La bellezza e la fondatezza della nostra fede in Dio creatore


Inziamo con questo articolo un tentativo di confronto con la cultura contemporanea  e con il credo delle altre religioni per riscoprire  la fondatezza e la bellezza della nostra fede cristiana. Al giorno d'oggi più che dimostrare che Dio esiste - già tante persone credono che Dio esista, ma lo ritengono influente nella vita quotidiana -, il cristianesimo deve mostrare - sia razionalmente, ma soprattutto con la vita - che Dio agisce nella storia, opera la storia della salvezza. Che credere e affidarsi a Dio ne vale la pena, e il credente sperimenta nella sua vita la fedeltà e la bontà di Dio. Che il Dio che la Scrittura ci rivela non è una riedizione degli antichi dèi, ma è il Dio dell'amore che si è rivelato e ha intrapreso un dialogo, anzi un'alleanza, con l'umanità. 

Il cristianesimo crede in un solo Dio. È possibile che nell’AT ci siano «rimasugli» di una fede politeista? La critica viene da Odifreddi che sa bene che per designare Dio l’AT usa più nomi: El, Elohim e Eloah (nomi ebraici), Theos e Kyrios (termini greci), YHWH (nome proprio per indicare il Dio d’Israele). Notando che Elohim è al plurale (sarebbe da tradurre “gli dei”), e che Eloah (al singolare) è il nome della principale divinità dei Cananei, chiamata anche “toro” o “vitello”, pensa che quest’ultimo nome non è altro che «un fossile del politeismo che vigeva nella terra di Canaan e che fu evidentemente ereditato dagli Ebrei del regno settentrionale di Israele». Per cui afferma: «la storia di Elohim è dunque quella del dio di Israele, nel senso specifico del regno del nord» (p. 14). Inoltre, per il quanto riguarda il nome Adonai, che gli ebrei utilizzano per “leggere” il tetragramma YHWH, sarebbe un plurale possessivo derivato da Adon, dio dei fenici, popolazione del sud. Quest’ultimo sarebbe anche all’origine del greco Adonis, la divinità della vegetazione che annualmente nasce, vive, muore e risorge. Che dire?

Anzitutto bisogna dire che il termine El (che ricorre circa 240 volte nell’AT), usato non solo dai cananei, ma in genere dai popoli semiti, nell’etimologia originale designa Dio in maniera probabilmente vaga. Per cui l’AT lo utilizza per indicare genericamente sia il Dio degli altri popoli, sia il proprio Dio, che per Israele è YHWH. È tuttavia anche vero che El appare come nome personale del capo del pantheon di Ugarit; può darsi che il nome rifletta una concezione originale per la quale El era il dio veramente supremo e le altre divinità erano figli o figlie di El.

Il termine Eloah è piuttosto raro, e appare per lo più in poesia.

Il termine Elohim (usato circa 2600 volte dall’AT!) è plurale nella forma, ma è usato anche per indicare un unico essere divino: sia il Dio d’Israele (e in questo caso il verbo che ha per soggetto Elohim è coniugato al singolare, come in Gen 1,1: «In principio Dio creò…») sia gli altri dei. Si noti che (Ravasi, 150 questioni di fede, Mondadori 2010, p. 137)il plurale, anche per le altre culture che pure avevano concezioni politeistiche, non indicava necessariamente una molteplicità. Poteva, infatti, esprime un’«eccellenza», una «maestà», più o meno come accade al nostro «plurale maiestatico», il «Noi» solenne al posto del più normale «io»[1].

Va anche segnalato che nell’AT c’è un ulteriore livello di comprensione e utilizzazione dell’appellativo El-Elohim quando, nelle professioni di fede, al nome proprio e di rivelazione YHWH viene accostato quello di ‘El e, soprattutto, Elohim. In simili casi l’antico appellativo divino si carica di senso nuovo: JHWH è il nostro Dio, con esclusione di qualunque altra divinità o idolo (come nell’introduzione al Decalogo: cf. Es 20,2-3; e così pure nel “credo” fondamentale di Israele, lo Shema’: cf. Dt 6,4 e Mc 12,19.32). Questo è importante, perché per Israele il problema non è l’esistenza di Dio, ma quello di conoscere l’identità di Dio. Il vero e unico Dio è quello che si è rivelato a Israele!

