Padre Michele

Padre Michele

 

I racconti della creazione del libro della Genesi (capp. 1 e 2) fanno parte del un grande affresco dei capitoli 1-11, nel quale sono rintracciabili le costanti del nostro mondo storico, della situazione permanente della terra e della nostra umanità. Due componenti radicalmente opposte tra loro confluiscono in questo affresco: prima di tutto, la rettitudine («tzedagah» = giustizia) della creazione, prodotta dall’iniziativa di Dio fin dal «principio», e in secondo luogo l’inquinamento della stessa creazione, prodotto dalla disobbedienza della libertà creata, che riduce in schiavitù tutto il creato, fin da «un principio» (1Gv 3,8; cf. Rm 8,19-23;11,32; Gal 3,22; ecc.). In questo articolo ci soffermeremo sulla prima parte, quella positiva: la Creazione.

 

La creazione come parola di salvezza

Ci possiamo chiedere perché i racconti della creazione sono stati volutamente posti all’inizio della Bibbia. Sappiamo, infatti, che il primo racconto – secondo la teoria delle fonti – apparterebbe alla tradizione sacerdotale, e quindi è un testo molto recente (di epoca post-esilica) rispetto ad altri testi, mentre il secondo racconto è più antico, datato all’epoca monarchica (tradizione Jahvista). La risposta è semplice: si tratta di una parola di salvezza, come lo è ogni pagina biblica. Questo lo si comprende precisando quando e come i maestri d’Israele sono pervenuti alla sua formulazione: non per via teoretica, che si interroga sulla struttura del reale, bensì per via traumatica, cioè nel momento della storia di Israele che coincide con la distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. ad opera di Nabucodonosor, e quindi in momento nel quale tutti i punti di riferimento sono venuti meno. Lungi dal rinnegare il Dio dell’esodo, Israele non solo ha riaffermato e radicalizzato la sua esperienza del Dio dell’esodo, ma l’ha universalizzata, giungendo all’affermazione paradossale che il Dio di Israele, lungi dall’essere stato sconfitto dal dio dei Babilonesi, come voleva la logica del tempo secondo la quale la sconfitta di un popolo coincideva con la sconfitta del suo dio, è il Dio di tutte le genti e della stessa potenza babilonese responsabile della distruzione di Gerusalemme. È questa la ragione per la quale il racconto della storia di Israele si apre con il racconto della creazione che, ultimo nell’ordine inventivo, è diventato primo nell’ordine espositivo.

In questo senso il racconto della creazione è un annuncio di salvezza. Agli esiliati tentati di pensare che, con la deportazione e l’esilio, Dio si era dimenticato del suo popolo, il profeta Isaia annuncia una parola di consolazione (capp. 40-55), dichiarando l’insostenibilità di questo modo di pensare: lungi dall’essere il segno della sconfitta di Dio e del fallimento di Israele che in lui aveva riposto la sua fiducia, la vittoria dei Babilonesi rientra essa stessa nel suo disegno perché egli – il Dio di Israele – è il signore che domina incontrastato su tutti i popoli e sulle cose stesse del mondo. Se signore di tutti e di tutto, Dio non si è dimenticato di Israele ma continua a stare al suo fianco, come ha fatto con la liberazione dall’Egitto e la traversata nel deserto, esigendo da lui, come sempre, la fede fiduciale e l’obbedienza operante. Affermazione della signoria universale di Dio, la creazione biblica è affermazione che, nel mondo, egli dispone amorevolmente di tutti e di tutto. La storia della salvezza non gli è sfuggita dalle sue mani, ma la governa secondo vie che solo lui conosce: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore» (Is 55,8).

Nella sua prima lettera Pietro, ai cristiani che soffrono ingiuste persecuzioni, scrive: «Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio, si mettano nelle mani del loro Creatore fedele (pistos ktistês) con il fare il bene» (1Pt 4,19)[1].

Memore di quanto Gesù ha fatto sulla croce, quando ha messo il suo spirito nelle mani del Padre (Lc 23,46), l’apostolo esorta i cristiani perseguitati a ispirarsi all’esempio del Pastore e Vescovo delle nostre vite (1Pt 2,21.25). Il Padre è, dunque, il Creatore fedele.

Infine nella sua fedeltà il Creatore porterà a compimento l’opera della creazione e della salvezza, che costituiscono un tutt’uno. Le Scritture parlano di «nuovi cieli e nuva terra»[2], di una “creazione nuova”.

L’escatologia è già iniziata con il mistero pasquale. Si comprende come Pietro possa dire che non c’è altro nome, al di fuori di Gesù, che sia dato agli uomini sotto il cielo, in cui sia posta la nostra salvezza (cfr. At 4,10-12). Il fatto che l’escatologia sia già iniziata, ma non ancora compiuta, condiziona ovviamente il nostro cammino, lo rende più faticoso, lo limita fra le lentezze, le incomprensioni e le sordità. Per noi, però, valgono le parole di Col 3,1-4:  «Se dunque siete risorti con Cristo (nella fede battesimale), cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alla cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria». Siamo perciò esortati a vivere il già dell’essere risorti con Cristo, anche se il compimento si avrà alla fine della storia, nell’escatologia.

 

Il creato bello e buono

Passiamo ora a contemplare come Dio crea; egli è colui che vuole sempre e solo il bene e il bello. Dalle sue mani può uscire solo bontà e bellezza.

a) Genesi 1,1-2,4a

• La prima e originaria componente del nostro mondo è l’iniziativa libera e gratuita di Dio, il quale ha creato e continua a creare il mondo bello e buono (= «tob»: Gen 1,4.10.12.18.21.25.31; cf. Es 2,2; At 7,20; Eb 11,23) e continua a mantenerlo nell’essere. • Agisce mediante lo Spirito Santo sul caos primordiale (thou whabou): “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (v. 2)[3]. È interessante l’arricchente traduzione che leggiamo nel targum di questo versetto (traduzione in aramaico del testo ebraico): “lo Spirito dell’amore dal volto di Dio soffiava sulle acque). Molto bella è anche la traduzione siriaca: “Lo Spirito di Dio covava sulle acque”; chiara allusione di una chioccia che cova le uova per esprimere l’idea che lo Spirito agisce sul thow whabou (rappresentato ciò che c’è all’interno dell’uovo fecondato) finché non prenda forma quell’opera meravigliosa e ordinata che è appunto la creazione.

È lo stesso Spirito che allude a una nuova creazione dopo il diluvio universale, il thow whabou dovuto al peccato dell’uomo (cfr. Gen 8,2).

È lo stesso Spirito che inaugurerà la storia della salvezza (senza lo Spirito Abramo non avrebbe potuto accogliere la chiamata di Dio e intraprendere il cammino dall’idolatria alla fede nel Dio che lo chiamava) e l’accompagnerà.

• La bellezza e bontà della creazione è il frutto di una duplice azione divina:

- quella di separare (o distinguere) un caos informe («tohu wa-bou»: Gen 1,2). Così Egli separa la luce dalle tenebre (v. 4), le acque che sono sopra il firmamento da quelle sotto il firmamento (v. 7); il mare dall’asciutto (vv. 9-10)

- quella di chiamare (per 7 volte) all’esistenza con la semplice sua parola.  – la luce («sia la luce»: v. 4), il firmamento («sia il firmamento»: v. 6), la vegetazione sulla terra (vv. 11-12), le luci nel cielo (sole e luna) e le stelle (v. 14), i pesci e gli uccelli (vv. 20-21), gli esseri viventi sulla terra secondo la loro specie (vv. 24-25) e, infine, l’uomo (vv. 26-27) – e dare dei nomi alle creature: «chiamò la luce giorno e le tenebre notte» (v. 4); «chiamò il firmamento cielo» (v. 8); «chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare» (v. 10). Il nominare non significa solo esercitare un potere sulle cose, ma dare loro senso, fissare il loro significato primigenio e rivelarlo pubblicamente). Fa le creature secondo la loro specie, assegna loro dei fini, le colloca nel creato, le distribuisce, ed esse prendono forma, rispondendo alla potenza della sua parola. Il passaggio dall’«insensato» al «sensato» è la condizione indispensabile per la bellezza del mondo. Il caos diventa cosmo.

• L’armonia della creazione è anche simboleggiata dall’idea che nei primi tre giorni della creazione (essa è scandita sull’asse temporale di 7 giorni) Dio crea, per così dire, le “tre stanze” dell’universo (esso infatti immaginato come un palazzo a tre piani), ossia (partendo dall’alto) il cielo, la terra e gli inferi, mentre già nel terzo giorno e nei seguenti Dio si dedica ad “abbellire” tali stanze con le creature che pone in esse, ciascuna al suo posto: nel cielo pone il sole, la luna, le stelle e gli uccelli; sotto la terra pone gli animali marini; sulla terra pone gli animali terrestri e l’uomo. In quest’unica “stanza”, però, ha pensato ad una convivenza pacifica, armoniosa, tra l’uomo e gli animali; infatti assegna ai due una dieta diversa: all’uomo dà come cibo «ogni erba che produce seme… e ogni albero in cui è il frutto», mentre agli animali dà «ogni erba verde» (v. 29). Così non ci sarà alcun motivo di contrasto.

