Padre Michele

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1. Lo zelo del Lanteri

P. Lanteri fu un uomo acceso dal fuoco ardente: bruciava dal desiderio di aiutare tutti a incontrare Cristo. Fin da giovane bramava di “poter fare qualche cosa a Sua Maggior Gloria e a servizio delle anime da Lui redente”. Nel direttorio spirituale il Lanteri si proponeva di essere: «Sempre zelante, magnanimo, libero, fedele, semplice, candido, affabile, tranquillo, rassegnato alla volontà di Dio, ansioso di piacere a Lui solo e guadagnarGli anime.... Un grado di perfezione o di zelo di più, tante anime guadagnate e tanto zelo di più».

E, al termine del ritiro di otto giorni del 1790, tra i lumi e proponimenti scrive:

«Mi debbo armare di uno zelo ardente dell’altrui salute. Ma zelo prudente, benigno, caritatevole, e che mai provenga, o sia animato da amor proprio. Oh Signore mio, è ben giusto che richiediate ciò da me, che col cattivo esempio tanti avrò indotto al male. Sì dunque voglio impegnarmi tanto che potrò a ben edificare il prossimo, e quantunque sia uno strumento inutile, tuttavia sapendo che Vi servite anche di vilissimi vermi per operare la Vostra gloria».

Un desiderio così forte da poter dire: «Amare Dio, prima morire che inimicarseLo, essere disposto di mettersi sulla bocca dell’inferno per impedirvi che alcuno più non vi entri....».

«La maggior gloria di Dio si procura con far tutte le azioni e quelle sole che hic et nunc più piacciono a Dio, e farle tutte con la maggior perfezione, ossia applicazione interna ed esterna; procurare questo stesso nel prossimo il più che si può.... A me tutta la fatica, tutto il vantaggio al prossimo, tutta la gloria a Dio».

Il Lanteri voleva quasi “contagiare” gli altri: «Propongo di coltivare gente per Dio, e procurare d’ispirare zelo per la gloria di Dio, nelle occasioni che si presenteranno, e non lasciarne fuggire alcuna in [cui] possa chiaramente fare del bene».

Da adulto invitò a pregare affinché vi fossero ministri che avessero da Dio “gran santità e gran zelo, affinché attirino a Gesù molte anime con le loro parole e con i loro esempi”.

Animato da questo zelo gli occhi del Lanteri erano sempre aperti sulla cultura e sul mondo in cui viveva, sempre in continua ricerca di nuovi modi per promuovere la «gloria di Dio». Questo zelo non è «mai stanco», esso «non soffre limiti» e «non soffre [mezze] misure».

Del periodo tra l’ordinazione sacerdotale e la fine l’occupazione francese del Piemonte il biografo Gastaldi così riassume tutte le varie attività apostoliche che il Lanteri svolgeva:

«[…] avvegnaché lasciando per ora in disparte i disturbi e la fatica che gli dovevano essere il rispondere a tante lettere che gli erano indirizzate o per consiglio o per conforto, l’invigilare sul buon andamento delle tre società di cui parlammo più sopra [l’Aa, l’Amicizia Cristiana, l’Amicizia Sacerdotale], presiedere le adunanze e conferenze per giovani sacerdoti e de’ chierici, non perdere mai di vista né l’opera degli esercizi e delle missioni, né quell’altra di propagare dovunque e quanto più potesse i buoni libri, scrivere e dettare opuscoli ed articoli quando a difendere la verità, quando a combattere l’errore, l’essere assiduo al confessionale, e a non mai rifiutarsi a quanti sapesse abbisognare di lui; a tutto questo egli aggiunse il guidare nelle cose dello spirito alcuni monasteri di sacre Vergini, ed in modo speciale quelle del SS. Crocifisso e della Visitazione in Torino. In ogni settimana consacrava due giorni per quelle ottime religiose».

Ci si può soltanto meravigliare delle realizzazioni apostoliche su scala locale ed europea di quest’uomo. Fu chiamato, in verità, uomo «dalle cento braccia», sempre pronto a promuovere l’opera della Chiesa in molte direzioni, sempre presente nel centro della cultura politica ed intellettuale del suo tempo.

L’apprezzamento di queste sue realizzazioni diviene ancor più profondo quando si considerano le infinite e debilitanti infermità fisiche che gli ostruirono il cammino.

 

2. Tre principali direzioni apostoliche del Lanteri

P. Lanteri ha espresso lo zelo profondo che lo animava fondamentalmente in una triplice direzione apostolica:

2.1. L’evangelizzazione in profondità della persona

Il Lanteri si è fatto educatore delle coscienze principalmente attraverso il ministero della riconciliazione e la direzione spirituale. Era assiduo al confessionale passandovi, come era solito, lunghe ore[10]; ed era ricercatissimo anche come direttore spirituale. Di alcuni di questi penitenti - religiosi e laici  - ci è stato conservato il nome, ma i più, provenienti dalla aristocrazia, dalla borghesia e dall’umile popolo, sono rimasti e rimarranno sempre anonimi. Alcuni di questi venivano seguiti spiritualmente per lettera.

L’oblato Davide Emanuelli definì il Lanteri «sagacissimo conoscitore degli uomini». Gli aspetti salienti del tempo li lesse anzitutto nei suoi penitenti.

Nella confessione e nella direzione spirituale il Lanteri cercava fondamentalmente di raggiungere due obiettivi: ricuperare il senso della vera speranza cristiana, la speranza di poter effettivamente progredire nella vita spirituale ed arrivare alla salvezza eterna; e di formare nelle persone una vita spirituale robusta basata sulla spiritualità ignaziana e la frequenza dei sacramenti.

Il Lanteri era un apostolo della speranza. Insegnava che lo scoraggiamento e la tristezza sono i peggiori mali nella vita spirituale e che, al contrario, bisogna sempre guardare con speranza ferma e con confidenza verso l’aiuto e la misericordia che Dio ci dona. Conoscendo con realismo la debolezza della natura umana, considerava le mancanze nella vita morale e spirituale come occasioni di crescita nella conoscenza di sé e nella fiducia in Dio, e come delle opportunità per rinnovare il proprio impegno di vita cristiana, dicendo sempre: nunc coepi, ora incomincio. Questa disposizione di sempre ri-cominciare era per il Lanteri un esercizio della virtù morale della fortezza, che dà coraggio e perseveranza nel cammino spirituale.

Il Lanteri consigliava sempre una vita di preghiera semplice, e regolare. Il suo sistema di vita spirituale comprendeva l’orazione mentale, fatta secondo gli Esercizi spirituali; la lettura spirituale, per nutrire e rinforzare la preghiera; la frequenza dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, consigliando la comunione settimanale in un tempo quando molti consideravano già troppo quella annuale; l’esame quotidiano di coscienza per sradicare diversi difetti specifici e per acquistare delle virtù particolari; giornate e settimane di ritiro a tempi regolari. Eminentemente pratico nei suoi consigli spirituali, il Lanteri nota che tutto questo «non è poi così difficile come appare, massime aggiungendovi sempre il fiduciale ricorso a Dio... ».

Meno frequente invece e meno intenso fu per il Lanteri il ministero della predicazione: non che gliene mancasse il desiderio, ma perché la sua voce esile e la malferma salute non gli consentivano le fatiche di una predicazione vera e propria. In compenso però fu un vero apostolo degli Esercizi spirituali.

«E’ certo che il Lanteri abbia predicato, tra il 1786 e il 1800, parecchi ritiri in quelle apposite case che allora venivano chiamate ‘fabbriche’ e non erano altro che ambienti attrezzati ad accogliere per qualche giorni i gruppi degli ‘esercitandi’. Durante l’occupazione francese quelle case vennero tutte chiuse o quasi tutte. Allora il Lanteri decise di crearne una che fosse di sua proprietà e avesse così la tutela della legge».

In quest’ultima accettava sacerdoti, religiosi e laici che «o per dieci giorni o anche per un mese intero in null’altro si occupavano se non nel meditare o riformare in meglio la loro vita, o a perfezionarla se già riformata».

In seguito, con la riapertura del santuario di sant’Ignazio sopra Lanzo, sappiamo che il Lanteri e il Guala predicarono diversi esercizi al clero tra il 1808 e il 1818.

Da un documento contenente schematiche ma preziose note sul lavoro compiuto dal Lanteri in favore degli esercizi spirituali, veniamo a conoscenza che nello spazio di 27 anni, dal 1798 al 1826, egli abbia provveduto – direttamente o indirettamente - a qualche centinaio di esercizi spirituali.

Con la fondazione degli Oblati di Maria Santissima a Carignano il Lanteri, in quanto superiore, volle anche dirigere due corsi di Esercizi spirituali di otto giorni - rispettivamente nel 1817 e nel 1818 -, trasmettendo ai suoi figli spirituali la ricchezza della propria esperienza spirituale.

Quale efficacia attribuiva il Lanteri agli esercizi? Li considerava «uno strumento potentissimo della divina grazia per la riforma universale del mondo; una macchina efficacissima per espugnare i cuori; un metodo di cura universale e sicuro per sanare le anime inferme; una scienza pratica e metodo canonico, ossia approvato dalla Chiesa per santificare gradatamente qualunque anima; una miniera della divina Sapienza e vera fonte delle verità eterne». Uno strumento, quindi, per la conversione del cuore, «per vincere cioè la sua durezza e insensibilità, per indurlo così ad approfittare delle grazie che il Signore gli somministra», e per illuminare la mente, giacché «contengono una serie di meditazioni nelle quali si propongono non solo più verità a meditare una dopo l’altra, ma sempre una in conseguenza dell’altra, le quali tutte assieme unitamente alle Istituzioni formano un corpo come compito di quanto si ha da credere ed operare, adattato alle persone che ascoltano».

Il Lanteri era convinto che gli esercizi procurano: «...non solo la conversione, ma anche la santificazione, e questa in modo perseverante, ed ispirano di più lo zelo per la salute altrui inducendoli ad impiegare ogni mezzo per questo. [...] L’efficacia poi, e il pregio di questi Esercizi soltanto si conosce da chi li pratica sovente, e con questo metodo stesso».

2.2. L’evangelizzazione della cultura

Il Lanteri fu un attento conoscitore del suo tempo e seppe fare una lettura “critica” delle correnti di pensiero dell’epoca.

Lettore assiduo dei giornali (“gazzette”) e di libri messi all’indice, frequentatore di librerie e di biblioteche, attento agli indirizzi dei professori delle università, pronto ad aiutare gli studenti con scritti brevi e chiari, vicino con l’ascolto e con la parola ai diversi strati della popolazione, cercò di comprendere come pensasse l’uomo del suo tempo e quali fossero le sue necessità spirituali.

Alla scuola del Diesbach il Lanteri aveva compreso come il libro era lo strumento privilegiato del tempo per trasmettere le idee. Il Lanteri, molto sensibile al “danno gravissimo che l’esperienza dimostra risultare nelle anime” dal contatto con “libri cattivi”, aveva colto in questo un campo particolarmente urgente nella Chiesa del suo tempo: «E’ sempre stato necessario per il passato usare ogni mezzo per impedire la lettura dei libri cattivi, e promuovere i libri buoni, in questi tempi principalmente vi è una necessità somma, ed un dovere gravissimo, ed indispensabile».

I libri erano per il Lanteri uno strumento «facile ed efficace» «per combattere ogni errore, per allontanare le anime dal vizio, e per promuovere nelle anime buone le virtù teologali e la pietà, giusta le loro diverse disposizioni interne».

Attraverso le «Amicizie» il Lanteri provvide a diffondere numerosi «buoni libri» sia tra il popolo, ma anche tra il clero. Specie durante il periodo dell’occupazione francese in Piemonte, provvide a diffondere opuscoli a difesa dell’autorità del Santo Padre e del suo primato, e altri per far conoscere la sana dottrina della Chiesa, confutando vari errori diffusi dagli illuministi del tempo. Instancabile era la sua attività di lettura e di informazione su quanto si stampava a livello europeo, pronto a segnalare e refutare l’errore.

Egli stesso scrisse diversi opuscoli polemici, quali, ad es: Vera idea del matrimonio, Osservazione sopra catechismo, Esame dottrina Sineo, Del conciliabolo di Parigi, Osservazioni sopra Bossuet, Sovra il supposto concordato pubblicato con decreto imperiale il 13 febbraio 1813, Idea della Società Biblica, Analisi trattato De Gratia, Osservazioni errori Eineccio e Genovesi, Sul giuramento di fedeltà che si vuole esigere da tutto il clero anche regolare, ecc.

Il Lanteri voleva che anche gli “Amici” (sacerdoti e laici) fossero uomini di cultura. Era importante formarsi sui libri buoni, stampandone anche di propri, ma anche mantenersi informati attraverso la lettura delle gazzette. Ai membri dell’Amicizia Sacerdotale il Lanteri così motiva la lettura di esse all’inizio delle adunanze:

«Questo serve: 1° a prendere la carta morale del mondo;

2° ad assuefare l’ecclesiastico a non restringere le sue idee e il suo interessamento al solo suo paese, ma a guardare tutto il mondo per sua patria, tutti gli uomini del mondo per suoi fratelli, e interessarsi come veri figli e ministri della nostra madre Santa Chiesa Cattolica Romana per tutti i beni e mali morali del mondo che tanto da vicino interessano il Sacro Cuore di Gesù;

3° per poter così più facilmente introdursi con i secolari a parlare loro di Dio all’esempio di S. Francesco di Sales e di S. Francesco Saverio, e di tanti altri Santi.

2.3. La formazione degli evangelizzatori

Il Lanteri si dedicò alla formazione dei membri delle organizzazioni delle «Amicizie»: laici e sacerdoti.

L’impegno del Lanteri nell’Amicizia cristiana di Torino comportava un enorme lavoro perché spettava soprattutto a lui applicarsi allo studio continuo e profondo dei libri, applicandosi anche a scrivere o a tradurre delle opere. Come testimonia il Simonino, «leggeva con sì profondo criterio, che a prima giunta, ed a pochi tratti conosceva non tanto lo scritto, quanto lo spirito dello scrittore; nemmeno leggeva solo di passaggio, ma con serbar impresso talmente il giudizio di ciascuna dottrina, che di moltissimi autori teologici, ascetici, polemici, o morali che fossero, ben sapeva accennare in quale argomento, e per qual capo in tale o tal’altro avesse detto il meglio, e quale in una materia, quale in un’altra dovesse preferirsi».

Con accuratezza preparava gli argomenti da discutere nelle adunanze. Ogni assemblea iniziava con una lettura spirituale; seguiva la riflessione su un libro – ricordiamo che ogni “amico” si era impegnato a leggere i libri buoni indicati nel “catalogo”, sia per la propria formazione sia per meglio diffonderli, suggerendoli ad altri in modo oculato – e/o si discuteva sui mezzi per far progredire l’Amicizia.

Inoltre contemporaneamente alla formazione culturale non doveva mancare quella spirituale, in particolare – oltre alla lettura dei libri di pietà – attraverso quei mezzi che ben già conosciamo: la confessione, la direzione spirituale, e gli esercizi spirituali. Riguardo quest’ultimi il Gastaldi ci ricorda che

«gli amici cristiani e gli amici sacerdoti che vi concorrevano [agli esercizi] s’infiammavano sempre più nel loro zelo, e per quest’opera concepivano sempre maggiore stima, vedendo il vantaggio che per se stessi ne ricavavano».