Per quanto riguarda il termine Adonai, non ha importanza se Israele lo abbia preso dai fenici o meno. Anche se lo fosse, ne possiamo capire il perché. Sappiamo, anzitutto, che il Nome (YHWH) venne sostituito solo tardivamente con Adonai, non tanto nel testo scritto, quanto nella pronuncia, mentre cioè lo si leggeva. Non era solo un’alternativa letteraria, bensì un’interpretazione: si fissava in qualche modo un significato (e un volto) allo JHWH della rivelazione sinaitica, quello di “Signore”. Ed è questo lo stesso significato che ha la traduzione greca di tale nome: Kyrios. Per gli ebrei, dunque, non è il dio fenicio o quello greco il vero signore, ma solo YHWH.

 

Che dire poi delle incongruenze tra i due racconti della creazione che, per Odifreddi sono solo dei miti e sarebbero stati semplicemente giustapposti nel testo della Genesi molto tardivamente, nel post-esilio, formando così un «irritante e snervante pasticcio» (p. 25)? Il motivo di tale scelta sarebbe il seguente: «nessuna tradizione poteva essere scartata senza creare risentimento nella parte della popolazione a cui apparteneva» (ibid).

Bisogna prendere i testi per quelli che intendono essere. I due racconti non hanno la pretesa di essere un racconto storiografico, né, evidentemente, scientifico. D’altra parte chi poteva essere testimone oculare della creazione divina per poterla raccontare? E’dunque chiaro che questi racconti non mirano a dare una spiegazione delle origini dell’universo, quanto piuttosto a rivelare il significato del mondo, dato che esso è posto (e viene mantenuto) in essere da Dio. In altre parole, si parla della creazione non tanto per risolvere un eventuale enigma filosofico o scientifico, quanto per indicare il senso che essa e l’esistenza umana hanno. Così essi ci mostrano la bellezza dell’opera di Dio e, in modi diversi, la centralità dell’uomo nel cosmo.

Capiamo, allora, che le incongruenze che Odifreddi lamenta, non creano al credente alcun problema di fede che ben conosce la natura e la finalità di questi testi.

Che significato hanno allora i racconti della creazione?

Abbiamo già visto, nel capitolo 2, in quale prospettiva Israele ha scritto questi racconti. Ora ne diamo una lettura diversa, più attinente al testo in sé.

a) Un primo significato che troviamo nei racconti della creazione emerge chiaramente dal confronto con gli altri racconti mitici (cf. Gesché, Dio, San Paolo 1996, 94ss). Nei racconti delle cosmogonie e teogonie, infatti, l’universo è il risultato non intenzionale (o il frutto di una intenzione cattiva) di una lotta tra dèi rivali, potenze senza nome, forze elementari. E i filosofi pagani conservavano questa stessa concezione, ma la razionalizzavano. Secondo Platone, ad esempio, il nostro mondo è l’ombra degradata del mondo trascendente delle Idee; per Aristotele, è un’autoproduzione eterna; per Plotino, l’emanazione, sempre più decaduta, dell’Uno; secondo Spinoza (Deus sive natura), è la stessa natura (natura naturans) a produrre la natura (natura naturata). In tutti i casi la creazione è un’opera anonima: essa non dipende da nessuno. È fatale e arbitraria, conseguenza inevitabile di un processo non finalizzato. È significativo a questo proposito che il pantheon antico ignori, in modo assoluto, la figura del dio creatore. Il mondo è soggetto ad un destino incontrollabile, irreversibile, sia che obbedisca a un fatum anonimo e onnipotente a cui Zeus stesso è sottomesso, sia che ricalchi le leggi universali, pre-fissate e che non possono essere infrante. A differenza di Zeus, la cui libertà si limita alla realizzazione, spesso irrisoria, di qualche capriccio cosmologico, capriccio d’amore o di guerra, il Dio creatore della rivelazione è un soggetto libero – e dunque l’immagine stessa dell’anti-destino - che crea un mondo nel quale l’uomo è libero. Inoltre tale mondo creato ha un senso e una per una finalità che l’uomo deve scoprire per vivere autenticamente la sua vita in armonia con l’intenzionalità divina.b) I due racconti biblici sottolineano la bellezza e l’armonia del creato nel quale l’uomo è posto. Così nel racconto di Gen 2,4b-25, che è più antico, tutta l’azione di Dio è quella di trasformare il deserto (simbolo di ostilità alla vita) in un’oasi favolosa, ricca di acque (due fiumi: Pison e Ghicon) e di minerali preziosi, con grande abbondanza di frutti, per accogliere l’uomo, lo ‘Adam (cf. vv. 8.15-16).