• Si è anche osservato che la perfezione delle creature è progressivamente ascendente nell’essere. Soltanto nel quarto giorno la benedizione di Dio raggiunge i viventi (Gen 1,22.28), dal momento che la vita e la facoltà di generare è un dono specialissimo di analoga partecipazione a una qualità propria di Dio: la Vita (Gen 2,2-3,9; cf. 3,22-24). • Alla fine del sesto giorno, la confusione inerte dell’inizio ha ceduto il posto alla bellezza delle schiere ben allineate del cielo e della terra. Il giudizio di Dio, che contempla la sua opera è questo: «è cosa buona» (cf. vv. 10; 12; 18; 21; 25). Le creature sono belle/buone, in esse Dio trova diletto, le ama. E in particolare si compiace della vita dell’uomo, creato ad essere «immagine e somiglianza» come coppia, nella dualità maschio e femmina. Agli occhi di Dio questa è molto buona. La dualità indica un compito e una vocazione da realizzare: diventare uno per comunione, come lo è Dio nella Trinità[4].• Un'osservazione del testo, ci sembra anche molto interessante: il numero che domina tutto lo schema è il 7 e anche le parole importanti ricorrono con questa frequenza: il v.1 ha 7 vocaboli; il v. 2 ne ha 14 (7+7); la formula «Dio vide che era cosa buona» ricorre 7 volte; «E così avvenne» torna 7 volte; «Dio fece» torna 7 volte; il nome di Dio ricorre 35 volte (7x5); termini importanti come «cielo», «firmamento» e «terra» tornano 21 volte ciascuno (7x3); l’ultima parte, quella che parla del settimo giorno, comprende tre affermazioni di 7 parole ciascuna (7+7+7). E siccome il 7 è il simbolo della perfezione, il narratore, con tale cura meticolosa del testo, ci vuole dire che la creazione che esce dalle mani di Dio è davvero una meraviglia.• Dio crea mediante la Parola («Dio disse») e lo Spirito, le “due mani” della creazione”. Parola e Spirito agiscono in maniera indissolubile. La parola di Dio è efficace: compie ciò che dice. Il Nuovo Testamento ci dirà che Gesù – Parola del Padre, il Verbo fatto carne - è il mediatore della creazione. Tutto fu fatto per mezzo di lui. In 1Cor 8,6 testo che raccoglie forse un’affermazione pre-paolina, leggiamo: «... per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui». Il Padre appare come la fonte ultima e Cristo è il mediatore, cioè per mezzo di lui tutto è stato fatto. Se la salvezza ha la sua origine fontale dal Padre («E’ stato Dio [Padre] infatti a riconciliare in sé il mondo in Cristo...»2Cor 5,19) e si realizza mediante Gesù, lo stesso ordine si ha nella creazione: l’origine fontale rimane il Padre; e, come Cristo è mediatore nella salvezza, così la creazione avviene mediante il Figlio (cfr. anche Gv 1,3.10; Eb 1,2-3).

Si noti, a questo proposito, che la prima creatura della creazione è la luce: «Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu». Ma c’è qualcosa di strano in questo testo, perché non si sta parlando della luce del sole. Il sole verrà creato al quarto giorno. Allora a cosa si sta alludendo? A Cristo, Mediatore nella creazione e nella salvezza, che inviato dal Padre a vincere le oscurità del mondo, è luce per gli uomini. «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. […] Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,4-5.9-10). La luce vera. Gesù stesso dirà di sé: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). E San Paolo scriverà: «E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2Cor 4,6). Ed esorterà i cristiani: «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce» (Ef 5,8).

Di più: non solo Cristo è mediatore della creazione, ma è anche la causa finale (cfr. Col 1,15-20; 1,3-10. 22s; Rm 11,36): tutto il creato va verso di lui. Nella lettera ai Colossesi la relazione della creazione a Cristo viene espressa con tre preposizioni: in lui (v 19), per sottolineare che Cristo è il principio vitale di ogni creatura; per mezzo di lui (v. 16), per indicare che Cristo come mediatore della creazione; in vista di lui sono state create (v. 16), per presentare Cristo come fine di tutta la creazione.

Nella lettera agli Efesini Paolo afferma che il Padre crea con l’intenzione di ricapitolare ogni cosa in Gesù Cristo, facendoci figli nel suo Figlio (cfr. Ef 1,3-10.22s). Il Padre ha pianificato ogni cosa per poterci trasmettere la filiazione “adottiva”[5] in Gesù Cristo. Fin dall’eternità Dio ci ha predestinati «ad essere suoi figli adottivi, tramite Gesù Cristo» (Ef 1,5). Quando il Padre ha creato il mondo, ad animare la sua forza creatrice è stato un amore paterno che desiderava donare a se stesso dei figli nel Figlio unigenito, Cristo. Colui che ha creato il primo atomo o la materia che nella sua espansione ha formato lo spazio dell’universo, voleva fondamentalmente dare un posto in questo spazio ai propri figli. È l’opera creatrice di un Padre che ha voluto estendere la sua paternità a innumerevoli esseri e donare ad ognuno un amore personale. L’ordine della creazione e l’ordine della salvezza non si possono dunque separare. La creazione cammina verso Cristo perché il lui trova pienezza.

• La creazione è quindi un’opera Trinitaria. Nel secondo concilio di Costantinopoli (553) troviamo la formulazione: «Un solo Dio è Padre dal (™x) quale tutto procede, un solo Signore Gesù Cristo mediante (di¦) il quale tutto è stato fatto (cfr. 1Cor 8,6), uno Spirito Santo nel (en) quale tutto è stato fatto»[6].• Si noti anche che l’espressione «Dio disse» appare per 10 volte in questo brano. 10 volte come le “10 parole” d’amore dell’alleanza del Sinai (i “comandamenti”). Inoltre Dio pone le “condizioni” dell’alleanza subito dopo la creazione dell’uomo («del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete» - Gen 3,3). E infine Dio ha posto la creazione in 6 giorni per lasciare il sabato libero, segno del patto dell’alleanza (cfr. Es 19,3-6). Il sabato è il giorno del compimento della creazione e insieme il giorno della pienezza destinato all’uomo, cioè alla piena e definitiva comunione con Dio come chiaramente esorta Eb 4,1-11 («entrare nel riposo»). A questo settimo giorno della creazione si riferirà il comandamento biblico tramandatoci nel libro dell’Esodo: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro» (Es 20,8-11).

In questa prospettiva dell’alleanza si può così meglio comprendere il senso teologico della creazione, cioè il suo essere finalizzato al patto di amore tra Dio e il suo popolo. Gli stessi profeti nell’AT usano il linguaggio di creazione per parlare dell’agire salvifico di Dio che con l’esodo “costituisce” e “forma” il suo popolo[7].

Questo forte riferimento all’alleanza ci deve stupire proprio perché questo testo della creazione risale alla scuola sacerdotale (periodo esilico)[8]. L’obbedienza alle “parole” di Dio significa ordine e vita:  ordine nell’intero universo, facendo sì che dal caos emerga una realtà in cui è possibile vivere, e ordine e vita per l’uomo che vive l’alleanza. Il Salmo 19 sembra riprendere questo tema con un parallelo tra l’ordine della creazione e l’ordine che si compie nel cuore dell’uomo con l’osservanza della Legge del Signore.

In Cristo si compie la nuova alleanza. Nuova perché un popolo rinnovato nel cuore sarà fedele all’alleanza in Cristo; alleanza che si apre a tutte le nazioni: ebrei e pagani formano un solo popolo (Ef 2,14), un solo corpo (Ef 2,16), un solo tempio santo nel Signore, una sola dimora di Dio per mezzo dello Spirito (Ef 2,21-22).

• Dicendo che Dio creò ogni cosa in 7 giorni, si vuole dire: a) che anche il tempo è una creatura di Dio; b) che il tempo è l’ambito concreto, storico in cui l’uomo vive in relazione con Dio, è “sacro” perché Dio ha operato ed opera sempre. Dio non lo si incontra tanto nello spazio (es. nel tempio), quanto nel tempo. Lì è il luogo nel quale possiamo sempre incontrarlo.

Inoltre si noti noti l’armonia con la quale l’uomo vive nel creato, nel tempo: il sole segna gli anni, la luna i giorni e le stelle le feste liturgiche[9]. Se Dio lo si incontra nel tempo, per eccellenza le feste, la liturgia, è un “luogo” peculiare dell’incontro con Lui. La tradizione sacerdotale nel libro del Levitico dà molta importanza alle feste liturgiche. Se è vero che il cristiano è chiamato a dare a Dio un culto spirituale con la propria vita, ciò non diminuisce l’importanza della liturgia celebrata dalla Chiesa, in particolare quella celebrata nel giorno del Signore, la domenica, nella quale l’eucaristia è il “culmen et fons” della vita della Chiesa.

• Si noti che vi è anche una certa distribuzione che Dio fa del suo potere nella creazione, quasi un decentramento del suo ruolo di Creatore. Egli non crea, belli e fatti, tutti i viventi, le piante, gli animali, gli uomini, le donne possibili, ma dice: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie» (Gen 1,12). L’erba della terra, poi, e i frutti degli alberi sono destinati a nutrire i viventi.