Nei confronti del giovane clero e dei chierici che si preparavano a ricevere il sacerdozio: «Il Lanteri ebbe la costante preoccupazione di attirare a sé studenti di teologia e giovani sacerdoti, per formarli ad una soda pietà e ad una cultura sana e profonda, onde renderli capaci di un apostolato veramente fruttuoso. Le sue cure per le due società già commemorate, l’Aa dei chierici e l’Amicizia sacerdotale, sono espressioni di questo zelo illuminato e ardente del Venerabile. A ciò si deve aggiungere la predicazione di molti corsi di esercizi spirituali per ecclesiastici; la fondazione del Convitto ecclesiastico di Torino […]; e in particolare la direzione spirituale che lo rese padre di un largo stuolo di sacerdoti insigni per virtù e opere di apostolato».

Dai membri dell’Amicizia sacerdotale il Lanteri esigeva una duplice preparazione, spirituale e culturale.

Prima di tutto la preparazione spirituale, la santità personale, la vita di grazia e di unione con Dio attraverso la purità di coscienza, lo spirito di orazione, l’amore alla solitudine, l’attendere per se stessi agli Esercizi spirituali,

«l’uso frequente dei santi sacramenti, l’esercizio della meditazione seria, abbondante e quotidiana delle verità sante della nostra religione e della vita di Gesù Cristo, con la lettura spirituale e con l’esame quotidiano di coscienza, senza omettere lo studio serio della teologia dogmatica e morale».

La preparazione culturale si svolgeva su tre dimensioni tra loro complementari. Fare dei membri ottimi predicatori del Vangelo e specialmente degli Esercizi Spirituali di S. Ignazio, diffondere i buoni libri a fianco dei laici dell’Amicizia Cristiana, adottare il metodo “benigno”, secondo la dottrina morale di S. Alfonso de Liguori, nell’amministrazione del Sacramento della penitenza. Lo studio approfondito della teologia morale doveva formare ecclesiastici che «conoscano il fondo delle cose e delle persone, e le molle e i mezzi dello spirito pubblico che ivi regna, e delle sue sorgenti».

Ogni settimana si teneva l’adunanza che Lanteri preparava accuratamente. Il discutere sui beni o mali esistenti in ciascun paese, per risolvere un caso di morale, per analizzare un libro o una predica fatta secondo il metodo di S. Ignazio, fu in vista dell’apostolato.

Per la predicazione degli Esercizi ogni membro dell’Amicizia sacerdotale doveva preparare in iscritto un corso completo di meditazioni e di istruzioni (le cosiddette “mute”) sia per le missioni al popolo sia per gli Esercizi chiusi, “secondo il metodo proposto da S. Ignazio”. Una biblioteca comune forniva i testi e i sussidi necessari. Le “mute” venivano poi lette nelle adunanze e ciascuno era invitato ad esporre le sue osservazioni e suggerimenti.

Poi a turno si presentava l’analisi di un libro al fine di entrare in possesso delle conoscenze utili “a spargere con la maggior efficacia la Parola di Dio a voce e in iscritto”.

«Indicibile è... il vantaggio che si può ricavare dalla cognizione di questi libri, poiché con l’uso di essi, quante anime si disingannarono dei loro errori, quante trionfarono delle loro passioni ed entrarono nella via della salute, quante altre furono preservate dai pericoli della seduzione, e quante fecero progressi immensi nella virtù. Chi non ne ha l’esperienza può dedurne il vantaggio dal danno che recarono sempre, ma massime nei nostri tempi, i libri cattivi.

Con l’allontanamento del Lanteri da Torino, le “Amicizie” cessarono ogni attività. Ma, subito, terminato l’esilio, il Lanteri radunò i giovani sacerdoti delle Conferenze di Teologia morale nella “Pia Unione di San Paolo”, della quale faranno parte insigni sacerdoti della diocesi di Torino, tra i quale il teologo Guala e il Reynaudi. Il Guala sarà il realizzatore del Convitto Ecclesiastico di Torino, ideato e voluto dal Lanteri per dare stabilità alle Conferenze di Teologia morale, da allora rese obbligatorie a Torino per tutti i sacerdoti. Dal Convitto Ecclesiastico prenderà avvio a Torino quel filone di santità sacerdotale e di iniziative ecclesiali nei vari ambiti, educativo, caritativo, pastorale, che hanno illustrato la chiesa torinese della seconda metà del XIX secolo(cfr. Valentini, La formazione del clero..., Lanterianum, vol VIII, n.1, Aprile 2000, p. 47ss).

 

3. Oblati zelanti

Gli Oblati di Maria Vergine, come scrive il Lanteri, sono:  “una pia unione di ecclesiastici pienamente consacrati a Maria Vergine e uniti tra di loro con il vincolo della carità, al fine di attendere con la grazia divina, sotto la materna protezione di Maria Santissima, seriamente e avanti ogni cosa alla salute e santificazione di se stessi con imitare Gesù Cristo più da vicino, e in secondo luogo alla salute e santificazione del prossimo, principalmente con il mezzo degli Esercizi di sant’Ignazio”. 

Secondo il Lanteri, l’oblato doveva essere un uomo di profonda e sentita vita interiore per rendersi abile e zelante apostolo imitando Cristo che è «il Missionario adorabile che il Padre eterno ha inviato agli uomini». Per l’oblato è quindi “il puro amore di Dio e il puro zelo della salute delle anime” a motivare il suo ministero. Esso è tale:

“che conduce ed induce i membri della Congregazione a non risparmiarsi in modo alcuno, soprattutto in tempo di santi Esercizi, ed a superare ancora tutte le difficoltà che s’incontrano, le quali talvolta non sono piccole”.

Nel Direttorio il Lanteri insistette sulla necessità di cercare modalità che portino al raggiungimento della salvezza delle anime. A tale scopo, l’oblato dovrà liberarsi da tutto ciò che può rappresentare un impedimento, come l’attaccamento alle ricchezze terrene: “Gli Oblati di Maria Santissima sono solleciti di attendere a distaccare il più che possono il loro cuore dai beni di questa terra […] e consacrarsi senza riserva al servizio di Dio e del prossimo...”.

Se nelle proprie case religiose il Lanteri voleva che gli oblati, negli intervalli tra un ministero e l’altro, attendessero all’orazione e allo studio, nell’esercizio del loro ministero voleva che fossero “come tanti apostoli che desiderano di essere nel numero di coloro che hanno votato la loro vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo (At 15,16)”.

Il ven. Lanteri accoglieva negli Oblati solo quelle persone che desiderassero: “la maggior gloria di Dio e la maggior salute delle anime”. Non per nulla in un altro scritto chiede espressamente di verificare nel candidato le disposizioni per essere accettato in Congregazione, la prima delle quali è: “volontà seria di farsi santo”, a cui segue poi “lo spirito di obbedienza, di convivenza, di ritiratezza... talento sufficiente o per dare gli Esercizi o per attendere alle confessioni.

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05 Settembre 2024

La pedagogia ignaziana

lanteri esercizi

 

 

1.  La pedagogia ignaziana  nella vita spirituale del Lanteri

Se leggiamo il Direttorio spirituale (che è probabilmente il frutto di un prolungato corso di esercizi spirituali) subito ci accorgiamo che fin da giovane il Lanteri ha strutturato la sua vita spirituale secondo la pedagogia ignaziana.

 

1.1. La meditazione

Era ben curata. Il Lanteri applicava fedelmente le varie indicazioni che S. Ignazio propone all’esercitante nei suoi esercizi per disporsi meglio alla preghiera.

«1. Prevedere il giorno avanti i punti ed il frutto, e rammentarsene svegliato, per non tentare Dio al tempo dell’orazione.

2. Giunta l’ora prefissa, procurare di essere tranquillo e raccolto, dimenticandosi delle creature per entrare come si deve in commercio con Dio, e di schivare i difetti della meditazione precedente. Quindi 2 passi lontano dall’Oratorio il segno della S. Croce. Profondo inchino con atto di fede della presenza di Dio, unico mio scopo che mi vede, mi ascolta, e premuroso del mio bene mi vuol parlare, considerandone il suo essere bontà e bellezza, e con atto di adorazione alla Santissima Trinità, o a Gesù Cristo. […] 1° preludio secondo la materia; 2° chiedere l’assistenza dello Spirito Santo...e grazia di ricavarne il frutto prefisso, ed il tutto in 2 o 3 minuti»[1].

Anche nello svolgimento della sua meditazione, Lanteri è prettamente ignaziano:

«4. Proporre la materia, atto di fede, esaminarla con autorità di Scrittura e Santi Padri, con la ragione, con similitudini ed esempi, dilucidarla, e trarne le conseguenze certe.

5. Produrre affetti, risoluzioni, proponimenti massime particolari e riguardanti le pratiche già proposte, e questo in ciascun punto.

6. Ringraziare Dio dei lumi, Confirma etc., la supplica del Pater, Sub tuum etc.»[2].

Nella conclusione stessa della meditazione, il Lanteri continua a seguire il metodo ignaziano con il suo tipico esame dell’orazione:

«7. Un’occhiata ai difetti occorsi con proposito di rimediarvi, un’occhiata ai lumi, risoluzioni, occasioni di praticarle, altrimenti procurarne atti interni od esterni.

I difetti sono distrazioni, tedio, aridità, desolazione; la causa difetto di preparazione, o applicazione e riverenza, esser troppo attaccato ai propri lumi oppure antecedentemente libertà di conversare, parlare cose vane, affetti, sollecitudini temporali»[3].

Pio Bruno si propose di raccogliere le ispirazioni che sentiva più forti nell’orazione in un piccolo quaderno tascabile: «[Propongo di] Ridurre le mie massime e il metodo dei miei esercizi spirituali in un librettino portatile»[4]. La funzione di questo “librettino portatile” era duplice: infatti serviva al Lanteri (che, tra l’altro, conserverà quest’abitudine anche da anziano) per ravvivarsi spiritualmente in quella grazia particolare che gli aveva toccato il cuore attraverso quel determinato pensiero o quella Parola di Dio meditata; in secondo luogo gli era molto utile anche per il confronto con il suo direttore spirituale cui egli rimetteva ogni giudizio con voto di ubbidienza.

 

1.2. Gli esami di consapevolezza

La mancanza di consapevolezza spirituale è per il Lanteri la radice di ogni impoverimento spirituale, di ogni fallimento morale significativo e prolungato. Alla scuola di Ignazio fin da giovane il Lanteri imparò la fedeltà alla pratica degli esami di coscienza particolare, generale, e quello relativo alla propria esperienza di preghiera. Destinava un giorno al mese per un ritiro personale e frequentemente uno spazio di parecchie ore alla settimana per rivedere le sue attività e per determinare come impiegare con crescente efficacia le sue energie apostoliche.

I suoi scritti personali abbondano di riferimenti agli esami ignaziani. Per esempio, in un librettino portatile del 1782 si propone:

«– Per l’esame generale: il male, il bene, e quanto ben fatto.

– Ricordati dell’esame in fin della meditazione. […]

– Una mortificazione la mattina e la sera a tavola.

– Cercare occasioni per l’esercizio della virtù particolare.

– Esame mattina e sera; paragonare i giorni e le settimane; per ciò notarne il numero in carte con lapis. Significarne al direttore gli atti».

Circa dieci anni dopo, al termine di un corso di esercizi, si propone i seguenti rimedi:

«Provarsi sovente fra il giorno, cioè con frequenti esami se veramente:

– amo Dio sopra ogni cosa;

– amo il prossimo come me stesso;

– e se attendo seriamente all’abnegazione di me medesimo.

Quindi concepire: un santo impegno a contrariarmi e praticare la virtù nelle occasioni per formarne l’abito, un distacco e disprezzo delle cose puramente temporali, indegne dell’affezione del mio cuore, una santa ostinazione a trattare santamente le cose sante».

Per questo dovrà tenere viva l’attenzione nell’azione: «Nell’esame cercherò se ho cominciate, continuate, finite le mie azioni per passione o per ragione o per fede, se si è accompagnata la negligenza».

Sembra certo che l’accidia o pigrizia spirituale fosse ciò che il Lanteri sentiva come uno dei maggiori ostacoli nel suo cammino di santità. Individuato il nemico il Lanteri passa all’attacco: «Se io la prendo solo sotto l’aspetto di mortificarmi, questo è come uno stato violento che non dura, conviene che lo prenda (come l’esperienza me lo comprovò) sotto l’aspetto di libertà di spirito, di generosità d’animo, e per procurarmi più efficacemente questa virtù, non trovo miglior mezzo che il prefiggermi di cercare in tutto la maggior gloria di Dio…».

Interessante la sua strategia: no ad un attacco sotto l’insegna della mortificazione frustrante, perché questa provoca “uno stato violento che non dura”. Qui il Lanteri dimostra acume psicologico e spirituale non indifferente. Una lotta intrapresa all’insegna di una spinta o motivazione positiva (qualcosa di buono o migliore da acquisire), ha più presa nell’animo e possibilità di durata nel tempo che la stessa lotta intrapresa per una motivazione negativa (qualcosa di non buono da togliersi). In altre parole è più entusiasmante e facile lottare per acquistare una virtù, che per togliersi un difetto, e poiché la lotta è la stessa, ne segue che è più facile eliminare i difetti lavorando sulle virtù contrarie (per questo il Lanteri pianificherà la sua lotta all’accidia impegnandosi maggiormente per la gloria di Dio):

«[…] esaminandomi sovente se quel che faccio è il meglio che possa fare per glorificar Dio, e se lo faccio nel miglior modo possibile, sempre con Gesù Cristo per esemplare, così mi rendo superiore a me stesso e trovo un motivo nobile ed efficace per disprezzare i miei comodi o altro fine umano nell’agire che sono gli impedimenti dell’applicazione, essendo sempre venuti i miei difetti o dal timore d’incomodarmi o di essere disprezzato».

 

1.3. L’ascesi

Già da giovane chierico il Lanteri faceva proprio sul serio con il suo Dio, sapeva quello che cercava e lo cercava con tutto se stesso, giocando tutto per Dio, impegnandosi nel modo più assoluto e radicale consentito nel suo stato di vita, anche con la mortificazione esterna.

Quella interna attuata attraverso il suo severissimo programma di impegni che prevedeva una lotta continua all’ozio e alla dissipazione: così si esprime nel suo Direttorio Spirituale: «Non debbo mangiare e dormire che quando e quanto bisogna per vivere; non vivo che per gloria di Dio” e perciò “via ogni pensiero inutile».

Riguardo la mortificazione esterna (sempre intesa come strumento sia per «vincere se stesso» sia per «ottenere qualche grazia o dono che si vuole o si desidera».

Da alcuni fogli di annotazioni spirituali vediamo anche l’aspetto ascetico della lotta al proprio difetto predominante (l’accidia) quale mezzo per realizzare la santità, che il giovane Lanteri si prefigge di condurre in una triplice direzione: contro il rispetto umano, contro lo scoraggiamento, contro la negligenza nelle proprie pratiche di pietà.

a) La lotta contro il rispetto umano.