Nel primo racconto (Gen 1,1-2,4a)[2], invece, oltre all’armonia e bellezza del creato, si insiste anche sulla sua bontà. Per ben 7 volte Dio guarda le opere da lui create ed esprime il suo giudizio positivo: «era cosa buona (tob)» (cf. Gen 1,4.10.12.18.21.25.31).

Questa bellezza e bontà è il frutto di un’azione divina che compie due specifiche azioni:

- quella di separare (o distinguere) un caos informe («tohu wa-bou»: Gen 1,2). Così Egli separa la luce dalle tenebre (v. 4), le acque che sono sopra il firmamento da quelle sotto il firmamento (v. 7); il mare dall’asciutto (vv. 9-10)

- quella di chiamare (per 7 volte) all’esistenza con la semplice sua parola – la luce («sia la luce»: v. 4), il firmamento («sia il firmamento»: v. 6), la vegetazione sulla terra (vv. 11-12), le luci nel cielo (sole e luna) e le stelle (v. 14), i pesci e gli uccelli (vv. 20-21), gli esseri viventi sulla terra secondo la loro specie (vv. 24-25) e, infine, l’uomo (vv. 26-27) – e dare dei nomi alle creature: «chiamò la luce giorno e le tenebre notte» (v. 4); «chiamò il firmamento cielo» (v. 8); «chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare» (v. 10). Chiamare il nominare non significa solo esercitare un potere sulle cose, ma dare loro senso, fissare il loro significato primigenio e rivelarlo pubblicamente). Fa le creature secondo la loro specie, assegna loro dei fini, le colloca nel creato, le distribuisce, ed esse prendono forma, rispondendo alla potenza della sua parola. Il passaggio dall’«insensato» al «sensato» è la condizione indispensabile per la bellezza del mondo. Il caos diventa cosmo.

L’armonia è anche simboleggiata dall’idea che nei primi tre giorni della creazione (essa è scandita sull’asse temporale di 7 giorni) Dio crea, per così dire, le “tre stanze” dell’universo (esso infatti immaginato come un palazzo a tre piani), ossia (partendo dall’alto) il cielo, la terra e gli inferi, mentre già nel terzo giorno e nei seguenti Dio si dedica ad “abbellire” tali stanze con le creature che pone in esse, ciascuna al suo posto: nel cielo pone il sole, la luna, le stelle e gli uccelli; sotto la terra pone gli animali marini; sulla terra pone gli animali terrestri e l’uomo. In quest’unica “stanza”, però, ha pensato ad una convivenza pacifica, armoniosa, tra l’uomo e gli animali; infatti assegna ai due una dieta diversa: all’uomo dà come cibo «ogni erba che produce seme… e ogni albero in cui è il frutto», mentre agli animali dà «ogni erba verde» (v. 29). Così non ci sarà alcun motivo di contrasto.

Si è anche osservato che la perfezione delle creature è progressivamente ascendente nell’essere. Soltanto nel quarto giorno la benedizione di Dio raggiunge i viventi (Gen 1,22.28), dal momento che la vita e la facoltà di generare è un dono specialissimo di analoga partecipazione a una qualità propria di Dio: la Vita (Gen 2,2-3,9; cf. 3,22-24). E nel sesto giorno Dio crea l’uomo, il vertice delle creature create, «a sua immagine» (v. 27), cioè ad immagine di Dio che è Amore.

Si noti anche l’armonia con la quale l’uomo vive nel creato, nel tempo: il sole segna gli anni, la luna i giorni e le stelle le feste liturgiche[3]. Questa vita nel tempo è anche il “luogo” nel quale si incontra Dio. Più che nello spazio l’uomo lo incontra nel tempo, nella storia concreta.