Il creatore benedice gli esseri acquatici e i volatili, dicendo loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mare; gli uccelli si moltiplichino sulla terra» (Gen 1,22). E quanto all’uomo, Dio li benedice e dice loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra…» (Gen 1,28).

Le creature, dunque, collaborano nella creazione con il Creatore. Ed anche nell’opera della salvezza il Risorto, che ha ricevuto dal Padre “ogni potere in cielo e sulla terra” (Mt 28,18), quel potere universale che il diavolo falsamente gli offriva nella tentazione nel deserto in cambio di una prostrazione, rende partecipi gli apostoli (e la Chiesa intera) della sua missione salvifica: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 18,19-20). Portare gli uomini a Gesù vuol dire salvarli, vuol dire portarli alla vita.

b) Genesi 2,4b-25

Nel secondo racconto di creazione, più antico del primo, la dinamica del gesto creatore è concepita e descritta diversamente. Il primo racconto comincia dal caos e dalle minacciose acque primordiali. Nel secondo si parte dal più arido deserto, ostile alla vita, dove l’acqua è una benedizione. Il termine dell’azione creatrice è la trasformazione del deserto in un’oasi favolosa, ricca di acque e di minerali preziosi: un giardino in ‘Eden (gan-be‘Eden, interpretato come “delizia”), piantato da Dio, per collocarvi lo ‘Adam (l’uomo).

Con una simbologia più antropocentrica di quella del primo racconto troviamo qui il medesimo insegnamento: sotto l’azione divina il caos – non più quello acquatico, ma desertico – diventa cosmo per accogliere lo ‘Adam (cf. vv. 8.15-16).

 

La creazione dell’adam

a) Il racconto di Genesi 1,26-31

Nella scala progressiva delle opere dei primi sei giorni, la creazione giunge all’essere umano: ’Adam, ha’Adam, il fangoso, il terreno (Gen 1,26.27). Egli è fatto a immagine (selem) e somiglianza (demut) di Dio in due edizioni: maschile («zakhar») e femminile («neqevah») (Gen 1,27; 5,1-2; 2,18-25; Sap 2,23; 2Pt 1,4).

In ebraico il vocabolo immagine rimanda ad una statua che, nel realismo simbolico semitico, indica la vicinanza al soggetto raffigurato; il vocabolo somiglianza indica invece la distanza ed esclude l’identità totale. L’uomo è, perciò, la rappresentazione più somigliante di Dio che si possa concepire, ma non è Dio. E, come ogni rappresentazione non si può comprendere se non in rapporto al suo modello, così non si può comprendere l’uomo se non in rapporto e in dipendenza da Dio. È una creatura costitutivamente limitata (l’immagine ha in se stessa qualcosa di fragile, di debole, di corruttibile), ma allo stesso tempo ha in sé una valenza di eternità (il rapporto costitutivo con Dio che lo fa essere tale, l’Interlocutore per eccellenza dell’uomo).

Tutto l’uomo è immagine di Dio; lo è in tutta la sua realtà fisica e psichica. Ma il duplice Adam è chiamato a realizzare l’immagine di Dio, semplicissimamente e supremamente Uno (cf. Dt 6.4), mediante una mutua conoscenza e comunione d’amore («yada’»: Gen 4,1.17.25), in modo che i due sappiano diventare «una sola carne» («ba-sar»).

b) La creazione dell’uomo secondo Genesi 2,4b-25

Il documento jahwista, cui dobbiamo Gen 2,4b-25, concentra la sua attenzione sulla creazione dell’uomo. La centralità dell’uomo nel cosmo è evidente: il testo sottolinea come attorno a lui Dio crea il “giardino”[10].

La fede creazionistica di J vi appare con colori nitidi. L’uomo è un essere plasmato da Jhwh come la creta dal vasaio (2,7). È stato fatto con la polvere del suolo (Gen 2,7) e questo suo radicamento terreno (vedi la correlazione di 'adam - 'adamah: uomo-terra) lo rende essere mortale: «...finché tornerai nel suolo, perché da esso sei stato tratto, perché polvere sei e in polvere devi tornare!» (3,19).

L’uomo non ha in sé la sorgente della vita: egli attinge infatti la vita dal soffio di Dio. La chiave della sua esistenza non è quindi nelle sue mani. Dio solo possiede la vita in proprio (cf. Gen 3,22-24; 6,3). Che il frutto dell’albero della vita sia a disposizione dello ‘Adam (al centro del giardino: v. 9) sta a significare la sicura accessibilità dell’uomo alla vita, e al tempo stesso la sua precarietà. Per restare vivente, e immune perciò da ogni potere della morte («immortale»), basterà che egli non si allontani dal giardino (l’ambiente in cui il Creatore lo ha posto), rimanendo in comunione con il Signore che lo ha animato con il suo soffio e lo nutre con la sua ospitalità (cfr. Gen 3,22.24).

«Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato»” (v. 8). Qui Dio sembra un po’ un padre e una madre che con tanta cura prepara tutto il nuovo arrivato. Il creato è come una culla preparata con amore, un ambiente con tanti alberi e acqua abbondante per assicurare all’uomo la vita.

«Poi il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo…”» (v. 18). L’uomo creato (in ebraico “ish”) non fu felice perché non trovò «un aiuto che gli corrispondesse» (v. 20). Adamo è solo, la sua è una solitudine sofferta a cui non sa dare rimedio e risposta. L’uomo di solitudine muore. Allora Dio disse una sentenza: «non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gen 2,18). Nel sonno, nel torpore, nel venir meno della coscienza, Dio opera e crea la donna. Solo al risveglio Adamo conosce colei che Dio ha posto accanto a lui. La conosce con meraviglia, favorevolmente “sorpreso”, perché «essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa». La sorpresa di Adamo descrive lo stupore dell’innamoramento. Innamorarsi è scoprire una prossimità tra uomo e donna assolutamente inaspettata, che essi riconoscono come donata. Il racconto della Genesi continua con la narrazione del riconoscimento della donna da parte dell’uomo. «Questa volta la si chiamerà donna» (in ebraico “ishsha” = uomo al femminile) (Gen 2,19).  È insieme la decisione, l’atto della libertà, è il consenso alla vita con lei. L’uomo e la donna, qui concretamente il marito e la moglie, sono la versione maschile e femminile di un’unica realtà. Sono l’uno di fronte all’altra, ed entrambi davanti a Dio, in dignità “simile”, in esultante comunione di vita, in confidente reciproco aiuto.

Un’ulteriore riflessione sull’espressione  un aiuto (per l'uomo, ma anche viceversa) che gli corrisponda» si impone. La parola ebraica “aiuto” appartiene al lessico dell'alleanza, e viene spesso riferita a Dio (“YHWH è mio aiuto”...); quindi “aiuto” indica il partner o alleato, ed esprime la relazione giusta che deve intercorrere tra l'uomo e la donna; nessuna fusione come sognata dall'amore romantico. L'alleato sta di fronte al partner in un reciproco rapporto d'amore nell'uguaglianza.

Anche il secondo termine biblico, kenegdô, che è reso dalla CEI con l'espressione “che gli corrisponda” è molto importante. Secondo una corrente interpretativa giudaica che arriva fino al grande commentatore Rashi (1040-1105), implica l'idea di un aiuto che la donna potrà dare all'uomo in quanto capace anche di opporsi a lui. Anche se non si deve esagerare, questa lettura rivela qualcosa di importante sulla dinamica maschile-femminile all'interno della coppia umana. Anche l'evitare che l'altro compia degli errori, che faccia delle cose non appropriate per sé o per gli altri, è un modo di amare.

«Per questo – commenta l’autore biblico - l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (v. 24). L’essere “una carne sola” è il progetto divino sulla coppia. Essere “una carne sola” è segno e vocazione di una chiamata all’Amore che viene da molto lontano, dalla sorgente stessa dell’amore (Dio) e che faticosamente si traduce nella vita nuova a cui i due danno origine. Il matrimonio, infatti, è sempre un inizio di qualcosa di diverso rispetto a prima, un compito da eseguire al di là delle istruzioni ricevute, un rischio da assumersi, un patto da rispettare: un’alleanza.

Sappiamo che Gesù, nella controversia con i farisei che volevano metterlo alla prova sul matrimonio risponde riprendendo questo versetto: «Dall’inizio (in principio) della creazione li fece maschio e femmina (cfr. Gen 1,27); per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre…» Mc 10,7-8; Mt 19,5-6. Quel «Dall’inizio (in principio)», che richiama il “In principio” di Gen 1,1, non riguarda solo un ordine temporale, ma anche intenzionale.

«Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen 2,25). Il fatto che i due, pur nella loro nudità, al cospetto di Dio Creatore non provassero vergogna non è da comprendere secondo una mentalità puritana. La nudità, nel linguaggio biblico, non ha nulla a che fare con la sfera della sessualità ma è la condizione di chi si riconosce povero e bisognoso. Questa coppia, all’inizio della sua storia, posta davanti a Dio, è consapevole della propria condizione di inesperienza e di incapacità, ma non per questo “ne provavano vergogna”. Cioè non ne erano confusi e scoraggiati, non si sentivano umiliati e amareggiati. Anzi! La meravigliosa scoperta che avevano fatto l’uno dell’altra, lo sguardo compiacente di Dio che si posava su di loro, l’avvenire nuovo che avevano davanti... tutto infondeva forza e ispirava fiducia. Erano sereni e confidenti, nonostante il senso della loro iniziale inadeguatezza. Affrontavano la loro vita insieme con slancio fiducioso.