«1 – Sempre pensare, parlare e operare da santo: il mio stato lo richiede e le ragioni che mossero i santi sussistono anche per me. Perciò sempre apertamente e liberamente mi dichiarerò dalla parte di Dio, mi pregierò a faccia scoperta di essere buon cristiano e vero ministro di Dio.

Se sarò burlato e deriso dagli uomini, sarò onorato da Dio; anzi m’intenderò di essere tenuto per grande del suo regno, giacché si degna di pormi in capo la Sua stessa corona: mezzo ottimo, questo, per vincere i rispetti umani».

Al primo posto quindi vediamo quindi l’impegno del Lanteri nella lotta contro il rispetto umano, contro la timidezza spirituale che blocca la libertà della persona di manifestarsi quale essa è per la paura di essere derisa e criticata. Si tratta di raggiungere la piena libertà di spirito nelle relazioni con gli altri, instaurando con tutti relazioni cordiali, affabili, semplici, allegre, ma soprattutto libere, cioè libere dalla paura di dire o fare qualcosa che possa contrariare l’altro, manifestandosi serenamente per quello che si è. Sempre pronti ad accondiscendere all’altro per amore, purché venga rispettata la verità e l’onore di Dio.

b) La negligenza nelle pratiche di pietà. Il secondo campo della lotta spirituale è, per il giovane Lanteri, la costanza, la fedeltà nel fare gli esercizi di pietà:

«2 – Quindi sempre inviolabilmente fedele a Dio e costante nei miei soliti esercizi di pietà e a qualunque prova. Perciò: 1o anche di fronte a qualunque persona autorevole, in qualunque circostanza o avversità, praticherò la generosità di animo, la libertà e tranquillità di cuore».

Tutta la cura e l’attenzione che emerge nei suoi scritti giovanili nel tenersi sotto controllo per evitare il vizio della negligenza denota l’importanza che egli dava alla virtù della diligenza e della costanza nel portare avanti il programma personale di santificazione con tutto quanto fissato su consiglio del direttore spirituale. No, il Lanteri non era spontaneamente diligente e metodico, lo era diventato con l’aiuto della grazia divina e il suo incessante impegno a tenersi sotto controllo (non perché egli fosse negligente e incostante, ma perché molto probabilmente ne sentiva la forza di seduzione interiore, la tentazione di esserlo).

c) La lotta contro lo scoraggiamento che doveva aver molto provato il giovane Lanteri sia per quanto riguarda il suo desiderio di portare a termine gli studi, lottando contro una salute malferma e un’infiammazione oftalmica che rendeva lo studio faticosissimo, sia per quanto riguarda il suo rapporto con la propria fragilità umana, sia – infine – per il persistere delle tentazioni nei confronti delle quali ricorre ad una strategia per vincerle.

 

1.4. La direzione spirituale

Nel 1779 il giovane Lanteri, studente di teologia, venne a contatto con il Diesbach, rivolgendosi a lui per la direzione spirituale. La direzione spirituale di Diesbach ebbe un effetto decisivo nell’orientamento spirituale del Lanteri. Dopo la partenza del Diesbach per la capitale austriaca purtroppo non conosciamo l’identità di chi il Lanteri scelse come direttore. Sappiamo comunque che egli si lasciava docilmente guidare da un sacerdote a cui, come afferma il Gastaldi, «era interamente aperto e soggetto». Nel Direttorio spirituale vediamo l’importanza che il Lanteri attribuiva a tale apertura quando parla delle armi contro le tentazioni: «Manifestare tutte le tentazioni al Padre spirituale, e si vedono effetti miracolosi e prestissimi, cagionati dall’efficacia di quell’atto d’umiltà e il demonio fa ogni sforzo per disturbarci, disse anche lo Spirito Santo: Guai a chi è solo, perché se cade non ha chi gli porga la mano per levarsi in piedi».

 

2. La pedagogia ignaziana  nella direzione spirituale del Lanteri

Sfogliando le lettere di direzione spirituale del Lanteri possiamo ritrovare la presenza della pedagogia ignaziana tra i vari consigli spirituali che aveva attinto dai grandi maestri della vita spirituale. Tutto dev’essere fatto con ordine e metodo. È questo uno dei punti sui quali il Lanteri insisteva: ordine e metodo sia nell’agire (ordine delle principali azioni della giornata) sia nella vita spirituale. Tutto ciò in accordo con i doveri della persona verso la famiglia e il lavoro.

«E’ assolutamente necessario ben impiegare il tempo e santificare le nostre azioni. Ma come è possibile riuscirci? E’ con l’ordine che impieghiamo bene il tempo, e con il metodo, e lo spirito interiore (intenzione pura e fervore), e la vita interiore che santifichiamo le nostre intenzioni.

Occorre dunque 1) fissare un certo regolamento d’orario per le azioni principali... non mancando ad osservarlo per leggerezza o per ripugnanza se non per una valida ragione (per ragioni di obbedienza, di carità), e nella pratica preferire sempre le azioni più importanti verso gli altri, e quelle d’obbligo rispetto a quelle supererogatorie.

Occorre 2) procurarsi una vita interiore con una buona pratica di pietà, ma ben fatta, con metodo, come la Santa messa, la meditazione, la lettura spirituale, l’esame di coscienza».

Il Lanteri è convinto, con sant’Ignazio e gli altri maestri di vita spirituale, che solo da un’orazione metodica si può ricavare qualche frutto concreto. Per la meditazione e gli esami di coscienza il Lanteri indica sempre il metodo ignaziano. Accanto ad essi troviamo indicazioni di metodo per la partecipazione alla Santa messa e per la lettura spirituale.

Per quanto riguarda al fedeltà, in una lettera di direzione spirituale a Pietro Leopoldo Ricasoli il Lanteri esorta: «Io non potrò mai per questo abbastanza raccomandarle la meditazione quotidiana delle massime sante di nostra Religione, ma fatta con vero impegno e con affetto, e proseguita con una santa ostinazione, e sempre, per quanto si può, in una data ora fissa del giorno. Gioverà poi molto a facilitarle un tale esercizio la lettura spirituale fatta ogni giorno tranquillamente sopra i libri scelti di pietà».

Ad una dama penitente raccomanda: «Fare gran caso della fedeltà negli esercizi di pietà, guardarsi da quel tacito disprezzo con cui si dice che non importa lasciare la meditazione, o la lettura, o l’esame etc., ora per compiacere agli uomini, ora per qualche occupazione o indisposizione. Sanno i demoni che se non tagliano allo spirito questi capelli, mai non potranno legare questo Sansone».

E, a Suor Crocifissa Bracchetto circa la fedeltà alla meditazione scrive: «Cominciarla con desiderio ed amore. Non lasciarla mai, né diminuirla per noia, o distrazione. Vale più un’oncia di orazione fatta con pazienza, che mille libbre d’orazione con fervore sensibile».

Per quanto riguarda l’importanza degli esami (particolare e generale), così il Lanteri raccomanda ad una religiosa:

«Nell’ora del Vespro, procuri di fare il suo esame particolare sopra l’acquisto di qualche virtù, o l’emendazione di qualche difetto; essendo che la persona spirituale deve sempre avere in vista qualche nuovo acquisto di virtù, per cui deve ordinare il suo esame particolare ed il frutto di sue meditazioni e comunioni. Io molto le raccomando la pratica di questo esame, acciò l’anima sua non divenga simile alla vigna dell’uomo pigro, della quale dice il Savio che passò per essa, e vide che la siepe d’intorno era caduta e che ogni cosa era piena d’ortiche e di spine, onde, affinché l’anima sua non cada in così misero stato, sia molto sollecita di valersi di questo mezzo, né mai desistere, né perdersi d’animo per le difficoltà...».

La invita anche a non trascurare il ritiro mensile:

«Un altro mezzo le propongo per tenersi stabile nella strada della perfezione, ed è il fare ogni mese un giorno di ritiro, e vorrei che lo facesse con tutto l’impegno, come fa ora nel noviziato. Si guardi di lasciarsi entrare in capo quell’inganno che per trovarsi in un officio, in cui non può avere un giorno tutto libero per potervi attendere, sia meglio non lo fare; questo è un consiglio della tiepidezza che induce con vani pretesti a non fare nulla, perché non si può fare tutto. Ma come si vede chiaro che male la discorrerebbe chi, per non poter fare un pranzo di mezz’ora, lasciasse di farlo di un quarto, e si rimanesse tutto il giorno digiuno, così può facilmente scorgersi l’insussistenza di questa scusa; onde non la pensi così, ma lo faccia al meglio che può, e sempre lo faccia, benché non avesse tempo che di fare una sola meditazione ed un esame sopra lo scorso mese».

In una lettera ad una signora – con chiaro riferimento alle regole ignaziane sul discernimento degli spiriti - il Lanteri spiega che una tristezza buona in seguito ad una caduta viene da Dio, mentre una tristezza cattiva viene dalla superbia.

«Dobbiamo guardarci più che mai dopo la caduta degli effetti della superbia. Anche la superbia sa pentirsi dei mancamenti e con grande pentimento, e tale che induce talvolta a una durissima penitenza, fino alla disperazione, poiché non può soffrire la vista dei suoi peccati, non tanto per il dispiacere di aver offeso Dio, quanto per vedersi difettoso. Ora a questo cattivo dolore e pentimento si deve gagliarda resistenza, perché cagiona nell’anima una tristezza inutile che non nasce da Dio, né per Dio, ma dalla propria presunzione e dal non conoscere l’uomo la propria fiacchezza e miseria, e in questo tempo che perde, dolendosi inutilmente, commette maggior colpa di quella per cui si duole...».

Non mancano inoltre nelle lettere gli inviti al combattimento del difetto predominante. Ad esempio ad  una dama penitente il Lanteri suggerisce: «Mi guarderò dall’ozio, come fonte di ogni male, e sempre mi terrò occupata nel lavorare, o nel leggere, o nel pregare...; farò sempre tutto con grande volontà, e per Dio, e anche le cose piccole avranno grande peso».

Per quanto poi riguarda l’importanza dell’apertura del cuore alla guida spirituale, così raccomanda alla medesima: «Manifestare tutte le tentazioni al Padre spirituale: è indicibile il bene che se ne ricava, 1) per l’atto di umiltà; 2) per i lumi che si ricevono; 3) per la riformazione, o perseveranza della nostra condotta».

 

3. Gli esercizi spirituali come efficace mezzo apostolico

Guardando al suo mondo con occhio di fede, e pieno di una tale sollecitudine per la salvezza della persona umana, il Lanteri coglie con forza e con dolore il divario grande che esiste sovente tra ciò che si crede e ciò che si vive. Gli uomini e le donne della sua società in genere sono cristiani, hanno ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana e si dicono seguaci della dottrina di Cristo. Però, nel concreto, dato un ambiente sociale sempre più alieno dai valori di questa fede, molti sono portati quasi insensibilmente a giudicare, a scegliere, a orientarsi in base a criteri diversi da quelli evangelici.

Il Lanteri, guidato dallo Spirito a sentire fortemente l’esigenza, nella Chiesa, di un mezzo pratico, accessibile alla gente di tutte le condizioni sociali, ed efficace, per aiutare tutti a far «far rivivere la fede, e riformare i costumi»[34], sceglie – anche in forza della propria esperienza spirituale – gli esercizi spirituali.

«... gli esercizi di S. Ignazio non consistono solamente nel passare alcuni giorni nella quiete dell’orazione, e nell’impiegare maggior tempo per attendere a Dio solo ed all’anima sola, ma consistono nel meditare una serie di verità, non comunque una dopo l’altra, ma una in conseguenza dell’altra, le quali unite con ordine

- presentano all’intelletto un’istruzione adattata, a ciascuno, e come completa di quanto si ha principalmente da credere ed operare verso Dio, il prossimo, e se stesso, e una vera fonte di verità e miniera inesauribile di sapienza divina;

- e presentano alla volontà, quanto al passato, una macchina potentissima per espugnare il cuore, ed un metodo efficacissimo per purgare l’anima dalle ree affezioni con farle conoscere, piangere e confessare; quanto al presente, una scienza pratica per avanzarsi con l’imitazione delle virtù quotidiana ed eroiche di Gesù, e un metodo canonico, ossia approvato dalla Chiesa per santificarsi grandemente; quanto all’avvenire, un piano di riforma interna ed esterna che dura.

Insomma gli Esercizi di S. Ignazio sono, in genere, uno strumento potentissimo della Divina Grazia per la riforma universale del mondo, ed in particolare, un metodo sicuro per ciascuno di farsi santo, gran santo, e presto».

Ecco un altro brano nel quale il Lanteri descrive l’efficacia degli esercizi in ordine alla santificazione:

Cos’è farsi santo? È distruggere l’uomo vecchio e vestire l’uomo nuovo...; si debbono dunque lavare le macchie del peccato; si deve ristabilire la somiglianza, l’immagine di Dio, la quale consiste non nel somigliargli nell’onnipotenza, Sapienza, immensità, ma nella santità, cioè nel rendersi modello delle sue virtù...

- Essere santo vuol dire, quanto alla memoria [36], dimenticarsi di tutto il creato e non occuparsi che di Dio, trovare Dio in tutti gli avvenimenti, vedere Dio in tutte le cose, riferire tutto a Dio, essere sempre fisso in Dio, rassomigliare così a Dio stesso che sempre si occupa di se stesso, si compiace di se stesso, è beato di se stesso.

- Essere santo vuol dire, quanto all’intelletto, disprezzare tutte le cose terrene, stimare solo le eterne per venire così a stimare niente, disprezzare niente altro che ciò che stima o apprezza Dio stesso, e uniformare così i nostri giudizi con quelli di Dio, i quali soli sono giusti ed infallibili.

- Farsi santo vuol dire, quanto alla volontà, raddrizzare i suoi desideri e timori, cioè non desiderare né temere che l’eterno; non essere soggetto alle sue prave inclinazioni che fanno che l’uomo desideri o tema ciò che non deve né desiderare né temere, per essere inoltre [pronto a] tenere lontano dal cuore ogni perturbazione o mutazione, essendone la causa di queste il desiderio o il timore di cose terrene, e così venire ad avere un cuore quieto, tranquillo e immutabile... Ora tutto ciò si opera nei S. Esercizi.

Più ancora farsi gran Santo vuol dire essere disposto a praticare sempre nelle occasioni, atti eroici di fede, di speranza, di carità verso Dio, verso il prossimo, avere sempre per fine del suo pensare, parlare, operare la Maggior Gloria di Dio. Ora anche a questo ci portano i Santi Esercizi. [...]

Dunque lo scopo di questi Esercizi si è farci Santi, gran Santi e presto; e noi dobbiamo corrispondervi perché Dio lo merita, la vocazione lo esige, il mondo ne abbisogna e vi entra il nostro interesse.  [...] Chi ci può essere utile fuori di lui fonte e sola fonte d’ogni bene? È ingratitudine enorme dunque non farsi santo».