Alla fine del sesto giorno, la confusione inerte dell’inizio ha ceduto il posto alla bellezza delle schiere ben allineate del cielo e della terra. Il giudizio di Dio, che contempla la sua opera è questo: «è cosa buona» (cf. vv. 10; 12; 18; 21; 25). Le creature sono belle/buone, in esse Dio trova diletto, le ama perché a) sono come le voleva; b) sono nei limiti e nelle funzioni che ha loro dato; c) in questa “obbedienza” esse rendono possibile la vita. Queste creature recano diletto a Dio, gioia e sono utili perché rendono possibile la vita.

c) Questo creato bello e buono, infine, è affidato all’uomo. Nel primo racconto Dio gli comanda di soggiogare e dominare la terra (non in senso dispotico, ma come creatura che gestisce con saggezza il creato secondo l’intenzionalità divina) (Gen 1,28)[4], mentre nel secondo racconto Dio pone l’uomo nel giardino «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). E’ interessante notare che nell’immagine del «coltivare» c’è l’idea che il creato, per quanto bello e buono, può essere ancora perfezionato dall’opera dell’uomo, che in un certo qual modo continua l’opera del Creatore; e, inoltre in questo “coltivare” il creato l’uomo – esprimendo le sue potenzialità - perfeziona anche se stesso (questo è il senso del lavoro).d) In questo cosmo c’è una creatura speciale, quella del settimo giorno (primo racconto): il sabato, giorno nel quale Dio «cessò da ogni suo lavoro» (Gen 2,2). È un giorno separato dagli altri, consacrato (qodesh) al Signore. In questo giorno anche l’uomo – come si preciserà chiaramente nel precetto che verrà codificato nel Decalogo donato al Sinai (Es 20,8-11). Chi non lavora il sabato riconosce che c’è un’opera più importante della sua, quella di Dio. La vita è un dono, il tempo è un dono. La vita non è il frutto del lavoro dell’uomo. Il comandamento del sabato ricorda la priorità del dono sulle nostre realizzazioni umane, della gratuità del dono iniziale su tutte le altre iniziative.e) C’è un nesso tra creazione del mondo e alleanza. Si notino i 10 «Dio disse» (vv. 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29) del primo racconto (Gen 1,1-2a) che richiamano le 10 Parole (o comandamenti) del decalogo del Sinai. L’autore di tale testo ha riletto la creazione partendo dal fatto che la salvezza è l’azione storica divina (e il popolo di Israele ha avuto tale esperienza salvifica nell’evento dell’esodo). Il messaggio è chiaro: la creazione è il presupposto estrinseco dell’alleanza, poiché senza di essa non ci può essere alleanza. Viceversa si può dire che l’alleanza è il presupposto intrinseco della creazione: Dio ha cioè creato con l’intenzione di stabilire il rapporto di alleanza con l’umanità.

Più nella prima versione della creazione, e meno nella seconda, sembra che Dio sia un demiurgo che “crea” modellando una materia preesistente («la terra era informe...»: Gen 1,2). La Chiesa però parla di creazione dal nulla. Come conciliare il racconto genesiaco con questa affermazione teologica?

L’idea della creazione delle cose «dal nulla» è molto tardiva. Si ha, infatti, quando la Sapienza di Israele incontrerà la sophia ellenistica. La dottrina della creazione «dal nulla» è importante perché si vuole affermare che la libertà di Dio nell’opera creativa è assoluta: ha creato senza costrizione, cioè senza necessità interna (Dio non ha bisogno di uscire da se stesso per perfezionarsi. Egli ha in se stesso la pienezza) né esterna.

Diverse affermazioni magisteriali hanno affermato tale libertà assoluta di Dio nella creazione, negando quindi ogni forma di necessità. Nell’ipotesi che la creazione non fosse dal nulla, ma da una realtà preesistente, allora ci sarebbe un altro assoluto accanto a lui; per cui Dio non sarebbe signore di tutto il creato, e allo stesso tempo verrebbe anche intaccato il valore universale della mediazione di Cristo[5]. In altre parole: solo Dio ha il potere, esercitato in modo pienamente libero, di produrre e dare l’essere a ciò che non l’aveva affatto (cfr. CCC 318).