 

La relazione dell’adam con la terra

L’Adam giusto - maschile e femminile - così come il Signore Dio lo ha fatto, e lo continua a volere, a fare e a collocare nel mondo bello e buono creato da lui (cf. Gen 2,15), è strutturato secondo tre relazioni fondamentali:

1) Al di sopra, con il Signore Dio, secondo un rapporto di adorazione, di ospitalità e di amicizia riverente e obbediente (Gen 1,28-30; 2,16-17; 3,8-9). Il nome del Creatore è duplice: Elohim («Dio») in Gen 1,1-2,4 e JHWH («il Signore», Adonay) in Gen 2,4-25 (cf. Gen 4,26).

2) Al suo fianco (Gen 2,21), con l’altro termine dell’«Adam», il suo simile, che sempre gli sta di fronte per aiutarlo (Gen 2,18.20): il «vir» («ish», maschio, «uomo») rivolto verso la «virago» («ishshah», femmina, «donna»), e viceversa. Il Creatore li ha consegnati e li consegna l’uno all’altra per una comunione d’amore (Gen 2,22), in mutua e totale fiducia, significata dalla loro nudità senza imbarazzo (Gen 2,25).

Questa coppia originaria e primordiale (cf. Sir 42,22-25) sta a significare anche l’essenziale relazione di ciascuno di noi (uomo o donna) con il suo simile (donna o uomo); e dunque pure del fratello/sorella con il fratello/sorella (cf. Gen 4), all’interno della grande comunità umana, che appunto è fatta per essere elevata fino all’unità mediante una comunione di amore. La piena immagine di Dio, un compito da realizzarsi da tutti gli esseri umani, è l’intera umanità divenuta comunità umana. Di questo «divenire uno» di tutti gli uomini la Chiesa è, fin d’oggi, fragile ma sicuro sacramento, povera ma chiara profezia. L’ultimo sigillo, poi, di questo testo genesiaco verrà aperto dall’Agnello immolato e vittorioso con la rivelazione inaspettata di come Dio sia uno in noi, comunione di conoscenza e di amore, di luce e di fuoco.

3) Al di sotto, con la terra e con i suoi beni. La terra, così come Dio l’ha creata, e continua a uscire ogni giorno dalla sua volontà, è un «giardino di delizie» («gan-Eden»: Gen 2,15; 3,23-24), e il duplice Adam vi è posto da Dio, perché lo coltivi «‘avad»: il verbo ebraico che designa pure il «culto del Signore Dio») e lo custodisca «shamar»: Gen 2,15): una destinazione al lavoro, inteso come missione cultica, assegnata da Dio all’umanità, da realizzarsi mediante l’interpretazione (= i nomi da assegnare: Gen 2,19-20) e l’utilizzazione ecologica del creato, sotto lo sguardo benevolo del Creatore (Gen 1,29-30; 2,18; 3,8-9). Se, infatti, il mondo è stato donato da Dio all’uomo, Dio coinvolge l’uomo – creato a sua immagine e somiglianza – nella sua volontà di donazione: non solo destinatario che riconosce e ringrazia perché tutto è grazia, bensì suo partener che con-crea con Lui il mondo ridonandolo agli altri esseri umani. Allora con tutta la creatività, l’ingegno dell’uomo,  il mondo creato “sette volte buono”, cioè totalmente buono, è posto nelle mani dell’uomo perché esso venga perfezionato al servizio degli altri uomini nella fraternità.

È da notare che, per quanto riguarda il nutrimento, in Gen 1,29-30 risulta che tutti gli esseri viventi sono vegetariani (1,29-30). Gli animali e gli uomini però non mangiano le stesse piante, poiché l’erba come tale è riservata ai primi, mentre le piante con semi e gli alberi con frutti saranno il cibo degli uomini. Non vi sarà quindi alcuna occasione di conflitto fra questi esseri viventi. Almeno, questo era il disegno divino per evitare ogni tipo di violenza. L’universo del racconto sacerdotale della creazione è un universo armonioso e pacifico.

 

Profezia di Cristo e della Chiesa

Abbiamo già visto che nel secondo racconto (Gen 2,4b-25) si racconta che la donna viene tratta dall’uomo. Dio fece cadere sull’uomo un sonno profondo, tardēmāh, reso dalla LXX con éks asis, che, letteralmente, significa «uscita da sé». Il termine ṣēlā, in greco pleurá, vuol dire costola ma anche fianco, e, deriva dal sumerico ti (o til), che significa sia costola che vita7. Secondo l’esegeta Rashi (1040-1105), ṣēlā è da leggersi in riferimento al «secondo lato della Dimora» (Es 26,20). Si tratta della Tenda della Testimonianza o Tabernacolo oppure Tenda di YHWH (ōhel YHWH), cioè, il santuario portatile, in cui era custodita l’Arca dell’alleanza (che a sua volta conteneva le due tavole della Legge), segno della presenza della gloria di YHWH in mezzo al suo popolo (cioè, la Shekhinah), e che verrà, poi, sostituito dal Tempio di Salomone a Gerusalemme.

Ora possiamo vedere questa tenda una prefigurazione della vera Tenda: «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,4), e del vero tempio: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Ma egli parlava del tempio del suo corpo (Gv 2,19-21).

Secondo il profeta Ezechiele dal lato destro del tempio esce un fiume d’acqua abbondante, che dà vita (Ez 47,1); è prefigurazione di ciò che avverrà sulla croce: «Uno dei soldati con un colpo di lancia gli trafisse il fianco (pleura) e ne uscì subito sangue ed acqua» (Gv 19,34).

Cristo, prefigurato nell’adam, è il vero tempio, nel quale si consuma il sacrificio perfetto, che cancella i nostri peccati. È lui la vera Tenda che dimora tra gli uomini, il vero Tempio fatto dal Signore e innalzato sulla croce, dal cui fianco (lato destro del tempio, Ez 47,1) scaturisce sangue ed acqua. Osservando in filigrana le prefigurazioni – cioè, i tipi o le ombre – scorgiamo la realtà vera, cioè, il corpo di Cristo. Come dal fianco di Adamo, caduto in un sonno profondo, in estasi («uscita da sé»), Dio trae la donna (che, poi, sarà chiamata Eva, cioè, vita, poiché è la madre di ogni vivente), così dal fianco squarciato del vero Adamo, innalzato sulla croce, nasce la Chiesa sua Sposa, che, mediante l’acqua e il sangue, segni del Battesimo e dell’Eucarestia, genera nuovi figli di Dio, per cui essa è la vera «Madre dei viventi». L’unione tra Cristo e la sua Chiesa è tale da formare una sola carne, un solo corpo, di cui Cristo è il capo e noi le membra.

Se, dunque, Adamo è, «figura di colui che doveva venire» (Rm 5,12), cioè, di Cristo, Eva è figura della Chiesa, cioè, della comunità dei credenti che aderiscono a Cristo, mediante il suo sacrificio, formando con lui una sola carne, un solo Corpo mistico. Come l’uomo si unisce alla donna e i due diventano una sola carne, così il Verbo si fa carne (Gv 1,14), sposa la natura umana per sempre, secondo quanto sta scritto: «Il Cristo rimane in eterno» (Gv 12,34). Perciò, la Scrittura dice: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie» e, poi, «i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24). Generalmente era la donna che lasciava la casa di suo padre per entrare nella casa di suo marito. Qui, invece, è l’uomo, che abbandona suo padre e sua madre per unirsi per sempre alla sua donna; è l’uomo che va verso la donna, come nel Cantico: «Lo strinsi forte e non lo lascerò, finché non l’abbia condotto nella casa di mia madre, nella stanza di colei che mi ha concepito» (Ct 3,4).

 

[1] Cfr. 1Pt 2,15-20; 3,6.13-17.

[2] Cfr. Is 65,7; 66,22; 2P 3,13; Ap. 21,1.

[3] L’idea della creazione delle cose «dal nulla» apparirà più tardi, quando la Sapienza di Israele incontererà la sohia ellenistica.  La creazione delle cose «dal nulla» esprime una grande verità: che la libertà di Dio nella creazione è una libertà assoluta: ha creato senza costrizione, cioè senza necessità interna (Dio non ha bisogno di uscire da se stesso per perfezionarsi. Egli ha in se stesso la pienezza) né esterna. Troviamo un chiaro riscontro nella Scrittura: «Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto» (Sal 115,3); «Tutto ciò che è piaciuto al Signore egli lo ha fatto, in cielo e in terra» (Sal 135,6); «Dio che opera tutto secondo il disegno della sua volontà»; «Le cose esistono e hanno avuto origine in forza della sua volontà» (Ap 4,11).

Nel NT troviamo, curiosamente, solo un testo in cui  si parla della creazione dal nulla, legandola alla fede di Abramo e, in ultima istanza, alla fede nella risurrezione di Gesù: «[Abramo è nostro padre] davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,17).