Il Lanteri è entusiasta degli Esercizi ignaziani: «non essendovi al mondo cosa così interessante quanto il poter passare tranquillamente alcuni giorni unicamente occupati dai grandi oggetti, Dio, Anima, Eternità»[38], è convinto che «gli Esercizi di S. Ignazio meritamente si possono preferire a qualunque altro genere di predicazione... L’esperienza dimostra quanto siano stati benedetti dal Signore, atteso il grandissimo frutto che se ne vede, sempre che si danno e si fanno come si deve»,

 trovando quindi negli stessi Esercizi «il fine essenziale» del suo carisma apostolico: «Gli Esercizi si daranno esattamente secondo il metodo insegnato da S. Ignazio. Gli Oblati di Maria Santissima vi si consacreranno con tutto l’impegno possibile, usando tutte le avvertenze proposte dal santo Autore, e le industrie suggerite dall’esperienza, e perciò ne faranno uno studio particolare e consulteranno chi ne ha l’esperienza».

Non a caso nelle Costituzioni degli Oblati di Maria Vergine al primo posto della loro missione ecclesiale vengono indicati gli esercizi: «attendono, con tutto l’impegno, alla santificazione del popolo di Dio, principalmente col guidare gli Esercizi Spirituali e col promuoverne la pratica il più possibile, sia in pubblico sotto forma di missioni popolari, secondo la genuina tradizione lanteriana, sia in privato, preferendo lo spirito e il metodo proposto da S. Ignazio».

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san pietro basilica

 

1.  «La mia dottrina non è mia,  ma di colui che mi ha mandato» (Gv 7,16)

Con queste parole, Cristo, nello svolgere la sua missione di profeta, esprime la sua fedele adesione al Padre che lo ha mandato e che egli ama. Sono parole che rivelano al Lanteri un atteggiamento profondo del cuore di Cristo che egli vuole ricopiare nel proprio spirito e nella propria prassi. Di qui il suo amore e la sua piena adesione alla Chiesa, dalla quale egli si sente mandato nel suo ministero apostolico. Vuole seguire in tutto le decisioni della Chiesa.

«Il ministro della parola di Dio deve poter dire sempre ai suoi auditori con il Divino Maestro: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato” (Gv 7,16), cioè della Chiesa. Deve egli insomma essere banditore sincero di non altro che delle decisioni della Chiesa sui dogmi della Fede, o sui precetti di morale; altrimenti facendo, esce fuori delle missione, e falsamente pretende di parlare a nome della Chiesa, dicendo ciò che essa non ha mai detto».

Il Lanteri si accorse come in Piemonte venissero insegnati i principi di Richer, Van Espen, Febronio, Eineccio e Genovesi, mediante la libera circolazione di testi che facevano male alla Chiesa, alla fede e al buon costume. Rimase perplesso dell’atteggiamento di alcuni ecclesiastici e sul modo con cui cercavano di imporre le loro opinioni, causando mala fede o ignoranza. Si accorse anche che vi erano prelati che supponevano che le Costituzioni pontificie, soprattutto quelle contro il giansenismo, fossero abbastanza conosciute, «ciò che purtroppo non è».

Toccato al vivo vedendo come si propagavano ampiamente nel suo mondo gli errori «massime degli increduli, e dei novatori in dogmatica e morale», il Lanteri sentì «quanto grande sia l’obbligo di obbedire ad ogni decisione e precetto del Capo universale della Chiesa e professare e difendere la dottrina della Chiesa Romana», e «il danno che può cagionare un solo principio falso in materia di Religione».

I testimoni della sua vita, riconoscono nel Lanteri l’energia con la quale si è dedicato a sostenere la verità insegnata dalla Chiesa. Solo il suo amore per la Chiesa e l’apprezzamento per il suo ruolo insostituibile di maestra, spiega l’energia con la quale include nel suo progetto apostolico il proposito di «combattere fortemente ogni errore dalla Chiesa proscritto, e a difendere anche a costo della propria vita qualunque verità cattolica e decisione e ordinazione della Santa Sede».

 

2. Principi che si erano fatti strada

Il Lanteri oltre ad aver dedicato parte del suo tempo allo studio degli errori correnti in materia di fede e di costumi fu anche molto attento alle correnti di pensiero che venivano a minacciare i fondamenti della fede cristiana. Ecco quali erano i principi che in quel tempo si erano fatti strada.

2.1. Ragionare sulla religione

I principi di Rousseau, di Condillac, di Diderot, dei "filosofi" e dei politici, che avevano causato le rivoluzioni, si fecero strada, tanto da essere creduti da persone ben pensanti.

«S’insinua d’assuefare fin da principio i fan­ciulli a ragionare sulla Religione, piuttosto che a credere all’autorità, come general­mente parlando più si conviene a tutti i fe­deli e tanto più ai fanciulli, eccetto che si vogliano alleviare secondo le massime di Rousseau».

Più che ad appoggiarsi ad una auto­rità esterna, ad una morale di tipo ete­ronomo, si spingeva l’individuo ad a­vere come unico riferimento la propria ragione per una morale autonoma.

In questo clima culturale il Lan­teri manifestò una particolare preoccu­pazione per i giovani: «oltre la disobbedienza alla Chiesa e il di­sprezzo dell’Ecclesiastica Autorità, che trae sempre seco il disprezzo dell’Autorità civile, si fanno lecito ancora di leggere senza scrupolo qualunque altro libro proi­bito, e così resta loro aperta la strada d’infettarsi in ogni genere di vizi ed anche di macchinare e di tentare tutto contro la Religione e il Trono».

2.2. L’idolo dell’opinione

Lanteri notò come gradualmente si stesse mettendo da parte l’autorità re­ligiosa e civile, per sostituirla con l’opinione pubblica.

L’idolo dell’opinione fu il principio della Rivoluzione di Francia. Antonio Genovesi aveva colto que­sto, tanto che asserì: «il Signor dell’opinione è il Sovrano dello Stato, governandosi i popoli più per l’opinione che per la forza delle Ar­mi».

Lo stesso Genovesi, evidenziando l’utilità che derivava al sovrano dal prendere in mano le scuole levandole agli ecclesiastici, affermò: «Le grandi opinioni nascono nella scuola e si diffondono nel popolo. In questa scuo­la si forma il prete, il frate e da questi è sparsa e conservata ogni opinione ... con cinque ovvero sei collegi turchi in capo a tre età non si avrebbe che una città turca».

Si comprende, considerando quest’aspetto, tutta l’azione di Lan­teri a favore degli universitari, della stampa e della diffusione dei libri, contro le strumentalizzazioni dell’opinione pubblica, che spesso al­lontanavano dalla verità e dall’autorità.

Lanteri fu fermamente convinto che «per il credere come per l’operare» ci si deve formare «su principi certi e non sopra opinioni, che non sono mai state la dottrina della Chiesa, la quale appoggia sempre sul solo certo». Lanteri volle che fosse sua guida la verità: «non voglio che questa per guida e non mai l’opinione».

2.3. La libertà di coscienza

Ciò che caratterizza il XIX sec. fu infine la ricerca dell’indipendenza e del riconoscimento della libertà di coscienza. Nell’Enciclopedia si dipinse un uomo che nasce con una libertà senza limiti e che si dà da sé un ordine in una cornice relativa. Non sarebbe quindi Dio ad avere iscritto un ordine nell’uomo (la legge naturale). Di conseguenza l’uomo porta dentro di sé la relatività e non l’eternità.

 

3.  L’attività del Lanteri nel contesto storica degli anni 1798-1814

È in questo periodo storico che certamente più risalta la fedeltà e l’amore del Lanteri per la Chiesa. Il dominio francese, infatti, attaccò apertamente la Chiesa di Roma e chiunque difendesse il legame ecclesiastico con Roma. Il concordato del 1802 tra la Santa Sede e Napoleone migliorò lievemente la situazione della Chiesa in Europa, anche se la sua libertà era apparente e sempre sotto la minaccia dello scisma nazionalista. Nel 1806 si arriverà pure a istituire per il 15 agosto una festa in onore di un san Napoleone mai esistito e si promulgano catechismi imperiali.

In questo clima tempestoso attraverso le “Amicizie” il Lanteri provvide a diffondere opuscoli e libri che difendevano l’autorità del Santo Padre e il suo primato e altri che diffondevano la sana dottrina morale di S. Alfonso confutando vari errori diffusi dagli illuministi del tempo. Instancabile era la sua attività di lettura e di informazione su quanto si stampava a livello europeo, come sentinella della verità, pronto a segnalare e refutare l’errore, cosa nella quale era un maestro impareggiabile:

«Ed in ciò non si poteva desiderare più abile maestro; poiché esso aveva logorata col leggere la vista, e la sanità, e leggeva con sì profondo criterio, che a prima giunta, ed a pochi tratti conosceva non tanto lo scritto, quanto lo spirito dello scrittore; nemmeno leggeva solo di passaggio, ma con serbar impresso talmente il giudizio di ciascuna dottrina, che di moltissimi autori teologici, ascetici, polemici, o morali che fossero, ben sapeva accennare in qual argomento, e per qual capo il tale o tal’altro avesse detto meglio, e quale in una materia, quale in un’altra dovesse preferirsi».

Il Lanteri stesso scrisse diversi opuscoli polemici che furono diffusi dalle “Amicizie”. Oltre tutto provvide a diffondere quanto più poteva vari documenti magisteriali e altri scritti teologici che confermavano la santa dottrina del primato del Santo Padre nella Chiesa universale:

«Dirò circa la fede, che premeva sempre nell’inculcare l’unione colla Chiesa Romana, al quale intendimento divulgò quanto poté la raccolta delle migliori pastorali de’ Vescovi di Francia contro la scismatica Costituzione civile del Clero, e quelle, in cui si spiegavano i caratteri dell’ubbidienza di cuore e universale dovuta alla Santa Romana Sede; gli scritti dell’Abate Barruel contro lo scisma, i Brevi del Sommo Pontefice Pio VI e la Bolla Autorem Fidei, di cui ne procurò e distribuì molte copie. Quando poi in quell’epoca infelice s’insegnavano le quattro proposizioni contenute nella supposta difesa della dichiarazione del Clero gallicano, vi si oppose con un’edizione dell’opera del Ballerini De vi et ratione Primatus Rom. Pontificis, di cui me ne regalò una copia: divulgò la Conclusione teologica d’Onorato Tournely portante che l’unione colla Sede di Pietro, vale a dire col Romano Pontefice sia «de necessitate salutis», e che il Papa sia infallibile nelle sue decisioni dottrinali».

Il Lanteri oltre a difendere con la penna, con la carta e con la parola il Santo Padre e il suo magistero, si diede anche da fare per sovvenire direttamente alle necessità del Papai nella sua relegazione savonese. Napoleone, come è noto, aveva fatto sì che il Papa venisse a trovarsi nel più completo isolamento morale: né persone né cose potevano giungere a lui se non attraverso il più rigoroso controllo della polizia. Ora fu proprio il Lanteri che si preoccupò di formare a Torino una specie di comitato segretissimo per venire incontro al Sommo Pontefice, sia con somme pecuniarie, sia col fargli pervenire, nella maniera più segreta, documenti e notizie che potessero essergli utili in una situazione tanto dolorosa e angustiata.

Venendo a sapere  che Pio VII desiderava avere gli atti del Concilio Ecumenico di Lione, allo scopo di dimostrare a Napoleone le infondatezze delle sue pretese, il Lanteri  trascrisse subito quegli atti e li affidò al coraggioso Cavaliere d’Agliano; il quale essendo riuscito ad ottenere finalmente una udienza del Papa, mentre si prostrava al bacio del sacro piede, lasciò scivolare il fascicolo fra le pieghe della bianca veste del Santo Padre, il quale poté effettivamente servirsene.

Durante questo periodo, in seguito alla chiusura delle “fabbriche” ordinata dall’autorità occupante, il Lanteri decide di adibire a questo uso della sua proprietà La Grangia per dare gli esercizi spirituale e formare – anche tramite corrispondenza epistolare - le coscienze.

 

4. Sentire con la Chiesa

Per il Lanteri e per gli Oblati il “sentire con la Chiesa” significa «professare un’intera, sincera, ed inviolabile obbedienza all’autorità» della Santa Sede, ed un «attaccamento intero» al suo insegnamento. Una fedeltà che dev’essere capace di quello spirito di tolleranza che essa ha e che forma «uno dei suoi pregi»: «la facoltà di tollerare dei figli rivoltosi nell’atto stesso che solamente disapprova qualche dottrina: facoltà preziosa al materno suo cuore, finché Ella milita tra i Viatori e necessaria a chi “non è venuto per perdere anime, ma a salvare” (cfr. Gv 12,47)».

Questo Lanteri lo dimostrò in occasione dell’approvazione a Roma degli Oblati. Nonostante la sua avversione al gallicanesimo, non fu d’accordo con mons. Marchetti ad andare all’eccesso:

«Il sentire con Roma in generale vuol dire tenere per meglio, per certo, per probabile, per tollerabile quello che tale si giudichi dalla Santa Sede. Ora gli Oblati s’impegnano a sentire con Roma; dunque s’impegnano a tenere per tollerabile ciò che dalla Santa Sede si tollera».

La Chiesa avvisa per tempo ciò che è dottrina definita, ciò che è condanna o che disapprova. Lanteri insiste a sentire «in omnibus con Essa». Questo vuol dire che: «disapprovando a suo esempio quelli che sono restii, li tollereremo finché la Chiesa li tollera, né giudica ancora di cacciarli di casa. [...] dunque per sentire in omnibus con la Chiesa Cattolica bisogna riprovare le loro proposizioni come le riprova la Chiesa, e tollerare gli individui che le professano come e finché li tollera la Chiesa».

In altre parole egli fece sua la frase di Sant’Agostino: «In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas».

 

5. Il giuramento di fedeltà degli Oblati

Nelle attuali Costituzioni gli Oblati all’art. 8 si legge: «Sull’esempio del loro Padre Fondatore gli Oblati professano, come loro caratteristica, un’intera, sincera, ed inviolabile obbedienza all’autorità della S. Sede, ed un attaccamento intiero al suo Magistero.

Espressione di fedeltà al Magistero della Chiesa e di obbedienza al Vicario di Cristo è la professione di fede e il giuramento di vera obbedienza al Romano Pontefice che si rinnova, preferibilmente in comunità, ogni anno nella festa di San Pietro, protettore della Congregazione.

Essendo la Chiesa particolare il luogo in cui gli Oblati vivono ed esprimono il loro impegno apostolico, essi si inseriscono nella pastorale locale, che ha nel Vescovo il primo responsabile e seguono le sue direttive e quelle delle Conferenze Episcopali».

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maria

 

1. Alle radici dell’affidamento del Lanteri a Maria

Forse sembrerà strano, ma alla radice dell’affidamento del Lanteri a Maria – ed è questa la radice che c’è anche in ogni credente – non c’è l’iniziativa personale del singolo, ma il dono pasquale del Maestro che dall’alto della croce ci ha affidati a lei, la Madre, e a lei affida ciascuno di noi. Il Lanteri ha capito questo e ha accolto questo immenso dono. L’affidamento del Lanteri a Maria è dunque la risposta al duplice amore di Cristo che ci affida a Lei e di Lei che ci accoglie come figli nel Figlio.