Nella Sacra Scrittura troviamo l’idea della creazione dal nulla solo in testi tardivi. Se nella Genesi si parla del “caos” primordiale (Gen 1,2) o di “terra deserta” (Gen 2,5), concetti che potrebbero indurre a pensare che prima della creazione c’era una forma di materia, in 2Mac 7,28 l’idea della creazione dal nulla è chiara. Tale asserzione è posta in bocca al discorso con il quale la madre incoraggia i figli ad affrontare la morte, ponendo in relazione creazione e vita eterna: «Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l’origine del genere umano». Troviamo la stessa idea della creazione dal nulla anche in Prov 8,22ss e, nel NT, in Rm 4,17: «[Abramo è nostro padre] davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono». Il NT presenta poi la capitalità del Verbo incarnato sulla creazione con i caratteri dell’universalità e della totalità: il Padre ha messo assolutamente tutto nelle sue mani e il suo compito di ricapitolare tutta la creazione rinnovata non lascia spazio ad alcuna interferenza (cf. Gv 1,1-3; Ef 1,10.22; Col 1,15-20). L’unicità e l’onnipotenza di Dio esigono, come necessaria deduzione, di avere di fronte a sé lo sfondo del nulla, la cui consistenza è solo logica, non ontologica. La creazione non è un operare di Dio sul nulla, ma un operare di Dio da solo. Un Dio che non crea dal nulla non è un unico Dio.

Odifreddi contesta però il riferimento scritturistico a 2Mc 7,28, e non parla di Prov. 8,22ss. Afferma infatti che «i due libri dei Maccabei sono estremamente tardivi, e risalgono a un secolo circa p.e.V. [a.C.]. Inoltre, non fanno parte della Bibbia ebraica e sono considerati apocrifi da quella protestante. Poi, il primo è stato scritto in ebraico ma ci è pervenuto soltanto in traduzione greca. Infine, il secondo è il riassunto di un’opera perduta in cinque libri di un ignoto Giasone di Cirene. Si può ben immaginare quanto sia attendibile, quell’unico e vago versetto, come fonte di notizie riguardanti gli inizi del mondo…». Secondo lui «la creazione dal nulla è un’invenzione di Ireneo, ripresa da Agostino di Ippona…» (p. 14).

A parte quest’ultima affermazione, che è sbagliata - perché già tale concetto si trova nel Pastore di Erma («In primissimo luogo credi che vi è un Dio, che ha creato e compiuto ogni cosa e che tutte ha fatto essere dal nulla»), citato da Ireneo e Origene in riferimento alla sfida della gnosi -, il problema posto ora è quello dell’ispirazione (e quindi della verità) del secondo libro dei Maccabei. Chi, infatti, stabilisce la canonicità di un testo biblico (nel nostro caso 2Mac), e quindi il fatto che sia ispirato? Il problema della canonicità è un problema complesso, che non possiamo qui trattare. Tuttavia accenniamo ad alcuni elementi.

Anzitutto ricordiamo il motivo per cui il canone ebraico (definito nel I sec. d.C.) escludeva i deuterocanonici: gli ebrei ritenevano che non erano sacri quei libri che rispondevano ai seguenti due criteri: se non è scritto in lingua ebraica o classica o aramaica (l’unica lingua ritenuta santa); se non è scritto in Palestina (terra ritenuta degna di rivelazione divina). I deuterocanonici (Siracide, Baruc, Tobia, Giuditta, Ester greco, parti greche di Daniele, 1 e 2 Maccabei, Sapienza), in base ai criteri suesposti, difettano di almeno uno di tali criteri. Eppure nella traduzione greca della LXX – diventata poi il testo ufficiale della Chiesa nell’epoca subapostolica e per un lungo tempo successivo - erano inclusi i libri deuterocanonici.

Detto questo vediamo la differenza con i criteri che invece porteranno al riconoscimento da parte della Chiesa di tali libri. Anzitutto dagli scritti apostolici del NT risulta che gli Apostoli ammettevano il canone degli scritti ispirati, compresi i deuterocanonici. Ciò emerge dalle citazioni dell’AT nel NT, prese quasi tutte dalla LXX. Così facendo, Giovanni, Paolo e Pietro hanno approvato e riconosciuto nei loro scritti il canone come era nella LXX, inclusi quindi i deuterocanonici (sono citati espressamente Sir, Sap, Gdt e 2Mac).

La discussione sui deuterocanonici è continuata nei primi secoli. Molti autori erano favorevoli al loro riconoscimento. Cito, per es., nel I sec., Clemente Romano, Policarpo; nel II e III sec. abbiamo: Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, Ippolito, Cipriano, Dionigi Alessandrino; nel IV sec. Afraate, Efrem Siro, Basilio, Gregorio di Nissa, Ambrogio di Milano, Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Ciro e Agostino. Questi riconoscevano in tali testi – utilizzando un criterio ben diverso da quello ebraico – delle profezie che hanno trovato compimento in Gesù.