[4] Si noti quel “noi” del testo biblico: «Facciamo l’uomo a nostra immagine». Può essere semplicemente spiegato come un noi maiestatico. Ma i padri della Chiesa hanno visto in quel noi anche un riferimento alla vita trinitaria.

[5] In realtà essere figli nel Figlio non vuol dire essere “figli adottivi”. Significa piuttosto che il Padre, come ha generato Gesù nella morte, costituendolo «Figlio di Dio nella potenza secondo lo spirito di santificazione» (Rm 1,3s; cfr. anche At 13,33: «Dio ha fatto risorgere Gesù, com’è scritto nel salmo secondo: “Tu sei mio Figlio, oggi ti genero”», genera anche noi come figli. Ci risuscita con Lui, non ci adotta, ci genera. Giacché in Cristo la risurrezione non è un’adozione. Dio è Padre-Creatore, non Padre adottivo: «Siamo sua opera, creati in Cristo Gesù» (Ef 2,10).

Poco prima, in Rm 8,15, Paolo usa un’espressione che solitamente viene tradotta: «spirito di figli adottivi», e che sembra contraddire quanto appena detto. Ugualmente Gal 4,5 viene spesso tradotto: «Dio inviò suo Figlio perché ricevessimo l’adozione a figli». Il termine usato da Paolo (uiothesía) significa «adozione» nel greco profano. Ma Paolo intende la parola nel suo senso etimologico: atto che rende figlio, filiazione. Lui non pensa a un’adozione: «Dio inviò il Figlio suo… affinché ricevessimo la filiazione, e figli veramente siete». E’ vero, la filiazione dei fedeli è diversa da quella di Cristo. Giovanni ne fa sentire la differenza con il vocabolario che gli è abituale: Gesù è «il Figlio», i fedeli sono «i figli». In noi, tuttavia, la filiazione è reale: «Ascendo al Padre mio e Padre vostro» (Gv 20,17). I fedeli non sono figli per adozione, ma per partecipazione a colui che è «il primogenito di molti fratelli» (Rm 8,29).

[6] Denzinger-Schónmetzer (=DS),  421.

[7] Cfr. ad es. Is 43.1.7.15; 44,24; 45,8; 51,9; Sal 95; 104-105; 136; Am 4,13; 5,8s; 9,5s; Ger 32,17; 33,2; Prov. 8,22; Sap 13,1-5.

[8] La tradizione P (o Codice Sacerdotale - Priestercodex) raccoglierebbe testi anche molto antichi, ma sviluppati in epoca post-esilica. Riguarda essenzialmente norme liturgiche e rituali. È predominante nel Levitico.

[9] Si noti che troviamo la categoria nel tempo nel primo giorno (Dio separa la luce dalle tenebre – v. 3 -, ossia dà inizio ai “giorni”), nell’ultimo giorno (il settimo: il sabato, creatura “speciale”) e, al centro, nel quarto, ove si ha la creazione del sole, della luna e delle stelle. Per la Bibbia il tempo (che è una creatura) è molto importante, perché in esso si può incontrare Dio.

[10] L’origine del mondo abitato, concepita come trapasso da un arido deserto a un’oasi allietata dal verde e dall’acqua (Eden), è il “luogo” di vita nel quale Dio pone l’uomo.


Inziamo con questo articolo un tentativo di confronto con la cultura contemporanea  e con il credo delle altre religioni per riscoprire  la fondatezza e la bellezza della nostra fede cristiana. Al giorno d'oggi più che dimostrare che Dio esiste - già tante persone credono che Dio esista, ma lo ritengono influente nella vita quotidiana -, il cristianesimo deve mostrare - sia razionalmente, ma soprattutto con la vita - che Dio agisce nella storia, opera la storia della salvezza. Che credere e affidarsi a Dio ne vale la pena, e il credente sperimenta nella sua vita la fedeltà e la bontà di Dio. Che il Dio che la Scrittura ci rivela non è una riedizione degli antichi dèi, ma è il Dio dell'amore che si è rivelato e ha intrapreso un dialogo, anzi un'alleanza, con l'umanità. 

Il cristianesimo crede in un solo Dio. È possibile che nell’AT ci siano «rimasugli» di una fede politeista? La critica viene da Odifreddi che sa bene che per designare Dio l’AT usa più nomi: El, Elohim e Eloah (nomi ebraici), Theos e Kyrios (termini greci), YHWH (nome proprio per indicare il Dio d’Israele). Notando che Elohim è al plurale (sarebbe da tradurre “gli dei”), e che Eloah (al singolare) è il nome della principale divinità dei Cananei, chiamata anche “toro” o “vitello”, pensa che quest’ultimo nome non è altro che «un fossile del politeismo che vigeva nella terra di Canaan e che fu evidentemente ereditato dagli Ebrei del regno settentrionale di Israele». Per cui afferma: «la storia di Elohim è dunque quella del dio di Israele, nel senso specifico del regno del nord» (p. 14). Inoltre, per il quanto riguarda il nome Adonai, che gli ebrei utilizzano per “leggere” il tetragramma YHWH, sarebbe un plurale possessivo derivato da Adon, dio dei fenici, popolazione del sud. Quest’ultimo sarebbe anche all’origine del greco Adonis, la divinità della vegetazione che annualmente nasce, vive, muore e risorge. Che dire?

Anzitutto bisogna dire che il termine El (che ricorre circa 240 volte nell’AT), usato non solo dai cananei, ma in genere dai popoli semiti, nell’etimologia originale designa Dio in maniera probabilmente vaga. Per cui l’AT lo utilizza per indicare genericamente sia il Dio degli altri popoli, sia il proprio Dio, che per Israele è YHWH. È tuttavia anche vero che El appare come nome personale del capo del pantheon di Ugarit; può darsi che il nome rifletta una concezione originale per la quale El era il dio veramente supremo e le altre divinità erano figli o figlie di El.

Il termine Eloah è piuttosto raro, e appare per lo più in poesia.

Il termine Elohim (usato circa 2600 volte dall’AT!) è plurale nella forma, ma è usato anche per indicare un unico essere divino: sia il Dio d’Israele (e in questo caso il verbo che ha per soggetto Elohim è coniugato al singolare, come in Gen 1,1: «In principio Dio creò…») sia gli altri dei. Si noti che (Ravasi, 150 questioni di fede, Mondadori 2010, p. 137)il plurale, anche per le altre culture che pure avevano concezioni politeistiche, non indicava necessariamente una molteplicità. Poteva, infatti, esprime un’«eccellenza», una «maestà», più o meno come accade al nostro «plurale maiestatico», il «Noi» solenne al posto del più normale «io»[1].

Va anche segnalato che nell’AT c’è un ulteriore livello di comprensione e utilizzazione dell’appellativo El-Elohim quando, nelle professioni di fede, al nome proprio e di rivelazione YHWH viene accostato quello di ‘El e, soprattutto, Elohim. In simili casi l’antico appellativo divino si carica di senso nuovo: JHWH è il nostro Dio, con esclusione di qualunque altra divinità o idolo (come nell’introduzione al Decalogo: cf. Es 20,2-3; e così pure nel “credo” fondamentale di Israele, lo Shema’: cf. Dt 6,4 e Mc 12,19.32). Questo è importante, perché per Israele il problema non è l’esistenza di Dio, ma quello di conoscere l’identità di Dio. Il vero e unico Dio è quello che si è rivelato a Israele!

Per quanto riguarda il termine Adonai, non ha importanza se Israele lo abbia preso dai fenici o meno. Anche se lo fosse, ne possiamo capire il perché. Sappiamo, anzitutto, che il Nome (YHWH) venne sostituito solo tardivamente con Adonai, non tanto nel testo scritto, quanto nella pronuncia, mentre cioè lo si leggeva. Non era solo un’alternativa letteraria, bensì un’interpretazione: si fissava in qualche modo un significato (e un volto) allo JHWH della rivelazione sinaitica, quello di “Signore”. Ed è questo lo stesso significato che ha la traduzione greca di tale nome: Kyrios. Per gli ebrei, dunque, non è il dio fenicio o quello greco il vero signore, ma solo YHWH.

 

Che dire poi delle incongruenze tra i due racconti della creazione che, per Odifreddi sono solo dei miti e sarebbero stati semplicemente giustapposti nel testo della Genesi molto tardivamente, nel post-esilio, formando così un «irritante e snervante pasticcio» (p. 25)? Il motivo di tale scelta sarebbe il seguente: «nessuna tradizione poteva essere scartata senza creare risentimento nella parte della popolazione a cui apparteneva» (ibid).

Bisogna prendere i testi per quelli che intendono essere. I due racconti non hanno la pretesa di essere un racconto storiografico, né, evidentemente, scientifico. D’altra parte chi poteva essere testimone oculare della creazione divina per poterla raccontare? E’dunque chiaro che questi racconti non mirano a dare una spiegazione delle origini dell’universo, quanto piuttosto a rivelare il significato del mondo, dato che esso è posto (e viene mantenuto) in essere da Dio. In altre parole, si parla della creazione non tanto per risolvere un eventuale enigma filosofico o scientifico, quanto per indicare il senso che essa e l’esistenza umana hanno. Così essi ci mostrano la bellezza dell’opera di Dio e, in modi diversi, la centralità dell’uomo nel cosmo.