La radice della spiritualità mariana è proprio in questa risposta-accoglienza di questo dono, che coinvolge tutta la personalità umana e spirituale del discepolo.

Fin da piccolo il Lanteri ha intuito l’importanza di questa risposta al dono che il Cristo ci fa di Maria, e che fa anche personalmente a lui dall’alto della croce, approfondandolo e consolidandolo per tutta la sua vita. Un episodio significativo è certamente quello che segue alla morte della mamma, quando il Lanteri aveva solo quattro anni. Il padre, Pietro, lo guidò molto da vicino, educandolo nella fede.

Dal padre Bruno apprese una tenera devozione alla Madonna. Fu infatti il papà stesso a proporgli Maria come Madre quando, probabilmente nella chiesa di Santa Maria della Pieve presso la tomba dove venne sepolta la moglie Margherita, lo affidò a Maria, affinché gli fungesse da madre. Così un profondo legame di cuore con Maria venne a stabilirsi fin dai primi anni della sua vita in famiglia.

 

2. L’affidamento a Maria

Già dai primissimi anni della sua vita, il Lanteri imparò a vedere nella Vergine Maria sua madre. A lei fu affidato dal padre dopo la morte della propria mamma: «D’ora in poi lei sarà la tua mamma».  Aveva solo quattro anni. Più tardi il Lanteri, quando avrà toccato la sessantina, sovente diceva agli amici: «Per me non c’è stata altra mamma che la Santissima Vergine Maria e io non ho ricevuto altro che carezze e favori da una Madre così buona».

 All’età di ventidue anni il giovane Lanteri, nell’imminenza dell’ordinazione al primo degli ordini maggiori, il suddiaconato, si affidò a Maria.

«Cuneo, il 15 agosto 1781.                                .       
Sappiano tutti coloro nelle mani delle quali capiterà questa mia Scrittura, che io sottoscritto B. [Bruno] mi vendo per schiavo perpetuo della Beata Vergine Maria Nostra Signora con donazione pura, libera, perfetta della mia persona, e di tutti i miei beni acciò ne disponga ella a suo beneplacito come vera, ed assoluta Signora mia. E siccome mi riconosco indegno di una tal grazia prego il mio S. Angelo Custode, S. Giuseppe, S. Teresa, S. Giovanni, S. Ignazio, S. Francesco Saverio, S. Pio, S. Bruno acciò mi ottengano da Maria Santissima che si degni ricevermi tra i suoi schiavi. A conferma di ciò mi sottoscrissi. Pio Bruno Lanteri».

Apparentemente questo atto sembra esprimere un semplice omaggio a Maria, frutto di una devozione fondata poco da un punto di vista teologico, ma solo sentimentale, poiché non vi appare nessun riferimento esplicito a Dio e a Gesù Cristo presente invece nell’atto di schiavitù proposto da S. Luigi Maria De Monfort.

Ma se noi leggiamo anche quanto il Lanteri scrisse poco dopo aver redatto la sua “scrittura di schiavitudine” nel suo Direttorio Spirituale, possiamo cogliere tutta la profondità teologica della sua “scrittura” e la sua intrinseca relazionalità all’onore e alla gloria di Dio:

«Voglio avere un amore tenero verso Maria Vergine e confidenza in lei di figlio a sua Madre, e in grado tale, che mi paia impossibile che mi permetta di essere vinto e perisca in quella battaglia: ricorrerò dunque a Lei come un pulcino si ricovera sotto le ali di sua madre alla voce del nibbio vorace, e dopo l’atto d’amor di Dio dirò: “Monstra te esse matrem etc. Sub tuum præsidium etc. Maria mater gratiæ etc. ”, e ciò farò con quella confidenza che un bambino usa con sua madre domandandole ciò che fa di mestieri con gran sicurezza, come se fosse tenuta a concederglielo, e a lei ricorrendo in tutti i suoi travagli, cosicché resta la madre come obbligata, e ricava quindi motivo di voler più bene al figlio, e se le madri di quaggiù cattive qualche volta, pur non sanno negare niente, che si dirà della Gran Madre di Dio? Mi approfitterò di tutti i meriti, grazie e privilegi di questa mia Signora come chi sa di aver ad essi quel diritto che hanno i figlioli alla madre... Unirò i miei atti di fede, speranza, carità ai meriti di mia Madre, e così inseriti in un traffico sì grande e ricco, crescerà a dismisura il povero mio capitale».

Dietro queste frasi di Pio Bruno vi è il riferimento al libro dell’abate Henry-Marie Boudon da cui anche il Monfort trasse ispirazione per la sua teologia mariana:

«Boudon parlò della santa schiavitù alla Madre di Dio, consistente non nel fare pratiche di devozione o recitare preghiere o fare mortificazioni, ma soprattutto e prima di tutto nel consacrare la propria libertà, il proprio cuore e le opere buone al totale servizio di Maria».

Questa certamente era l’intenzione del Lanteri nel mettersi totalmente nelle mani di Maria, sua Madre, in piena fiducia e confidenza. Questo gesto, visto il primato assoluto di Cristo come unico Mediatore tra il Padre e l’umanità, è giustificabile solo alla luce della misteriosa volontà di Dio che ha fatto sì che una piccola fanciulla di Nazareth fosse intrinsecamente inserita nel mistero dell’Incarnazione del suo Verbo, diventandone madre in quanto alla natura umana, proprio in Lei e da Lei assunta. È in forza di questo mistero che Ella partecipa spiritualmente alla generazione di tutti i membri del Corpo Mistico diventandone Madre attraverso la Chiesa, la quale estende a tutti i tempi e luoghi la maternità di Maria. Questo è, in effetti, quello che il Monfort chiama “il segreto di Maria”. Sapere cioè che Dio ha scelto Lei per realizzare nello Spirito Santo la santificazione di tutti i suoi “figli adottivi” (Rm 8,15) invitati ad affidarsi totalmente a Lei, come mezzo assolutamente il più sicuro, facile e certo per realizzare la propria santificazione, cioè la propria conformazione a Cristo.

 

3. Con confidenza di figlio

Verso questa «Madre sì buona» il Lanteri sente un «amore tenero» ed una confidenza di figlio.

«O Signora, se per tuo mezzo il tuo Figlio è diventato nostro fratello, non sei tu forse diventata nostra Madre? E se vi ho offesi tutti e due, tutti e due siete clementi e pieni di pietà. Dunque fuggirò l’ira del Dio giusto ricorrendo alla pia Madre, l’ira dell’offesa Madre ricorrendo al benigno Figlio.  E dirò: O Dio che ti sei fatto Figlio di Donna a causa della nostra miseria, o Donna che ti sei fatta Madre di Dio per la sua misericordia, o avete compassione di me peccatore, o mostratemi altri più misericordiosi a cui rivolgermi».

«Vergine Santa, Madre di Dio, e madre mia, io vi domando due cose che mi sono ugualmente necessarie: datemi vostro Figlio, è il mio tesoro, senza di lui sono povero; date me a vostro Figlio, è la mia saggezza, la mia luce, senza di lui sono nelle tenebre. Tutto a Gesù per Maria. Tutto a Maria per Gesù. Come la vita naturale di Gesù nel seno di sua Madre dipendeva totalmente da Lei, così nella vita della grazia, di cui non c’è nulla di più fragile – perché anche un fantasma, un pensiero può rovinarla – ricorriamo a Maria nostra Madre, lei non mancherà mai di sovvenire ai nostri bisogni, se noi non usciamo fuori dal suo seno».

Da anziano il Lanteri, quando avrà toccato la sessantina, sovente diceva agli amici: «Per me non c’è stata altra mamma che la Santissima Vergine Maria e io non ho ricevuto altro che carezze e favori da una Madre così buona». Spesso la chiamava sua Madre, sua Maestra, sua Nutrice, suo Paradiso.

Nel testamento, scritto verso il 1816 a motivo della scarsa salute, il Lanteri si raccomanda a questa cara Madre:

«Raccomando l’anima mia alla Ss. Triade, al S. Cuore di Gesù, alla Beatissima Vergine Maria che mi fu sempre tenera Madre, a S. Luigi, S. Francesco Saverio, al mio Angelo Custode, al B. Alfonso de Liguori, a tutti i Santi ed Angeli del cielo che spero presto di vedere come fratelli in paradiso, alle preghiere della Santa Cattolica, Apostolica e Romana Chiesa nel cui seno m’intendo e voglio vivere, e morire, ed a quelle dell’infrascritto mio Esecutore testamentario, e di tutti i miei parenti, ed amici».

 

4. Maria e gli Oblati di Maria Vergine

Gli Oblati – scrive il Lanteri - sono «pienamente a Maria Vergine dedicati» e: «si propongono di attendere seriamente alla salute e santificazione di se stessi per via dell’imitazione la più attenta di Gesù Cristo che si propongono per modello in ogni azione, unitamente agli esempi di Maria Santissima loro cara Madre».

Il Lanteri vuole che per gli Oblati Maria sia modello, scala, scuola, aiuto per conformarsi a Gesù:

«In ciascuna azione hanno dunque sempre Gesù innanzi agli occhi; Gesù è sempre il loro compagno ed il loro modello, e si studiano d’imitarlo nel modo più perfetto, sia quanto all’interno che all’esterno, unitamente agli esempi di Maria Santissima, per rendere in questo modo, con l’intercessione di Maria più somigliante a Dio, l’immagine impressa nella nostra anima».

Centrale alla devozione a Maria è l’attenzione alle sue virtù evangeliche per imitarla nel suo modo di vivere e così accogliere da lei Cristo e a lui conformarsi. Il Lanteri invitava i suoi Oblati a chiedere a Gesù e Maria...

«... una grande somiglianza ed unione con Gesù, ove consiste tutta la santificazione nostra, poiché così continuamente [gli Oblati] si esercitano a conservare la memoria non dissipata, ma dolcemente fissa in Gesù, ad assuefare l’intelletto a vedere e giudicare sempre ogni cosa secondo Gesù, a tenere la volontà sempre tranquilla ed unita a quella di Gesù. Insomma, così sono sempre in compagnia di Gesù, conversano sempre con Gesù, sempre uniti con Gesù nelle intenzioni e nelle azioni, e così diventano una copia viva di Gesù. Così Gesù forma l’unico tesoro del loro cuore; così Gesù abita nei loro cuori, ed essi abitano nel Cuore di Gesù».

L’Oblato sa di trovare in Lei una madre nel suo progetto spirituale. Sente che tutta la sua identità nella Chiesa nasce da Maria, si svolge in Maria, prende forma concreta con il patrocinio di Maria, ed esprime questa convinzione chiamando Maria «la sua fondatrice». Maria è anche la sua maestra, che protegge la Congregazione da ogni errore di dottrina[5] ed esercita verso di essa «un’assistenza veramente speciale e mirabile».

Sullo stemma degli Oblati leggiamo: «Mariam cogita, Mariam invoca». È una frase di San Bernardo che ci invita a contemplare la figura di Maria come ce la presenta il Vangelo, modello di disponibilità totale alla Parola e allo Spirito; e a invocare Maria, con una preghiera fiduciosa che sa rimettere alla sua materna intercessione tutto il nostro essere e agire.

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misericordia

 

1. Le fonti del senso vivo della Misericordia nel Lanteri

Il Dio che ha afferrato il P. Lanteri è un Dio di bontà e di misericordia: il Padre che ha mandato suo Figlio, come buon Pastore, a salvare tutti gli uomini. P. Lanteri pone il Cristo dolce e misericordioso al centro di tutto. Lo sperimenta come compagno di vita, come suo maestro, suo modello, suo aiuto, sua ricompensa.

È il compagno privilegiato nella vita: «indirizzerò le cose a lui, chiederò lume da lui e forza, osserverò come farebbe nel caso mio, lo pregherò del suo Spirito nelle mie azioni»; «sono [gli Oblati] sempre in compagnia di Gesù, conversano sempre con Gesù»; «si esercitano a conservare la memoria... dolcemente fissa in Gesù, ad assuefare l’intelletto a vedere e giudicare sempre ogni cosa secondo Gesù, a tenere la volontà sempre tranquilla ed unita a quella di Gesù».Gesù, come uomo, è il maestro ed il modello che insegna «ad un tempo con la sua dottrina e con l’esempio il vero modo di servire Dio». In tal modo, l’imitazione di Cristo diventa il punto focale di tutto il cammino spirituale del Lanteri; è qui che orienta tutte le sue energie interiori, è qui che si indirizzano tutti i desideri più profondi del suo cuore. È «l’imitazione più attenta di Cristo» che egli si propone «per modello in ogni azione» che costituisce il centro della sua spiritualità. Egli vuole diventare «una copia viva di Gesù», «perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale» (2Cor 4,11). È una passione spirituale che impara dalla seconda e dalla terza settimana degli Esercizi ignaziani.Lo stesso Gesù è il suo aiuto, la sua ricompensa, il suo tesoro. Agli Oblati dirà che vivendo così,

Gesù forma l’unico tesoro del loro cuore; così Gesù abita nei loro cuori, ed essi abitano nel Cuore di Gesù.  [C’è] qualcosa di più grande e più consolante di questo?

Il Cristo che lo affascina è il Cristo della Meditazione del Re e delle contemplazioni sulla vita privata, pubblica, e sulla passione: il Cristo umilepoveromansueto, e il Cristo che, mentre va per le città e villaggi predicando, insegnando, e curando le infermità della gente, alla vista del suo disorientamento, si muove a compassione, mentre sorge nel suo spirito un grido: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi!» (Mt 9,37).

Sono questi i tratti del Cristo che il Lanteri ha trasfuso nelle sue maniere dolci e delicate e nella sua prassi penitenziale tutta improntata all’accoglienza e alla misericordia di Gesù buon Pastore in un tempo in cui i fedeli penitenti dovevano subire la freddezza glaciale dei confessori giansenisti e rigoristi.

Oltre ad attingere questi tratti dalla contemplazione di Cristo negli Esercizi spirituali, tratti nei quali il Lanteri si è ben conformato al suo Maestro e Modello, una seconda fonte che spiega la dolcezza, la delicatezza e bontà del Lanteri è da identificare nella spiritualità salesiana.

S. Francesco di Sales seppe far emergere dalla spiritualità ignaziana tutta la sua potenzialità in riferimento alla fraterna comunione d’animi in Gesù Cristo. Le forti esigenze dell’austerità ignaziana sembrano rese più dolci e soavi dalla tenerezza dell’amicizia spirituale, dalla mitezza e serenità del vescovo di Genève. L’influsso che san Francesco di Sales ebbe sul Lanteri giunse a lui tramite le cosiddette Amicizie che erano intrise della sua spiritualità, la quale si sviluppava e fioriva nel clima dell’amicizia spirituale volta a rendere più soavi le asprezze dell’ascesi e la tensione continua del rinnegamento di sé.