Tra coloro che invece negarono l’ispirazione dei deuterocanonici troviamo i seguenti scrittori: Melitone di Sardi (170); Origene (240); nel IV secolo Cirillo di Gerusalemme, Ilario, Atanasio, Gregorio Nazianzeno, Epifanio, e l’autore dei Canones Apostolorum. Nel V sec. contrari al riconoscimento abbiamo Rufino, Girolamo (anche se il suo è un caso particolare, perché lui stesso per ben 200 volte cita i deuterocanonici come Scrittura. Si può quindi dire che egli aveva dei dubbi personali) e lo pseudo-Atanasio.

Si noti che intanto in alcuni cataloghi di libri dell’AT sono compresi i deuterocanonici: nel Canone Claramontano del IV secolo; nel Canone Siriaco del 400 che enumera tra gli scritti canonici: Giuditta, Siracide, Sapienza, 1-2 Maccabei, Baruc (compreso in Geremia), e le parti deuterocanoniche di Daniele.

Dopo il V sec. gli Autori ecclesiastici sono concordi nel ritenere ispirati i libri deuterocanonici dell’AT. Sono pochi coloro che dubitano della canonicità. In Oriente, nel VI sec., vi sono Leonzio di Bisanzio e Giunilio Africano; Giovanni Damasceno (sec. VIII) e Niceforo di Costantinopoli (sec.IX).  In Occidente gli autori, contrari a tutti o a parte dei deuterocanonici sono una quindicina. Tra essi ricordiamo Gregorio Magno (+604), Ugo di S. Vittore (sec. XII), Nicola di Lira (sec. XIV), Antonino di Firenze (sec. XV) e il Gaetano (sec. XVI).

È il Concilio di Trento che – raccogliendo la tradizione – nel 1546 – anno di definizione ufficiale del canone[6] - accetta definitivamente i deuterocanonici. Da allora nessun cattolico ha più messo in dubbio la canonicità dei deuterocanonici.

Concludendo, possiamo dire che gli scrittori ecclesiastici in linea generale confermano la canonicità dei deuterocanonici; confermano la tradizione apostolica nella Chiesa. Le voci discordanti, anche autorevoli, si spiegano con la polemica anti-giudaica e il giusto timore per gli apocrifi.

____

[1] Così troviamo il «Noi» divino in Gen 3,22; 9,15; 19,13. Anche in Gen 11,7 (torre di Babele) il proposito divino è espresso al plurale, cioè in modo maiestatico: «Scendiamo e confondiamo la loro lingua…».

[2] In realtà questo testo non è un racconto, poiché il genere letterario è quello dell’inno. L’AT, dunque, si apre con un inno a Dio per la bellezza e la bontà della creazione!

[3] Si noti che troviamo la categoria nel tempo nel primo giorno (Dio separa la luce dalle tenebre – v. 3 -, ossia dà inizio ai “giorni”), nell’ultimo giorno (il settimo: il sabato, creatura “speciale”) e, al centro, nel quarto, ove si ha la creazione del sole, della luna e delle stelle. Per la Bibbia il tempo (che è una creatura) è molto importante, perché in esso si può incontrare Dio.

[4] Si ricordi che nel mondo orientale il re era l’«immagine» di Dio, cioè lo rappresentava. In un certo qual modo dicendo che ogni uomo è «immagine di Dio», e non solo il re, vuol dire che ogni uomo ha una dignità regale, in forza della quale “gestisce” saggiamente la creazione e, allo stesso tempo, vive la vocazione dell’amore con i suoi pari.

[5] In 1Cor 8,6 leggiamo: «... per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui». Il Padre appare come la fonte ultima e Cristo è il mediatore, cioè per mezzo di lui tutto è stato fatto. Se la salvezza ha la sua origine fontale dal Padre («E’ stato Dio [Padre] infatti a riconciliare in sé il mondo in Cristo...» - 2Cor 5,19) e si realizza mediante Gesù, lo stesso ordine si ha nella creazione: l’origine fontale rimane il Padre; e, come Cristo è mediatore nella salvezza, così la creazione avviene mediante il Figlio (cfr. anche Gv 1,3.10; Eb 1,2-3).

[6] Si dovuto procedere ad una definizione ufficiale del canone perché i protestanti contestavano quello tradizionalmente recepito nella Chiesa cattolica. E’ nota, infatti, la preferenza dei protestanti per il canone ebraico.

Ultima modifica il 17 Novembre 2019

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