Capiamo, allora, che le incongruenze che Odifreddi lamenta, non creano al credente alcun problema di fede che ben conosce la natura e la finalità di questi testi.

Che significato hanno allora i racconti della creazione?

Abbiamo già visto, nel capitolo 2, in quale prospettiva Israele ha scritto questi racconti. Ora ne diamo una lettura diversa, più attinente al testo in sé.

a) Un primo significato che troviamo nei racconti della creazione emerge chiaramente dal confronto con gli altri racconti mitici (cf. Gesché, Dio, San Paolo 1996, 94ss). Nei racconti delle cosmogonie e teogonie, infatti, l’universo è il risultato non intenzionale (o il frutto di una intenzione cattiva) di una lotta tra dèi rivali, potenze senza nome, forze elementari. E i filosofi pagani conservavano questa stessa concezione, ma la razionalizzavano. Secondo Platone, ad esempio, il nostro mondo è l’ombra degradata del mondo trascendente delle Idee; per Aristotele, è un’autoproduzione eterna; per Plotino, l’emanazione, sempre più decaduta, dell’Uno; secondo Spinoza (Deus sive natura), è la stessa natura (natura naturans) a produrre la natura (natura naturata). In tutti i casi la creazione è un’opera anonima: essa non dipende da nessuno. È fatale e arbitraria, conseguenza inevitabile di un processo non finalizzato. È significativo a questo proposito che il pantheon antico ignori, in modo assoluto, la figura del dio creatore. Il mondo è soggetto ad un destino incontrollabile, irreversibile, sia che obbedisca a un fatum anonimo e onnipotente a cui Zeus stesso è sottomesso, sia che ricalchi le leggi universali, pre-fissate e che non possono essere infrante. A differenza di Zeus, la cui libertà si limita alla realizzazione, spesso irrisoria, di qualche capriccio cosmologico, capriccio d’amore o di guerra, il Dio creatore della rivelazione è un soggetto libero – e dunque l’immagine stessa dell’anti-destino - che crea un mondo nel quale l’uomo è libero. Inoltre tale mondo creato ha un senso e una per una finalità che l’uomo deve scoprire per vivere autenticamente la sua vita in armonia con l’intenzionalità divina.b) I due racconti biblici sottolineano la bellezza e l’armonia del creato nel quale l’uomo è posto. Così nel racconto di Gen 2,4b-25, che è più antico, tutta l’azione di Dio è quella di trasformare il deserto (simbolo di ostilità alla vita) in un’oasi favolosa, ricca di acque (due fiumi: Pison e Ghicon) e di minerali preziosi, con grande abbondanza di frutti, per accogliere l’uomo, lo ‘Adam (cf. vv. 8.15-16).

Nel primo racconto (Gen 1,1-2,4a)[2], invece, oltre all’armonia e bellezza del creato, si insiste anche sulla sua bontà. Per ben 7 volte Dio guarda le opere da lui create ed esprime il suo giudizio positivo: «era cosa buona (tob)» (cf. Gen 1,4.10.12.18.21.25.31).

Questa bellezza e bontà è il frutto di un’azione divina che compie due specifiche azioni:

- quella di separare (o distinguere) un caos informe («tohu wa-bou»: Gen 1,2). Così Egli separa la luce dalle tenebre (v. 4), le acque che sono sopra il firmamento da quelle sotto il firmamento (v. 7); il mare dall’asciutto (vv. 9-10)

- quella di chiamare (per 7 volte) all’esistenza con la semplice sua parola – la luce («sia la luce»: v. 4), il firmamento («sia il firmamento»: v. 6), la vegetazione sulla terra (vv. 11-12), le luci nel cielo (sole e luna) e le stelle (v. 14), i pesci e gli uccelli (vv. 20-21), gli esseri viventi sulla terra secondo la loro specie (vv. 24-25) e, infine, l’uomo (vv. 26-27) – e dare dei nomi alle creature: «chiamò la luce giorno e le tenebre notte» (v. 4); «chiamò il firmamento cielo» (v. 8); «chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare» (v. 10). Chiamare il nominare non significa solo esercitare un potere sulle cose, ma dare loro senso, fissare il loro significato primigenio e rivelarlo pubblicamente). Fa le creature secondo la loro specie, assegna loro dei fini, le colloca nel creato, le distribuisce, ed esse prendono forma, rispondendo alla potenza della sua parola. Il passaggio dall’«insensato» al «sensato» è la condizione indispensabile per la bellezza del mondo. Il caos diventa cosmo.

L’armonia è anche simboleggiata dall’idea che nei primi tre giorni della creazione (essa è scandita sull’asse temporale di 7 giorni) Dio crea, per così dire, le “tre stanze” dell’universo (esso infatti immaginato come un palazzo a tre piani), ossia (partendo dall’alto) il cielo, la terra e gli inferi, mentre già nel terzo giorno e nei seguenti Dio si dedica ad “abbellire” tali stanze con le creature che pone in esse, ciascuna al suo posto: nel cielo pone il sole, la luna, le stelle e gli uccelli; sotto la terra pone gli animali marini; sulla terra pone gli animali terrestri e l’uomo. In quest’unica “stanza”, però, ha pensato ad una convivenza pacifica, armoniosa, tra l’uomo e gli animali; infatti assegna ai due una dieta diversa: all’uomo dà come cibo «ogni erba che produce seme… e ogni albero in cui è il frutto», mentre agli animali dà «ogni erba verde» (v. 29). Così non ci sarà alcun motivo di contrasto.

Si è anche osservato che la perfezione delle creature è progressivamente ascendente nell’essere. Soltanto nel quarto giorno la benedizione di Dio raggiunge i viventi (Gen 1,22.28), dal momento che la vita e la facoltà di generare è un dono specialissimo di analoga partecipazione a una qualità propria di Dio: la Vita (Gen 2,2-3,9; cf. 3,22-24). E nel sesto giorno Dio crea l’uomo, il vertice delle creature create, «a sua immagine» (v. 27), cioè ad immagine di Dio che è Amore.

Si noti anche l’armonia con la quale l’uomo vive nel creato, nel tempo: il sole segna gli anni, la luna i giorni e le stelle le feste liturgiche[3]. Questa vita nel tempo è anche il “luogo” nel quale si incontra Dio. Più che nello spazio l’uomo lo incontra nel tempo, nella storia concreta.

Alla fine del sesto giorno, la confusione inerte dell’inizio ha ceduto il posto alla bellezza delle schiere ben allineate del cielo e della terra. Il giudizio di Dio, che contempla la sua opera è questo: «è cosa buona» (cf. vv. 10; 12; 18; 21; 25). Le creature sono belle/buone, in esse Dio trova diletto, le ama perché a) sono come le voleva; b) sono nei limiti e nelle funzioni che ha loro dato; c) in questa “obbedienza” esse rendono possibile la vita. Queste creature recano diletto a Dio, gioia e sono utili perché rendono possibile la vita.

c) Questo creato bello e buono, infine, è affidato all’uomo. Nel primo racconto Dio gli comanda di soggiogare e dominare la terra (non in senso dispotico, ma come creatura che gestisce con saggezza il creato secondo l’intenzionalità divina) (Gen 1,28)[4], mentre nel secondo racconto Dio pone l’uomo nel giardino «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). E’ interessante notare che nell’immagine del «coltivare» c’è l’idea che il creato, per quanto bello e buono, può essere ancora perfezionato dall’opera dell’uomo, che in un certo qual modo continua l’opera del Creatore; e, inoltre in questo “coltivare” il creato l’uomo – esprimendo le sue potenzialità - perfeziona anche se stesso (questo è il senso del lavoro).d) In questo cosmo c’è una creatura speciale, quella del settimo giorno (primo racconto): il sabato, giorno nel quale Dio «cessò da ogni suo lavoro» (Gen 2,2). È un giorno separato dagli altri, consacrato (qodesh) al Signore. In questo giorno anche l’uomo – come si preciserà chiaramente nel precetto che verrà codificato nel Decalogo donato al Sinai (Es 20,8-11). Chi non lavora il sabato riconosce che c’è un’opera più importante della sua, quella di Dio. La vita è un dono, il tempo è un dono. La vita non è il frutto del lavoro dell’uomo. Il comandamento del sabato ricorda la priorità del dono sulle nostre realizzazioni umane, della gratuità del dono iniziale su tutte le altre iniziative.e) C’è un nesso tra creazione del mondo e alleanza. Si notino i 10 «Dio disse» (vv. 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29) del primo racconto (Gen 1,1-2a) che richiamano le 10 Parole (o comandamenti) del decalogo del Sinai. L’autore di tale testo ha riletto la creazione partendo dal fatto che la salvezza è l’azione storica divina (e il popolo di Israele ha avuto tale esperienza salvifica nell’evento dell’esodo). Il messaggio è chiaro: la creazione è il presupposto estrinseco dell’alleanza, poiché senza di essa non ci può essere alleanza. Viceversa si può dire che l’alleanza è il presupposto intrinseco della creazione: Dio ha cioè creato con l’intenzione di stabilire il rapporto di alleanza con l’umanità.

Più nella prima versione della creazione, e meno nella seconda, sembra che Dio sia un demiurgo che “crea” modellando una materia preesistente («la terra era informe...»: Gen 1,2). La Chiesa però parla di creazione dal nulla. Come conciliare il racconto genesiaco con questa affermazione teologica?