Nel suo Direttorio Spirituale il diacono Lanteri si propone di leggere continuativamente san Francesco di Sales per formarsi lo spirito. Il Lanteri fu più che fedele a questo proposito in tutta la sua vita:

 «Per acquistare la virtù della dolcezza si era messo sotto il patrocinio di S. Francesco di Sales, frequente ne scorreva i trattati, e da questi, come disse sant’Agostino della S. Scrittura, aveva raccolto le massime più soavi ed amabili per averle in pronto sia in benefizio proprio che altrui. E veramente la carità e la tenerezza che mostrava alle anime e ne’ discorsi e nel confessionale e nelle loro malattie o di corpo o di spirito, erano una conseguenza di quel fare dolcissimo che aveva appreso da questo esemplare sì amabile e perfetto maestro di amore e di carità. […]

Per affetto ancor a lui per molti anni guidò nello spirito del santo fondatore parecchie buone religiose della Visitazione…».

Ad una di esse scriverà un giorno:

«…rimiri in tutto la volontà di Dio, ed operi un po’ più alla buona, ossia grosso modo, come diceva S. Francesco di Sales; né tralasci di leggere ogni giorno qualche squarcio delle opere del suo S. Padre, poiché sono propriamente fatte per procurare la pace al cuore».

 

2. Accoglierci e amarci  come il Dio della misericordia ci ama

Caratterizzata da una grande dolcezza e serenità, la spiritualità di san Francesco di Sales imponeva innanzi tutto che queste virtù fossero applicate verso se stessi nello sforzo di guardarsi, accogliersi e amarsi così come lo si è da Dio. Senza amareggiarsi, scoraggiarsi, abbattersi per gli inevitabili fallimenti, mancanze, debolezze e peccati, sempre pronti a rialzarsi e a riprendere il cammino con più slancio di prima della caduta, fondati e radicati in un’immensa fiducia nella sconfinata misericordia di Dio:

«Rialza dunque dolcemente il tuo cuore quando cade, umiliati grandemente davanti a Dio alla conoscenza della tua miseria; ma non meravigliarti della tua caduta: è naturale che l’infermità sia malata, che la debolezza sia debole, e la miseria sia misera. Disprezza con tutte le forze l’offesa che Dio ha ricevuto da te e, con coraggio e fiducia nella sua misericordia, rimettiti nel cammino della virtù, che avevi abbandonato».

Il Lanteri assimilerà alla perfezione tutto questo e nel suo Direttorio Spirituale così si esprimerà:

«Se verrò a mancare, anche fosse mille volte, non mi perderò d’animo, non mi inquieterò, ma sempre pacificamente subito dirò nunc cœpi. Mio Dio, l’ho fatta da quel che sono. Che altro potevate aspettarVi da me? Né qui mi sarei fermato, se voi non mi aveste trattenuto. Fatela Voi ora da quello che siete. Non voglio pensare così male di Voi, che mi dia a credere che Vi lasciate vincere da che è cattivo, quando so che Vi sta tanto a cuore la mia conversione, la mia salute. Sempre paziente con me e diffidente di me, e tutto confidente in Dio buono».

E ancora, in un altro documento dell’epoca il suo pensiero raggiunge una grande profondità nella comprensione della misericordia divina e della confidenza che deve essere presente nel cuore di chi ha la disavventura di cadere nel peccato:

«Dopo la caduta si abbia maggior confidenza di quella che si avrebbe nella comunione; più la caduta è grave, e più confidenza; più uno è debole e maggiore appoggio ha di bisogno».

Sarà proprio l’esperienza di questa invincibile benevolenza di Dio che farà sì che la persona addolcisca il suo modo di relazionarsi con gli altri. Tutta la pazienza e tenerezza di Dio di cui si è stati, e si è, oggetto, straripa inevitabilmente sugli altri che vengono guardati con occhi diversi, purificati dallo sguardo misericordioso del Signore. Non si può capire la misericordia salesiana senza l’esperienza personale della paziente tenerezza divina.

 

3. Ministro della Riconciliazione e Direttore spirituale

Il Lanteri si sforzò di far conoscere il volto Misericordioso di Dio nella confessione sacramentale dove le persone venivano da lui rincuorate e incoraggiate alla via della santità nella cordiale, paziente e benevola accoglienza che ricevevano: «O Gesù, Gesù, si vuol rendere il vostro nome odioso, non consolante; non sanno che “olio effuso è il tuo Nome” (Ct 1,2)».

E’ questo spirito di dolcezza che cercò di trasmettere ai suoi Oblati:

«[Gli Oblati di Maria Vergine] attendono indefessamente al Confessionale pronti ad accogliere ognora tutti, massime i più bisognosi, con aria ilare e contenta. [...] Riguardo al modo si faranno uno studio particolare d’imitare il Divin Maestro nell’accogliere, e trattare sempre con tutti, massime i più bisognosi, con somma dolcezza e bontà, e i più scrupolosi con carità somma e pazienza inalterabile. Non giudicheranno mai alcun cuore invulnerabile, ma con l’orazione continua e fervente, e con la carità industriosa faranno il possibile per non lasciare perire alcuno».

In tutta la sua vita il Lanteri si industriò a questo: far conoscere il vero Dio che è Amore (cfr. 1Gv 4), presentare il vero volto di Dio conosciuto nel volto di Gesù “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) perché gli uomini si accostassero a lui con fiducia e confidenza.

«Agli uomini, siccome non sono che miserabili, non si deve proporre quasi altro che misericordia... Il cuore dell’uomo è fatto per amare, ed ama ciò che più lo muove e gli fa impressione; scopriamogli la bontà di Dio come si deve, e ne sarà rapito e volgerà ad amarla. Santa Maria Maddalena amava il mondo e faceva grandi cose per il mondo; amò Gesù Cristo, e fece grandi cose per lui.

In Gesù Cristo non vi è solo la pazienza, ma la longanimità. Il caratteristico di Gesù Cristo è la misericordia e la compassione, quel degli uomini dev’essere la speranza. Promoviamoli ambedue».

Niente e nessuno deve turbare e rattristare la persona nella sua profondità, dove gode della presenza di Dio:

né la tentazione, di fronte alla quale non si deve perdere la serenità, perché non è peccato sentire se manca il consentire, anzi essa è doppiamente utile in quanto non acconsentendo abbiamo dei meriti davanti a Dio e invocando il Signore e facendo atti di amore verso di Lui ci santifichiamo ancor di più;

né i peccati, perché basta pentirsi sinceramente per ritrovare la sua presenza di grazia:

«S’impari ad andare avanti con i mancamenti, quindi presupponga anche di certo che ha da commetterne molti, poiché senza di essi servire Dio è concesso solamente in Cielo, e S. Francesco di Sales dice che la perfezione non consiste in non mai cadere, ma in rialzarsi subito, riconoscendo la nostra miseria, chiederne perdono a Dio, ma tranquillamente e senza meravigliarci, dicendo a Dio che la facciamo da quel che siamo, la faccia lui da quegli che è. Ciò che si deve imparare è cadere, sì, ma levarsi subito in piedi, domandando perdono, né mai stancarsi di rialzarsi, anche se cadessimo mille volte, perché se un fanciullo non volesse più rialzarsi e camminare, perché cade sovente o per timore di cadere ogni passo, mai più imparerà a camminare.

E perciò concepiamo un’idea grande della bontà di Dio, non misuriamola con la nostra scarsezza, figurandoci che si stanchi di tanta nostra instabilità, fiacchezza, dimenticanza, abbia da vendicarsi dei nostri peccati, toglierci gli aiuti, negarci le grazie, e per questo rispetto non ardire d’andargli a domandare perdono, quando si manca nei propositi. Non è tale il nostro buon Dio. Dio non ha bisogno di noi, se non per usarci misericordia. Attribuiamogli ciò che è suo, cioè l’essere buono, misericordioso, compassionevole, padre amorevole che ci solleva, non mai si stanca di perdonarci, che, anzi, gli diamo grande gusto ed onore quando gli andiamo a domandare perdono».

né la nostra ripetuta debolezza, perché ogni volta basta rialzarsi con umiltà, non badando al peccato, ma al pentimento:

«Dopo la tentazione poi non stia mai ad esaminare se abbia acconsentito o no, ma si diverta ad altro, se poi non le riesce, e le viene scrupolo d’aver acconsentito, allora o lei dubita solo se le abbia acconsentito, e in tale caso non ne faccia caso, disprezzi ogni dubbio, faccia questo sacrificio del suo spirito e della volontà, e ubbidisca a P.D. [Padre Diessbach], o lei è certa, e tranquillamente lo disapprovi innanzi a Dio, si riunisca a Dio, conoscendo la debolezza, detestandolo, chiedendo perdono sicura che l’ottiene. O solo si accorge di avervi usata qualche negligenza, esservi accorsi alcuni difetti, e si ricorda che servire Dio senza difetti è solo concesso in Cielo, s’umili, e le serva di maggior confidenza in Dio. Sicché e nella tentazione e dopo, conviene che mantenga sempre tranquillità di spirito, libertà di cuore, e così servirà meglio e allegramente il Signore».

Per i peccatori che erano tentati contro la speranza aveva una capacità grande di infondere fiducia e coraggio. Per essi diffuse e fece ristampare diversi libri che permettevano la dilatazione del cuore, la pace spirituale, e animavano alla confidenza in Dio. Tra questi ricordiamo il trattato di Bergier “Sulla divina Misericordia”, e in modo speciale il libro “Tesori di confidenza in Dio”, che risultò un autentico capolavoro per tante anime combattute dagli scrupoli, e dai dubbi sulla benevola disposizione di Dio nei confronti dell’uomo peccatore e bisognoso.

 

4. L’amore fraterno

Il Lanteri desidera che l’amore fraterno tra gli Oblati, fondato sulla fede, assuma i tratti di una grande umanità:

«La stima che si porteranno, procureranno che sia sincera e costante e fondata sulla fede, non vedendo nei membri della Congregazione che l’immagine di Dio, i fratelli di Gesù Cristo.

L’amore con il quale si ameranno sarà un amore cordiale, quale conviene a veri fratelli di una stessa famiglia; affabile, per cui facilmente e con piacere si comunicano i sentimenti di pietà e le notizie di studio; preveniente, godendo di potersi rendere all’occasione scambievolmente qualche servizio; sofferente, sopportando facilmente i difetti tra di loro, senza neppure dare segno di risentimento e molestia. E se uno sarà stato offeso, dimenticheranno facilmente ogni cosa sapendo che la carità è un bene infinitamente superiore a qualunque altro bene.

Non contenti di amare i loro fratelli come se stessi, ansiosi ancora di aspirare alla perfezione evangelica, la loro regola sarà quella del Divino Maestro: “che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15,22), cioè di amare il prossimo più di se stessi.

Intanto per non dar luogo ad alcun raffreddamento nella carità, useranno le seguenti avvertenze, cioè: si guarderanno diligentemente non solo da qualunque avversione, ma anche dalle amicizie particolari, le quali sovente raffreddano l’amicizia con gli altri, e facilmente degenerano, perché non sono d’ordinario fondate in Dio solo. Parleranno sempre bene di tutti, aborrendo ogni ombra di detrazione in sé e negli altri. Si guarderanno gelosamente da ogni sospetto tra di loro, che è come un vento di tramontana, che gela la carità nel cuore. Interpreteranno tutto in bene, scusando nel loro cuore e con gli altri l’intenzione, se non si può l’azione. Non contrasteranno mai con veruno, giusta l’avviso di San Paolo (“...evitare le vane discussioni, che non giovano a nulla, se non alla perdizione di chi le ascolta”: 2Tim 2,14), ma essendovi diversità di parere, proporranno sempre le loro ragioni con modestie e dolcezza, per conservare la buona armonia con tutti, e la pace del cuore con se stessi».

Uno dei campi in cui il Lanteri si impegnò maggiormente nel combattimento spirituale fu quello delle relazioni interpersonali improntate all’accoglienza amorosa dell’altro, vincendo ogni chiusura, disamore e giudizio di superiorità, volta contemporaneamente alla presentazione coerente e semplice di sé, con l’esclusione di ogni timidezza spirituale o rispetto umano.

«Inculcò sempre ai suoi religiosi, come una delle virtù caratteristiche degli Oblati, la carità, virtù che egli praticò costantemente con ogni diligenza. Era così pieno di carità spirituale e temporale verso i suoi figli che passava ogni giorno mezz’ora in preghiera dinanzi a Gesù Sacramentato per il maggior bene di ogni individuo».

Il documento  L’identità dell’Oblato di Maria Vergine nella Chiesa di oggi  del XXII Capitolo Generale della Congregazione riprende molto bene l’ideale del Lanteri:

«... l’Oblato ... vuole vivere ... affiancato da altri che condividono con lui la stessa identità oblata. Tipico del suo spirito è un desiderio di vivere con altri Oblati in clima familiare, con una vera comunione di vita, descritta dal Lanteri nella nota frase, «amore fraterno» (cfr. Dir. Lant., p.I, c.5). Con realismo e con gioia egli affronta la fatica della vita in comune, sentendola come parte integrale della sua identità nella Chiesa. Si sente chiamato a pregare insieme con i suoi fratelli, a lavorare d’intesa con loro, a distendersi nei momenti meno occupati insieme con loro, e a comunicare con loro a livello veramente fraterno».

 

5. Uno stile di “evangelizzazione” permeato dalla bontà

In tutta la vita il Lanteri si era sempre proteso all’imitazione della dolcezza e dell’affabilità di Gesù Buon Pastore:

«La carità del Venerabile appariva anche dal suo tratto che era sempre pieno di dolcezza e carità verso tutti, specialmente verso i poveri e i traviati. Non dimostrò mai avversione a coloro che gli procurarono molestie e persecuzioni e non permise mai che altri usassero verso di loro parole di biasimo o di lamento».

In un ritaglio di appunti leggiamo:

«Tratterò con moderata allegria, magnanimità e fortezza, con onesta libertà e libera onestà, con sincera semplicità, con affabilità, accomodandomi al gusto delle persone; sarò umile, dolce, modesto, edificante; mi considererò servo di tutti e riguarderò tutti come nel Cuore di Gesù e ciascuno come la persona di Gesù, come strumenti di Dio per il bene dell’universo; sarò persuaso delle miserie umane; compassionevole e misericordioso, e ciò tanto più quanto più sono ingolfati nelle miserie dei peccati; mi stimerò il peggiore di tutti; vedrò se potrò aiutarli o spiritualmente o corporalmente».

Il Lanteri vuole dagli Oblati uno “stile” di evangelizzazione che sappia coniugare la verità con l’amore:

«Procureranno... per via di ragionamenti opportuni e tranquilli di disingannare i sedotti e premunire gli altri, esercitando sempre lo zelo della verità in spirito di carità, giusta San Paolo (Ef 4,15): “vivendo secondo la verità nella carità”, ad esempio di San Francesco di Sales, cercando di guadagnarsi prima il cuore che lo spirito, con far amare la verità stessa, che si difende e insegna».

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30 Novembre 2023

Chiamati alla gioia

 

Il nostro cuore anela la felicità

Se guardiamo in profondità nel nostro cuore dobbiamo riconoscere che in esso c’è un anelito profondo di felicità. Conosciamo la celebre frase di sant’Agostino: «Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposta in Te». C’è ancora chi desidera e cerca la felicità, e chi invece si è rassegnato ad una vita cupa, cercando di gustare il più possibile le varie occasioni che la vita offre.

