca in un’autentica, profonda relazione personale con la persona di Gesù. E questo incontro personale avviene attraverso l’ascolto e la Parola; Lo ascolto e Gli parlo.

Marta non viene invitata a sedersi e a lasciar perdere il servizio; viene invitata ad alimentare il proprio servizio con l’ascolto e a superare preoccupazione e agitazione. È un discorso che all'evangelista Luca sta molto a cuore e lo ribadisce anche negli Atti degli Apostoli quando narra della prima comunità cristiana. Qui nel testo compare il verbo “diakonéo”, il verbo del servizio. Anche la Comunità Apostolica primitiva ebbe dei problemi di servizio, l’ascolto della Parola, il servizio delle mense, con mormorazioni all'interno dei vari gruppi cristiani che non andavano d'accordo. Il rischio, dice l'evangelista, è che una comunità, impegnata nel servizio, con il tempo diventi arida.

L'impegno del servizio stanca; pensate ai servizi di carità, servizi ministeriali, qualunque tipo di servizio, che potete fare nel vostro ambito di vita ecclesiale, dopo un po' di tempo stanca. Uno perde le motivazioni non ne ha più voglia perché trova incomprensione, ingratitudine, non c'è più lo stimolo, qualcuno s'impegna nell'azione di carità per qualche anno va avanti con entusiasmo poi sente il peso comincia a stancarsi, lascia perdere. Il servizio senza ascolto stanca, svuota, inaridisce. Se non c’è l'ascolto viene meno l’entusiasmo; se non c’è l'accoglienza della Parola viva, della persona viva di Gesù non si serve a lungo, se ne perde presto la voglia; passano quelle voglie iniziali che spingevano, che erano spesso motivazioni umane di ricerca di gratificazione, di soddisfazione.

Non basta certamente solo un ascolto sterile; un ascolto sterile è quello del terreno sassoso che riceve il seme della Parola ma non produce. L'ascolto fecondo è quello della terra umile che produce frutto. L’ascolto della Parola è strettamente connesso con il conservarla e il metterla in pratica; allora Marta e Maria non sono due figure distinte, due modelli alternativi: o imiti l'una o imiti l'altra; ma sono due figure complementari, entrambe necessarie.

Ognuno di noi deve imitare tutt'e due, è necessario un servizio autentico ma perché sia autentico il servizio deve ascoltare. È necessario un ascolto libero della Parola di Dio, di una persona che dica: sono tuo, sono disponibile, ho tempo per te, m'interessi tu come persona e da questo ascolto autentico, di conseguenza, nasce poi il servizio, l’opera l’impegno.

Ecco dunque figure femminili di donne che ascoltano la Parola e che sono esemplari per noi come discepoli autentici di Gesù. La Madre, colei che ascolta la Parola; Maria, che ha scelto la parte buona che non le verrà tolta. È certo, Marta dà da mangiare, ma nell'eternità non ci sarà più nessuno a cui dar da mangiare; non ci saranno più malati da curare, non ci saranno più bambini da educare, non ci saranno più poveri da sfamare e da vestire; ci sarà solo la relazione con la persona senza più cose da fare, senza più opere buone da compiere.

Ci sarà solo l’essere con il Signore. E me lo dite solo? Sarà il tutto! Quella è la parte buona che non sarà tolta! Per l'eternità saremo sempre con il Signore e cominciando ad ascoltarlo adesso impariamo ad essere veramente con Lui. Non siamo noi che dobbiamo insegnare che cosa fare; se l’ascoltiamo veramente siamo noi che impariamo da Lui.

Come c'insegnano queste figure femminili vogliamo diventare sempre più discepoli che ascoltano la Parola, la custodiscono in cuore bello e buono e portano frutto, mettendola in pratica.

 

Annunciare il Vangelo nella relazione

C’è un testo che afferma una cosa che mi ha sempre colpito. Si trova nell’istruzione della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica dal titolo, Il Servizio dell’Autorità e l’Obbedienza (11 maggio 2008), nel quale si afferma che “chi non sa ascoltare il fratello o la sorella non sa ascoltare neppure Dio”. E noi sappiamo che la donna ha una particolare capacità di ascolto grazie alla sua psicologia più aperta e recettiva rispetto a quella dell’uomo, con un grande spazio di interiorità, con una notevole potenzialità empatica e intuitiva. E lo fa su due piani: sul rapporto che instaura con l’altro mediante il suo atteggiamento di accoglienza, e sulla capacità di ascolto del contenuto – con atteggiamento comprensivo e di empatia – di quanto gli viene detto verbalmente e non verbalmente. Li accenno brevemente.

Abbandonando ogni forma di critica – atteggiamento di chi mentre ascolta un altro, è immediatamente intento a paragonare e valutare quello che ascolta in base ai suoi schemi personali e alle sue idee -, la donna sa accostarsi al rapporto con l’altro e al dialogo con una particolare capacità di accoglienza e di apprezzamento. Offre il suo ascolto e accoglie l’esperienza altrui. Accettare il pensiero o la condizione emotiva dell’altro, non significa essere privi di idee o convinzioni personali, né significa scendere a compromesso tra le proprie e le altrui convinzioni. L’apprezzamento è una disposizione d’animo con cui si è capaci di osservare e riconoscere il positivo dell’altro. Questo apprezzamento dell’altro rende la comunicazione più autentica poiché abbatte le naturali difese di ogni rapporto e infonde fiducia.

Riguardo invece ai contenuti, è invece importante comprendere quanto l’altro dice, cioè saper cogliere il suo punto di vista, cioè la prospettiva nella quale guarda una certa realtà. L’ascolto attento, inoltre, sa cogliere anche il messaggio non verbale, cioè sa interpretare il “di più” che viene comunicato con il tono della voce, con l’espressione del volto e il mondo affettivo di chi parla. Mediante l’empatia – cioè la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro – si rende comprensiva dell’altro e delle sue difficoltà poiché le sa percepire un po’ come proprie. Allo stesso tempo colui che parla si sente ascoltato; viene così soddisfatto il suo bisogno di essere considerato e di ricevere manifestazioni d’attenzione.

È all’interno di questo ascolto attento che la donna saprà esercitare la diaconia del Vangelo con una parola giusta, appropriata, capace di illuminare la situazione che l’altro sta vivendo e, insieme, infondere fiducia che Dio lo ama personalmente e sostiene con la sua grazia il suo cammino.

Una parola, infine, che non è pura ripetizione del Vangelo, ma che è accompagnata dal vissuto di chi già lo vive, di chi parla carico di esperienza spirituale personale e, se necessario, sa dare anche la propria testimonianza. È quanto già la vergine Maria ha fatto a Cana di Galilea quando ha detto ai servi: “Fate quello che vi dirà”. Ella sa cosa vuol dire ascoltare e accogliere nella fede la parola; ascolto che ha permesso l’incarnazione del Verbo. Così la diaconia del Vangelo è invito a fare esperienza che la Parola del Signore non è un inconsistente “flatus vocis”, ma è una Persona concreta, quella del Verbo, che vuole realizzare su ciascuno il suo progetto di salvezza.

 

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[1] La traduzione della CEI dice che Maria rispose in ebraico, ma in realtà il termine rabbunì appartiene all’aramaico, cioè alla lingua parlata dal popolo.

Ultima modifica il 25 Maggio 2019

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