L’idea della creazione delle cose «dal nulla» è molto tardiva. Si ha, infatti, quando la Sapienza di Israele incontrerà la sophia ellenistica. La dottrina della creazione «dal nulla» è importante perché si vuole affermare che la libertà di Dio nell’opera creativa è assoluta: ha creato senza costrizione, cioè senza necessità interna (Dio non ha bisogno di uscire da se stesso per perfezionarsi. Egli ha in se stesso la pienezza) né esterna.

Diverse affermazioni magisteriali hanno affermato tale libertà assoluta di Dio nella creazione, negando quindi ogni forma di necessità. Nell’ipotesi che la creazione non fosse dal nulla, ma da una realtà preesistente, allora ci sarebbe un altro assoluto accanto a lui; per cui Dio non sarebbe signore di tutto il creato, e allo stesso tempo verrebbe anche intaccato il valore universale della mediazione di Cristo[5]. In altre parole: solo Dio ha il potere, esercitato in modo pienamente libero, di produrre e dare l’essere a ciò che non l’aveva affatto (cfr. CCC 318).

Nella Sacra Scrittura troviamo l’idea della creazione dal nulla solo in testi tardivi. Se nella Genesi si parla del “caos” primordiale (Gen 1,2) o di “terra deserta” (Gen 2,5), concetti che potrebbero indurre a pensare che prima della creazione c’era una forma di materia, in 2Mac 7,28 l’idea della creazione dal nulla è chiara. Tale asserzione è posta in bocca al discorso con il quale la madre incoraggia i figli ad affrontare la morte, ponendo in relazione creazione e vita eterna: «Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l’origine del genere umano». Troviamo la stessa idea della creazione dal nulla anche in Prov 8,22ss e, nel NT, in Rm 4,17: «[Abramo è nostro padre] davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono». Il NT presenta poi la capitalità del Verbo incarnato sulla creazione con i caratteri dell’universalità e della totalità: il Padre ha messo assolutamente tutto nelle sue mani e il suo compito di ricapitolare tutta la creazione rinnovata non lascia spazio ad alcuna interferenza (cf. Gv 1,1-3; Ef 1,10.22; Col 1,15-20). L’unicità e l’onnipotenza di Dio esigono, come necessaria deduzione, di avere di fronte a sé lo sfondo del nulla, la cui consistenza è solo logica, non ontologica. La creazione non è un operare di Dio sul nulla, ma un operare di Dio da solo. Un Dio che non crea dal nulla non è un unico Dio.

Odifreddi contesta però il riferimento scritturistico a 2Mc 7,28, e non parla di Prov. 8,22ss. Afferma infatti che «i due libri dei Maccabei sono estremamente tardivi, e risalgono a un secolo circa p.e.V. [a.C.]. Inoltre, non fanno parte della Bibbia ebraica e sono considerati apocrifi da quella protestante. Poi, il primo è stato scritto in ebraico ma ci è pervenuto soltanto in traduzione greca. Infine, il secondo è il riassunto di un’opera perduta in cinque libri di un ignoto Giasone di Cirene. Si può ben immaginare quanto sia attendibile, quell’unico e vago versetto, come fonte di notizie riguardanti gli inizi del mondo…». Secondo lui «la creazione dal nulla è un’invenzione di Ireneo, ripresa da Agostino di Ippona…» (p. 14).

A parte quest’ultima affermazione, che è sbagliata - perché già tale concetto si trova nel Pastore di Erma («In primissimo luogo credi che vi è un Dio, che ha creato e compiuto ogni cosa e che tutte ha fatto essere dal nulla»), citato da Ireneo e Origene in riferimento alla sfida della gnosi -, il problema posto ora è quello dell’ispirazione (e quindi della verità) del secondo libro dei Maccabei. Chi, infatti, stabilisce la canonicità di un testo biblico (nel nostro caso 2Mac), e quindi il fatto che sia ispirato? Il problema della canonicità è un problema complesso, che non possiamo qui trattare. Tuttavia accenniamo ad alcuni elementi.

Anzitutto ricordiamo il motivo per cui il canone ebraico (definito nel I sec. d.C.) escludeva i deuterocanonici: gli ebrei ritenevano che non erano sacri quei libri che rispondevano ai seguenti due criteri: se non è scritto in lingua ebraica o classica o aramaica (l’unica lingua ritenuta santa); se non è scritto in Palestina (terra ritenuta degna di rivelazione divina). I deuterocanonici (Siracide, Baruc, Tobia, Giuditta, Ester greco, parti greche di Daniele, 1 e 2 Maccabei, Sapienza), in base ai criteri suesposti, difettano di almeno uno di tali criteri. Eppure nella traduzione greca della LXX – diventata poi il testo ufficiale della Chiesa nell’epoca subapostolica e per un lungo tempo successivo - erano inclusi i libri deuterocanonici.

Detto questo vediamo la differenza con i criteri che invece porteranno al riconoscimento da parte della Chiesa di tali libri. Anzitutto dagli scritti apostolici del NT risulta che gli Apostoli ammettevano il canone degli scritti ispirati, compresi i deuterocanonici. Ciò emerge dalle citazioni dell’AT nel NT, prese quasi tutte dalla LXX. Così facendo, Giovanni, Paolo e Pietro hanno approvato e riconosciuto nei loro scritti il canone come era nella LXX, inclusi quindi i deuterocanonici (sono citati espressamente Sir, Sap, Gdt e 2Mac).

La discussione sui deuterocanonici è continuata nei primi secoli. Molti autori erano favorevoli al loro riconoscimento. Cito, per es., nel I sec., Clemente Romano, Policarpo; nel II e III sec. abbiamo: Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, Ippolito, Cipriano, Dionigi Alessandrino; nel IV sec. Afraate, Efrem Siro, Basilio, Gregorio di Nissa, Ambrogio di Milano, Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Ciro e Agostino. Questi riconoscevano in tali testi – utilizzando un criterio ben diverso da quello ebraico – delle profezie che hanno trovato compimento in Gesù.

Tra coloro che invece negarono l’ispirazione dei deuterocanonici troviamo i seguenti scrittori: Melitone di Sardi (170); Origene (240); nel IV secolo Cirillo di Gerusalemme, Ilario, Atanasio, Gregorio Nazianzeno, Epifanio, e l’autore dei Canones Apostolorum. Nel V sec. contrari al riconoscimento abbiamo Rufino, Girolamo (anche se il suo è un caso particolare, perché lui stesso per ben 200 volte cita i deuterocanonici come Scrittura. Si può quindi dire che egli aveva dei dubbi personali) e lo pseudo-Atanasio.

Si noti che intanto in alcuni cataloghi di libri dell’AT sono compresi i deuterocanonici: nel Canone Claramontano del IV secolo; nel Canone Siriaco del 400 che enumera tra gli scritti canonici: Giuditta, Siracide, Sapienza, 1-2 Maccabei, Baruc (compreso in Geremia), e le parti deuterocanoniche di Daniele.

Dopo il V sec. gli Autori ecclesiastici sono concordi nel ritenere ispirati i libri deuterocanonici dell’AT. Sono pochi coloro che dubitano della canonicità. In Oriente, nel VI sec., vi sono Leonzio di Bisanzio e Giunilio Africano; Giovanni Damasceno (sec. VIII) e Niceforo di Costantinopoli (sec.IX).  In Occidente gli autori, contrari a tutti o a parte dei deuterocanonici sono una quindicina. Tra essi ricordiamo Gregorio Magno (+604), Ugo di S. Vittore (sec. XII), Nicola di Lira (sec. XIV), Antonino di Firenze (sec. XV) e il Gaetano (sec. XVI).

È il Concilio di Trento che – raccogliendo la tradizione – nel 1546 – anno di definizione ufficiale del canone[6] - accetta definitivamente i deuterocanonici. Da allora nessun cattolico ha più messo in dubbio la canonicità dei deuterocanonici.

Concludendo, possiamo dire che gli scrittori ecclesiastici in linea generale confermano la canonicità dei deuterocanonici; confermano la tradizione apostolica nella Chiesa. Le voci discordanti, anche autorevoli, si spiegano con la polemica anti-giudaica e il giusto timore per gli apocrifi.

____

[1] Così troviamo il «Noi» divino in Gen 3,22; 9,15; 19,13. Anche in Gen 11,7 (torre di Babele) il proposito divino è espresso al plurale, cioè in modo maiestatico: «Scendiamo e confondiamo la loro lingua…».

[2] In realtà questo testo non è un racconto, poiché il genere letterario è quello dell’inno. L’AT, dunque, si apre con un inno a Dio per la bellezza e la bontà della creazione!

[3] Si noti che troviamo la categoria nel tempo nel primo giorno (Dio separa la luce dalle tenebre – v. 3 -, ossia dà inizio ai “giorni”), nell’ultimo giorno (il settimo: il sabato, creatura “speciale”) e, al centro, nel quarto, ove si ha la creazione del sole, della luna e delle stelle. Per la Bibbia il tempo (che è una creatura) è molto importante, perché in esso si può incontrare Dio.