Come cristiani non è sufficiente credere che Dio ci ha creati per la gioia – e qui siamo sul piano logico-riflessivo -, perché dovremmo anche essere esperti – sul piano pratico-esistenziale – di essa. I santi erano persone gioiose. Si pensi da esempio a San Filippo Neri, alla sua gioia, allegria e bontà, tanto da essere ricordato come “il Santo della Gioia” o “il giullare di Dio”. Hanno scoperto il segreto della felicità autentica, che dimora in fondo all’anima ed ha la sua sorgente nell’amore di Dio. Perciò i santi sono chiamati beati. 

 

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo…; un uomo lo trova…, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44): gioia come libertà

In questo notissimo brano evangelico centrale è la gioia, che è presentata come la reazione interiore alla scoperta del «tesoro», che è Cristo.

Anzitutto le due parabole, con le quali Gesù ci racconta il Regno, parlano di un uomo che quasi per caso scopre un tesoro (come avviene in certe esperienze di conversioni), e nella seconda di colui che cerca esplicitamente la perla più preziosa. Ora se un uomo cerca vuol dire che spera di trovare, e quando lo fa scopre è vero ciò che San Bernardo di Chiaravalle affermò: «Cercare Dio è essere cercato da Lui».

Questa ricerca implica la gioia, una gioia iniziale, quasi embrionale e non ancora manifesta, presente nel profondo del cuore, perché conseguente alla fiducia che il credente ripone in Dio, quel Dio che è mistero buono, non enigma impenetrabile, e si lascia cercare-trovare. E poi la gioia di chi ha trovato. Il quale è così «pieno di gioia» per la scoperta che non esita un attimo a liberarsi di tutti i suoi averi per acquistare il campo.  

Tutta la nostra vita – e anche questo tratto che faremo insieme – è finalizzato alla ricerca del tesoro prezioso, di quella gioia vera che non è data dalle altre perle, per quanto preziose, ma da quella di valore inestimabile che fa impallidire le altre, cioè dall’incontro con Dio. 

 

Una gioia paradossale: le beatitudini

La gioia cristiana è però paradossale. Ce lo dicono le beatitudini. Come è paradossale agli occhi del mondo l’amore di Dio che si è fatto carne ed è morto e risorto per noi. La vera gioia – e non i momenti di entusiasmo o di semplice benessere – scaturiscono dall’incontro con questo Dio paradossale, che vive nella propria carne le beatitudini. Per cui prendere sul serio le beatitudini vuol dire che capiamo che la gioia vera per la nostra vita si ha conformandoci a Gesù, il beato per eccellenza. Le beatitudini non sono solo la carta della vita cristiana, ma sono il segreto del cuore di Gesù stesso». Egli è stato l’unico vero povero in spirito e il solo che abbia vissuto integralmente ciascuna delle beatitudini. Queste ultime si realizzano pienamente nella croce. Sul Calvario, Gesù è stato assolutamente povero, afflitto, mite, affamato e assetato di giustizia, misericordioso, puro di cuore, operatore di pace, perseguitato per la giustizia…

Capiamo quindi che la beatitudine di Gesù, che desidera anche per noi, non è una felicità umana secondo l’immagine abituale, ma una felicità inaspettata, trovata in situazioni e comportamenti che non sono spontaneamente collegati all’idea di felicità. Una felicità che non è un’autorealizzazione umana, ma una «sorpresa di Dio», concessa proprio là dove si considera assente o impossibile. È una felicità trascendente, che Dio dona e che può essere accolta solo da un cuore nuovo, rinnovato dallo Spirito Santo (cfr. Ez 36,26).

Esiste infatti una relazione assolutamente essenziale fra le beatitudini e la persona dello Spirito Santo. Ognuna di esse suppone un’attività dello Spirito Santo, che solo può permettere al cuore dell’uomo di comprenderle e di viverle. La povertà, la mitezza, le lacrime, la fame e la sete di Dio, la misericordia, la purezza del cuore, la comunicazione della pace, la gioia nella persecuzione suppongono un cuore trasformato dallo Spirito.

In senso inverso, si può anche affermare che le beatitudini evocano situazioni umane difficili, ma che sono un’opportunità per chi crede, oppure suscitano un atteggiamento di rifiuto, di difesa, di chiusura. Nella misura in cui alla luce del vangelo prendiamo con fedeltà e fiducia la strada che esse indicano, ci rendiamo disponibili all’azione dello Spirito.

Il cristiano è colui che lentamente è cresciuto in questo sorprendente apprendimento esperienziale: ha imparato a godere proprio laddove l’uomo di solito non può che soffrire; a incrociare lo sguardo del Padre nel deserto della solitudine o dell’umana ingratitudine; a sentirsi da lui particolarmente custodito proprio quando si è abbandonati e traditi; prezioso ai suoi occhi quando non conti niente per nessuno; figlio suo pre-diletto quando la vita è violenta e chi hai amato ora ti si rivolta contro. Al punto che questa esperienza è divenuta sapienza, nel senso latino del verbo sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!

Un obiettivo della mia preghiera deve essere quello di chiedere a Dio di mostrarmi, in quella che è oggi la tappa della mia vita, qual è la beatitudine sulla quale devo incentrare maggiormente la mia attenzione e i miei sforzi e che sarà un po’ la chiave del mio attuale progresso spirituale.

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Christus vivit, Cristo vive. Così s’intitola l’Esortazione post-sinodale che papa Francesco rivolge affettuosamente «ai giovani e a tutto il popolo di Dio», pastori e fedeli. L’amicizia con Cristo è il tema centrale dell’Esortazione apostolica. Christus vivit è un canto all’amicizia con il Signore. Con colui che «è l’eternamente giovane, e vuole donarci un cuore sempre giovane» (CV 13). «La giovinezza è un tempo benedetto per il giovane e una benedizione per la Chiesa e per il mondo. È una gioia, un canto di speranza e una beatitudine. Apprezzare la giovinezza significa vedere questo periodo della vita come un momento prezioso e non come una fase di passaggio in cui i giovani si sentono spinti verso l’età adulta» (CV 135).

La vera giovinezza

Ma che cos’è la giovinezza? Non è semplicemente un fatto di età: «la vera giovinezza consiste nell’avere un cuore capace di amare» (CV 13); e, allo stesso tempo, capace di aspirare a grandi ideali: «Un giovane non può essere scoraggiato, la sua caratteristica è sognare grandi cose, cercare orizzonti ampi, osare di più, aver voglia di conquistare il mondo, saper accettare proposte impegnative e voler dare il meglio di sé per costruire qualcosa di migliore» (CV 15). Ed esorta: «Non bisogna pentirsi di spendere la propria gioventù essendo buoni, aprendo il cuore al Signore, vivendo in un modo diverso. Nulla di tutto ciò ci toglie la giovinezza, bensì la rafforza e la rinnova: “Si rinnova come aquila la tua giovinezza” (Sal 103,5)» (CV 17).

Riprendendo l’episodio del giovane ricco di Mt 19,20-22 che si avvicina a Gesù per chiedere cosa deve fare per ottenere la vita eterna, ma poi declina la proposta esigente del Signore («Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi»), papa Francesco osserva che «in realtà il suo spirito non era così giovane perché si era già aggrappato alle ricchezze e alle comodità. Con la bocca affermava di volere qualcosa di più, ma quando Gesù gli chiese di essere generoso e di distribuire i suoi beni, si rese conto che non era capace di staccarsi da ciò che possedeva. Alla fine, “udita questa parola, il giovane se ne andò, triste” (v. 22). Aveva rinunciato alla sua giovinezza» (CV 18).

La giovinezza di Gesù ci illumina e ci coinvolge nella Risurrezione

Papa Francesco invita i giovani a contemplare il Gesù giovane che ci mostrano i Vangeli, «perché in Lui si possono riconoscere molti aspetti tipici dei cuori giovani. Lo vediamo, ad esempio, nelle seguenti caratteristiche: «Gesù ha avuto una incondizionata fiducia nel Padre, ha curato l’amicizia con i suoi discepoli, e persino nei momenti di crisi vi è rimasto fedele. Ha manifestato una profonda compassione nei confronti dei più deboli, specialmente i poveri, gli ammalati, i peccatori e gli esclusi. Ha avuto il coraggio di affrontare le autorità religiose e politiche del suo tempo; ha fatto l’esperienza di sentirsi incompreso e scartato; ha provato la paura della sofferenza e conosciuto la fragilità della Passione; ha rivolto il proprio sguardo verso il futuro affidandosi alle mani sicure del Padre e alla forza dello Spirito. In Gesù tutti i giovani possono ritrovarsi» (CV 31). Ed è importante vivere l’amicizia con Lui, che è risorto, perché «vuole farci partecipare alla novità della sua risurrezione. Egli è la vera giovinezza di un mondo invecchiato ed è anche la giovinezza di un universo che attende con “le doglie del parto” (Rm 8,22) di essere rivestito della sua luce e della sua vita. Vicino a Lui possiamo bere dalla vera sorgente, che mantiene vivi i nostri sogni, i nostri progetti, i nostri grandi ideali, e che ci lancia nell’annuncio della vita che vale la pena vivere» (CV 32). Il giovane che si lascia rinnovare da Cristo è chiamato a sua volta ad essere missionario: «Il Signore ci chiama ad accendere stelle nella notte di altri giovani» (CV 33).

Al servizio del rinnovamento della Chiesa

È bello constatare che papa Francesco crede nella capacità dei giovani di contribuire ad un rinnovamento della Chiesa. Per una Chiesa che sia «giovane». Ed è tale «quando è se stessa quando riceve la forza sempre nuova della Parola di Dio, dell’Eucaristia, della presenza di Cristo e della forza del suo Spirito ogni giorno. È giovane quando è capace di ritornare continuamente alla sua fonte (CV 35). La Chiesa di Cristo – continua papa Francesco – corre sempre il rischio di invecchiare quando rimane fissata sul passato, o, all’opposto, quello di illudersi di essere giovane «perché cede a tutto ciò che il mondo le offre, credere che si rinnova perché nasconde il suo messaggio e si mimetizza con gli altri»  (CV 35). Inoltre «può sempre cadere nella tentazione di perdere l’entusiasmo perché non ascolta più la chiamata del Signore al rischio della fede, a dare tutto senza misurare i pericoli, e torna a cercare false sicurezze mondane». «Sono proprio i giovani  che possono aiutarla a rimanere giovane, a non cadere nella corruzione, a non fermarsi, a non inorgoglirsi, a non trasformarsi in una setta, ad essere più povera e capace di testimonianza, a stare vicino agli ultimi e agli scartati, a lottare per la giustizia, a lasciarsi interpellare con umiltà. Essi possono portare alla Chiesa la bellezza della giovinezza quando stimolano la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di darsi senza ritorno, di rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste»  (CV 37).

Se questo è il grande contributo alla Chiesa che papa Francesco chiede ai giovani, «chi di noi non è più giovane ha bisogno di occasioni per avere vicini la loro voce e il loro stimolo, e la vicinanza crea le condizioni perché la Chiesa sia spazio di dialogo e testimonianza di fraternità che affascina. Abbiamo bisogno di creare più spazi dove risuoni la voce dei giovani: «L’ascolto rende possibile uno scambio di doni, in un contesto di empatia» (CV 38).

Il sì di Maria

Papa Francesco invita i giovani a guardare al sì di Maria, giovane. « La forza di quell’“avvenga per me” che disse all’angelo. è stata una cosa diversa da un’accettazione passiva o rassegnata. (…) È stato il “sì” di chi vuole coinvolgersi e rischiare, di chi vuole scommettere tutto, senza altra garanzia che la certezza di sapere di essere portatrice di una promessa. (…) Maria, indubbiamente, avrebbe avuto una missione difficile, ma le difficoltà non erano un motivo per dire “no”. Certo che avrebbe avuto complicazioni, ma non sarebbero state le stesse complicazioni che si verificano quando la viltà ci paralizza per il fatto che non abbiamo tutto chiaro o assicurato in anticipo. (…) Il “sì” e il desiderio di servire sono stati più forti dei dubbi e delle difficoltà» (CV 44).

Guardando a Maria anche i giovani possono dire il loro sì generoso e coraggioso. «Da lei impariamo a dire “sì” alla pazienza testarda e alla creatività di quelli che non si perdono d’animo e ricominciano da capo» (CV 45).

Giovani santi

Papa Francesco ricorda che tanti giovani hanno detto il loro sì e hanno dato la loro vita per Cristo, molti di loro fino al martirio. «Sono stati preziosi riflessi di Cristo giovane che risplendono per stimolarci e farci uscire dalla sonnolenza» (CV 49). «Attraverso la santità dei giovani la Chiesa può rinnovare il suo ardore spirituale e il suo vigore apostolico. Il balsamo della santità generata dalla vita buona di tanti giovani può curare le ferite della Chiesa e del mondo, riportandoci a quella pienezza dell’amore a cui da sempre siamo stati chiamati: i giovani santi ci spingono a ritornare al nostro primo amore (cfr Ap 2,4)» (CV 50). E ne cita alcuni: San Sebastiano, San Francesco d’Assisi, Santa Giovanna d’Arco, il Beato Andrew Phû Yên, Santa Kateri Tekakwitha, San Domenico Savio, Santa Teresa di Gesù Bambino, i Beati Isidoro Bakanjail, Pier Giorgio Frassati, Marcel Callo e Chiara Badano. Se questi giovani, insieme a tanti altri «che, spesso nel silenzio e nell’anonimato, hanno vissuto a fondo il Vangelo», anche i giovani di oggi che aprono generosamente il loro cuore a Cristo e vivono in intima amicizia con lui, possono con gioia, coraggio e impegno donare al mondo nuove testimonianze di santità (cfr. CV 63).

Una santità – precisa papa Francesco – che è personale, originale, unica: «Ti ricordo che non sarai santo e realizzato copiando gli altri. E nemmeno imitare i santi significa copiare il loro modo di essere e di vivere la santità: ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Tu devi scoprire chi sei e sviluppare il tuo modo personale di essere santo, indipendentemente da ciò che dicono e pensano gli altri. Diventare santo vuol dire diventare più pienamente te stesso, quello che Dio ha voluto sognare e creare, non una fotocopia» (CV 162).

Alcune indicazioni di percorso

In questa prospettiva papa Francesco offre alcune indicazioni per vivere in pienezza il dono della giovinezza:

- anzitutto vivere la giovinezza come «tempo di donazione generosa, di offerta sincera, di sacrifici che costano ma ci rendono fecondi»  (CV 108);

- non cedere al lamento, alla rassegnazione: «Quando tutto sembra fermo e stagnante, quando i problemi personali ci inquietano, i disagi sociali non trovano le dovute risposte, non è buono darsi per vinti. La strada è Gesù: farlo salire sulla nostra “barca” e prendere il largo con Lui! Lui è il Signore! Lui cambia la prospettiva della vita» (CV 141);

- perseverare sulla strada dei sogni. «Per questo, bisogna stare attenti a una tentazione che spesso ci fa brutti scherzi: l’ansia. Può diventare una grande nemica quando ci porta ad arrenderci perché scopriamo che i risultati non sono immediati. I sogni più belli si conquistano con speranza, pazienza e impegno, rinunciando alla fretta. Nello stesso tempo, non bisogna bloccarsi per insicurezza, non bisogna avere paura di rischiare e di commettere errori» (CV 142);

- vivere pienamente il presente «usando le energie per le cose buone, coltivando la fraternità, seguendo Gesù e apprezzando ogni piccola gioia della vita come un dono dell’amore di Dio» (CV 147). «Mentre lotti per realizzare i tuoi sogni, vivi pienamente l’oggi, donalo interamente e riempi d’amore ogni momento. Perché è vero che questo giorno della tua giovinezza può essere l’ultimo, e allora vale la pena di viverlo con tutto il desiderio e con tutta la profondità possibili» (CV 148). E «questo vale anche per i momenti difficili, che devono essere vissuti a fondo… Egli è lì dove noi pensavamo che ci avesse abbandonato e che non ci fosse più alcuna possibilità di salvezza. è un paradosso, ma la sofferenza, le tenebre, sono diventate, per molti cristiani luoghi di incontro con Dio» (CV 149).

- vivere ogni giorno l’amicizia con Cristo: «Per quanto tu possa vivere e fare esperienze, non arriverai al fondo della giovinezza, non conoscerai la vera pienezza dell’essere giovane, se non incontri ogni giorno il grande Amico, se non vivi in amicizia con Gesù» (CV 150). E la preghiera è certamente il luogo privilegiato nel quale conversare con Gesù, con l’Amico, con il quale condividere le cose più segrete. «La preghiera è una sfida e un’avventura. E che avventura! Ci permette di conoscerlo sempre meglio, di entrare nel suo profondo e di crescere in un’unione sempre più forte. La preghiera ci permette di raccontargli tutto ciò che ci accade e di stare fiduciosi tra le sue braccia, e nello stesso tempo ci regala momenti di preziosa intimità e affetto, nei quali Gesù riversa in noi la sua vita. Pregando “facciamo il suo gioco”, gli facciamo spazio perché Egli possa agire e possa entrare e possa vincere» (CV 155).

- vivere l’amicizia vera e sincera con gli amici che sono al nostro fianco, che «sono un riflesso dell’affetto del Signore, della sua consolazione e della sua presenza amorevole. Avere amici ci insegna ad aprirci, a capire, a prenderci cura degli altri, a uscire dalla nostra comodità e dall’isolamento, a condividere la vita. Ecco perché “per un amico fedele non c’è prezzo” (Sir 6,15)» (CV 151).

- impegnarsi con coraggio nel sociale per contribuire alla costruzione di un mondo migliore. «Per favore – esorta papa Francesco – non lasciate che altri siano protagonisti del cambiamento! Voi siete quelli che hanno il futuro! Attraverso di voi entra il futuro nel mondo. A voi chiedo anche di essere protagonisti di questo cambiamento. Continuate a superare l’apatia, offrendo una risposta cristiana alle inquietudini sociali e politiche, che si stanno presentando in varie parti del mondo. Vi chiedo di essere costruttori del mondo, di mettervi al lavoro per un mondo migliore. Cari giovani, per favore, non guardate la vita “dal balcone”, ponetevi dentro di essa. … lottate per il bene comune, siate servitori dei poveri, siate protagonisti della rivoluzione della carità e del servizio, capaci di resistere alle patologie dell’individualismo consumista e superficiale» (CV 174).

- e, infine, essere missionari nei vari ambienti di vita. «Giovani, non lasciate che il mondo vi trascini a condividere solo le cose negative o superficiali. Siate capaci di andare controcorrente e sappiate condividere Gesù, comunicate la fede che Lui vi ha donato. Vi auguro di sentire nel cuore lo stesso impulso irresistibile che muoveva San Paolo quando affermava: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16)» (CV 176).

Ulisse od Orfeo?

Concludiamo con un’immagine. Ce la fornisce lo stesso Papa Francesco che, dopo aver esortato i giovani a non cedere al canto delle sirene, richiama due personaggi mitologici, entrambi positivi: Ulisse e Orfeo. Ma lui preferisce il figlio del dio della musica (Apollo) e della dea dell’eloquenza (Calliope) e lo propone ai giovani. Così scrive: «Ulisse, per non cedere al canto delle sirene, che ammaliavano i marinai e li facevano sfracellare contro gli scogli, si legò all’albero della nave e turò gli orecchi dei compagni di viaggio. Invece Orfeo, per contrastare il canto delle sirene, fece qualcos’altro: intonò una melodia più bella, che incantò le sirene. Ecco il vostro grande compito: rispondere ai ritornelli paralizzanti del consumismo culturale con scelte dinamiche e forti, con la ricerca, la conoscenza e la condivisione» (CV 223). E per realizzare questo grande compito nella Chiesa e nel mondo «bisogna mettersi molto in gioco, bisogna rischiare»! (CV 289).

 

Articolo tratto da: Myriam "Lasciamoci salvare da Cristo" (n. 1 del 2020)

In papa Francesco l’alleanza con Dio è il fondamento di una sana e costruttiva alleanza con l’umanità e con la terra.

Alleanza con Dio
Prima ancora che l’uomo cerchi Dio, è Dio che ha cercato l’uomo, che si è rivelato a lui e ha stretto alleanza con lui. L’alleanza, dunque, è anzitutto un dono divino. Sgorga dal desiderio eterno di Dio che ha accompagnato la creazione dell’universo e della creatura umana che ne è il vertice: desiderio di salvarlo ed elevarlo alla vita divina in Cristo (cfr. Ef 1,4-5), di introdurlo cioè nella circolarità eterna dell’amore del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. In questa prospettiva la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II così afferma: «La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio» (n. 19). L’uomo si realizza pienamente solo tendendo a questo fine esistenziale, vivendo la sua esistenza, nella varietà degli ambiti di vita, già davanti a Lui, in «santità di vita», come «figlio adottivo» (Ef 1,5) in Cristo.
È Dio stesso che, desiderando il vero bene della sua creatura, si è impegnato a stringere alleanza con l’uomo. Lo ha fatto con Abramo, sottraendolo da una realtà familiare di morte, ponendolo in cammino con una promessa di vita: un nome grande, una discendenza, una terra…; promessa confermata dalla solenne alleanza con il patriarca narrata in Gen 15 e riconfermata da Dio più volte. Dio è fedele. Giustamente papa Francesco, commentando il Salmo 105, afferma: «Il Signore si è sempre ricordato della sua alleanza. […] Il Signore non dimentica, non dimentica mai. Sì, dimentica soltanto in un caso, quando perdona i peccati»(Omelia 2.4.2020).
Quest’alleanza storicamente si è ampliata sul Sinai: da alleanza con una persona ad alleanza con un popolo, Israele, che egli ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto perché possa essere un popolo sacerdotale in mezzo a tutti i popoli della terra. Infine in Cristo si compie la «nuova alleanza» (cfr. Lc 22,20) sigillata con il suo sangue sulla croce.
Il Papa stesso pone in relazione elezione, promessa e alleanza come tre dimensioni della vita cristiana: «Ognuno di noi è un eletto, nessuno sceglie di essere cristiano fra tutte le possibilità che il “mercato” religioso gli offre, è un eletto. Noi siamo cristiani perché siamo stati eletti. In questa elezione c’è una promessa, c’è una promessa di speranza, il segnale è la fecondità: Abramo sarai padre di una moltitudine di nazioni e … sarai fecondo nella fede (cf. Gen. 17,5-6). La tua fede fiorirà in opere, in opere buone… Ma tu devi osservare l’alleanza con me (cf. 17,9). E l’alleanza è fedeltà. […] Tu sei cristiano se dici di sì all’elezione che Dio ha fatto di te, se tu vai dietro le promesse che il Signore ti ha fatto e se tu vivi un’alleanza con il Signore: questa è la vita cristiana. I peccati del cammino sono sempre contro queste tre dimensioni: non accettare l’elezione e noi “eleggere” tanti idoli, tante cose che non sono di Dio. Non accettare la speranza nella promessa, andare, guardare da lontano le promesse, anche tante volte, come dice la Lettera agli Ebrei (cf. Eb. 6,12; Eb. 8,6), salutandole da lontano… e vivere senza alleanza, come se noi fossimo senza alleanza» (Omelia 2.4.2020)
Con questa consapevolezza il cristiano esprime nella preghiera lo slancio interiore, il desiderio del suo cuore: vivere gli impegni di ogni giorno illuminato e sostenuto da quel rapporto con Dio, Padre tenerissimo, che Gesù ci ha rivelato (cfr. Mt 6,7-9) – tanto da osare di chiamarlo in modo confidente Abbà, “papà” –. «Il cristianesimo – scrive papa Francesco – ha bandito dal legame con Dio ogni rapporto “feudale”. Nel patrimonio della nostra fede non sono presenti espressioni quali “sudditanza”, “schiavitù” o “vassallaggio”; bensì parole come “alleanza”, “amicizia”, “promessa”, “comunione”, “vicinanza”. Nel suo lungo discorso d’addio ai discepoli, Gesù dice così: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (Gv 15,15-16). Ma questo è un assegno in bianco: “Tutto quello che chiederete al Padre mio nel mio nome, ve lo concedo”!
Dio – continua papa Francesco – è l’amico, l’alleato, lo sposo. Nella preghiera si può stabilire un rapporto di confidenza con Lui, tant’è vero che nel “Padre nostro” Gesù ci ha insegnato a rivolgergli una serie di domande. A Dio possiamo chiedere tutto. Non importa se nella relazione con Dio ci sentiamo in difetto: non siamo bravi amici, non siamo figli riconoscenti, non siamo sposi fedeli. Egli continua a volerci bene. È ciò che Gesù dimostra definitivamente nell’Ultima Cena, quando dice: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” (Lc 22,20). In quel gesto Gesù anticipa nel cenacolo il mistero della Croce. Dio è alleato fedele: se gli uomini smettono di amare, Lui però continua a voler bene, anche se l’amore lo conduce al Calvario. Dio è sempre vicino alla porta del nostro cuore e aspetta che gli apriamo. E alle volte bussa al cuore ma non è invadente: aspetta. La pazienza di Dio con noi è la pazienza di un papà, di uno che ci ama tanto. Direi, è la pazienza insieme di un papà e di una mamma. Sempre vicino al nostro cuore, e quando bussa lo fa con tenerezza e con tanto amore.
Proviamo tutti a pregare così, entrando nel mistero dell’Alleanza. A metterci nella preghiera tra le braccia misericordiose di Dio, a sentirci avvolti da quel mistero di felicità che è la vita trinitaria, a sentirci come degli invitati che non meritavano tanto onore. E a ripetere a Dio, nello stupore della preghiera: possibile che Tu conosci solo amore?» (Udienza generale 13.05.2020).

Alleanza tra gli uomini

Se gli uomini sapranno riconoscere questo volto di Dio, saranno capaci di vivere – in questo mondo segnato da molteplici ombre e dalla mancanza di un progetto per tutti – quella fraternità e amicizia sociale che con forza papa Francesco rilancia nell’enciclica Fratelli tutti. L’alleanza con Dio trova espressione nell’alleanza con gli altri uomini – di ogni cultura e religione – per un mondo aperto alla giustizia e all’amore, per un mondo fraterno che sappia promuovere il bene comune e, all’interno di esso, quello dei singoli uomini. Ritorna anche qui l’idea che per giungere a ciò – all’alleanza – è necessaria – come ha fatto Dio – l’elezione: eleggere come amici i fratelli vicini e lontani per portare ad essi – nel cuore della fraternità – il “tu” dell’amico. L’amicizia sociale è una forma di amore ed è il frutto di quell’amore che ci spinge ad uscire da noi stessi per andare incontro agli altri, vicini e lontani: «La vera carità – scrive papa Francesco – è capace di includere tutto questo nella sua dedizione e, se deve esprimersi nell’incontro da persona a persona, è anche in grado di giungere a un fratello e a una sorella lontani e persino ignorati, attraverso le varie risorse che le istituzioni di una società organizzata, libera e creativa sono capaci di generare» (n. 165).
Per papa Francesco le dense ombre di un mondo chiuso sono numerose e prende in considerazione alcune tendenze che sono d’ostacolo alla fraternità universale: «la penetrazione culturale di una sorta di “decostruzionismo”, per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero» (n. 13); la mancanza di un progetto per tutti, negando «con varie modalità, ad altri il diritto di esistere e di pensare» (n. 15); la cultura dello «scarto» di quelle persone che «non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili» (n. 18), il non rispetto dei diritti umani (n. 22), le «guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana» in molte regioni del mondo, «tanto da assumere fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”» (n. 25); «la solitudine, le paure e l’insicurezza di tante persone, che si sentono abbandonate…» (n. 28). Di fronte a tutto ciò – con l’aggravante delle pandemie e dei flagelli della storia (nn. 32-36), nonché delle migrazioni di un massiccio numero di persone che sfuggono alle guerre e alla povertà (nn. 37-41) –, urge il superamento di ogni forma di egoismo e di violenza in vista di una fraternità universale, urge un cammino di speranza per un mondo migliore: «la speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n. 55).
Alleanza con la terra
Affinché si possa tendere – con passi concreti e coraggiosi – alla realizzazione di un mondo aperto e fraterno – anche con il prezioso aiuto delle varie religioni –, è necessario che venga salvaguardato l’ambiente nel quale viviamo. Sorge qui il grande tema dell’ecologia, ampliamente trattato da papa Francesco nell’enciclica Laudato sii. L’uomo non è un dominatore indiscriminato della terra, bensì il custode di essa per il bene di tutta l’umanità.
Ispirandosi ai testi biblici, che ci ricordano che «la cura autentica della nostra vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti con gli altri», l’enciclica ci chiede di partire dalle risorse, dalla terra, dall’acqua, dall’agricoltura e dal cibo, con un afflato ecologico che comprende anche l’uomo, scegliendo di non più tollerare le ingiustizie che perpetriamo – tanto alla natura quanto ai nostri fratelli e sorelle –. Ancora una volta si parla di alleanza: quella tra l’umanità e l’ambiente alla quale si deve impegnare la formazione nei vari ambiti educativi (scuola, famiglia, mezzi di comunicazione, catechesi, ecc): «solamente partendo dal coltivare solide virtù è possibile la donazione di sé in un impegno ecologico» (n. 211).
Anche qui l’alleanza tra l’uomo e la terra per una “cittadinanza ecologica” richiede una scelta: la «conversione interiore». Francesco cita Benedetto XVI: «i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo perché i deserti interiori sono diventati così ampi», e conclude: «vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana» (n. 217). L’uomo, “rinnovato” nel proprio cuore sarà così capace di un’«ecologia integrale»: ambientale, economica, sociale, culturale, della vita quotidiana, che protegge il bene comune e sa guardare al futuro.

Articolo tratto da: Myriam  "Nuova ed eterna Alleanza" (n. 1 del 2021)

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