[4] Si ricordi che nel mondo orientale il re era l’«immagine» di Dio, cioè lo rappresentava. In un certo qual modo dicendo che ogni uomo è «immagine di Dio», e non solo il re, vuol dire che ogni uomo ha una dignità regale, in forza della quale “gestisce” saggiamente la creazione e, allo stesso tempo, vive la vocazione dell’amore con i suoi pari.

[5] In 1Cor 8,6 leggiamo: «... per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui». Il Padre appare come la fonte ultima e Cristo è il mediatore, cioè per mezzo di lui tutto è stato fatto. Se la salvezza ha la sua origine fontale dal Padre («E’ stato Dio [Padre] infatti a riconciliare in sé il mondo in Cristo...» - 2Cor 5,19) e si realizza mediante Gesù, lo stesso ordine si ha nella creazione: l’origine fontale rimane il Padre; e, come Cristo è mediatore nella salvezza, così la creazione avviene mediante il Figlio (cfr. anche Gv 1,3.10; Eb 1,2-3).

[6] Si dovuto procedere ad una definizione ufficiale del canone perché i protestanti contestavano quello tradizionalmente recepito nella Chiesa cattolica. E’ nota, infatti, la preferenza dei protestanti per il canone ebraico.

LE DONNE ALLA SEQUELA DI GESU'

 

Come si relaziona Gesù con le donne e quanto è im­portante la loro presenza nella chiesa? Quale reciprocità e diaconia nella comunità apostolica di Gesù?

Gli evangelisti sono tutti concordi nell'attestare la pre­senza delle donne, discepole di Gesù, quando la loro testi­monianza è l'unica possibile circa gli eventi supremi della morte e risurrezione del Maestro. Infatti, diversamente dai suoi discepoli, loro c'erano sul Golgota e sanno bene dove è stato sepolto il corpo di Gesù. Sono loro che di buon mat­tino il giorno dopo il sabato si recano al sepolcro. E sono le prime a credere nel Risorto.

Ma chiaramente queste donne non fanno la loro prima comparsa sotto la Croce. Erano lì perché c'erano anche prima, fin dall'inizio: “quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano” (Mc 15,41). Seguire e servire, i due verbi chiave del discepolato. E non a fasi alterne e discontinue, ma in crescendo, fino alla fine.

Anche Luca ci ricorda la presenza delle donne accanto a Gesù. Le presenta insieme ai Dodici al seguito di Gesù in Galilea, come discepole e diaconesse (Lc 8,1-3). Ed è interessante il fatto che poco prima Luca abbia presentato l’episodio dell’incontro di Gesù con la peccatrice in casa di Simone il fariseo. C’è qualche accostamento tra questi due testi? Credo di sì: non c’è diaconia senza guarigione! Tanto è vero che nei sinottici troviamo, a questo proposito, un testo particolarmente illuminante: la prima guari­gione femminile operata da Gesù ha come protagonista la suocera di Pietro.

 

La prima diacona

I Sinottici concordano nel conferire alla guarigione della suocera di Pietro (Mt 8,14-15; Mc 1,29-­31; Lc 4,38-39) un significato simbolico fondamentale in ordine alla vita cristiana e al suo profondo significato racchiuso nella “diaconia”, il ministero del servizio.

Perché questa guarigione è così importante da essere posta in primo piano? Non è certo la gravità della malattia a costituirne la rilevanza: si tratta infatti, probabil­mente, di una semplice influenza, o comunque di un'altra malattia passeggera che comporta una situazione febbrici­tante. Da questo punto di vista è indubbiamente la meno sensazionale tra quelle operate da Gesù.

A cosa si deve allora la rilevanza di questa guarigione/ liberazione? A farne un simbolo è il contesto inaugurale del ministero di Gesù a Cafarnao in giorno di sabato e il modo in cui reagisce la miracolata. Rimessa in piedi dalla mano e dalla parola di Gesù, si mette subito a servire: “alzatasi li serviva” (anastàsa diekónei, Lc 4,39).

Marco sottolinea che Gesù la fece alzare “prendendola per mano”, Luca aggiunge il chinarsi sull'inferma. Il Signo­re si china perché lei si rialzi. Il suo abbassarsi la rimette in piedi, una sorta di “risurrezione” (il verbo è il medesimo che il NT usa per "risorgere"). In effetti, non si tratta sem­plicemente di un venire a star meglio ma di un simbolico rinascere che si esprime nel servizio, l'anima genuina del vivere cristiano.

Inoltre, c'è il fatto che la guarigione avviene di sabato. Come è noto, alla donna ebrea compete un servizio speciale in giorno di sabato: è lei che garantisce l'unità tra il culto si­nagogale e quello domestico, attorno alla mensa illuminata dalla menorah, il candelabro a sette braccia. Ecco dunque che, liberata dalla misteriosa febbre che la bloccava a letto, la suocera di Pietro si alza e dà prova della sua guarigione mettendosi a servire (diekónei). Inaugura la diaconia evan­gelica, innestata nella persona stessa di Gesù che è venuto “per servire” (Mc 10,45), che sta in mezzo ai suoi come il servitore, “diacono” (Lc 22,27).

Luca riprenderà il medesimo lessico per indicare la diaconia delle discepole itineranti con Gesù (Lc 8,1-3) e quella di Marta (Lc 10,40). Dunque, la suocera di Pietro è la prima “diacona”. Ma quel suo pronto mettersi a servire è un'indicazione che riguarda non solo le donne ma anche gli uomini, l'intera comunità cristiana. Non è forse il servizio la magna carta dell'essere discepoli del Signore?

 

Le Tre e le molte altre

 Gesù è il fulcro di un'intensa attività evangelizzatrice che coinvolge uomini e donne, discepoli e discepole. La notizia di un gruppo femminile itinerante con Gesù e i Dodici è data da Luca nel contesto di un “sommario” che, come abbiamo visto, segue all’incontro di Gesù con la peccatrice, e precede la parabola del seminatore, come a dire che l'opera di seminagione della Parola non è riservata solo agli uomini ma coinvolge non di meno le donne. Ecco dunque il gruppo apostolico di Gesù, pienamente dedito all'opera missionaria del vangelo. Esso è composto dai Dodici e dalle Tre chia­mate per nome, seguite da molte altre:

In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni (Lc 8,1-3).

Il fatto che siano tre le discepole menzionate per nome (Maria Maddalena, Giovanna, Susanna) appare simmetrico al gruppo dei tre discepoli più intimi (Pietro, Giacomo, Giovanni).

Una premessa fondamentale accomuna queste discepole: hanno fatto esperienza dell'amore sanante di Gesù, amore che libera, che restituisce a se stessi, apre agli altri.

 

Maria Maddalena

Magdala è il nome di un villaggio sul lago di Galilea (Migdal in ebraico vuol dire torre). Quindi la formula “Maria Maddalena” designa una persona con il nome del paese da cui proviene.  

Di Maria di Magdala si afferma che era stata guarita da “sette demoni”, e molto si è scritto sull'interpretazione di cosa ciò potesse signi­ficare. Non c'è dubbio che la possessione di sette demoni è un caso particolarmente grave, come si evince da Lc 11,26 dove Gesù parla dello spirito cattivo che non si rassegna a uscire dall'uomo, a va a prendere altri “sette” spiriti peggiori di lui. Sette è simbolo di pienezza, come a dire, tutta la diavoleria!

La tradizionale identificazione di Maria di Magdala con la peccatrice prostituta è senza fondamento.

Una cosa sembra comunque imporsi chiaramente: Ma­ria di Magdala è una donna liberata dall'amore di Gesù, restituita a se stessa, riconsegnata alla propria interiorità, guarita nella psiche e nello spirito. E lei, restituita a se stes­sa e interiormente sanata, sceglie di vivere ormai la propria libertà quale servizio d’amore. Ha capito il senso e il cuore del vangelo, ha capito – come poi dirà Paolo ai Galati – che la libertà cristiana si esprime nel servizio (Gal 5,1-15).

 

Giovanna

La seconda donna del gruppo chiamata per nome è Gio­vanna. Nessun accenno alla sua figura negli altri due Sinot­tici e neppure in Giovanni. Luca invece la menziona anche tra le fedelissime che si recano al sepolcro di Gesù insieme a Maria di Magdala (Lc 24,10).

E cosa dice Luca di Giovanna? Ci offre alcune informa­zioni che si rivelano estremamente preziose anche per la ricostruzione sociologica del gruppo di Gesù. Precisa che Giovanna è la moglie di Cusa, amministratore di Erode. Proviene dunque da una situazione sociale elevata. E subito s'impone una domanda: se era sposata, come mai peregri­nava con Gesù? Era d'accordo con tale scelta suo marito, che viveva alla corte di Erode? Era forse vedova la nostra Giovanna? Si fa notare che in tal caso Luca non avrebbe perso l'occasione di precisarlo perché nel suo vangelo (e anche negli Atti) è particolarmente attento alla condizione delle vedove che non manca di menzionare, dalla vedova di Sarepta (Lc 4,26) alla vedova di Nain (Lc 7,12) alle vedove di Lidda (At 9,39).

Quale può essere stata la causa che ha spinto Giovanna a seguire Gesù? Luca non lo dice esplicitamente. Perciò possiamo supporre che valga anche per lei quanto detto per tutte: l'esperienza di guarigione e di amore liberante.

 

Susanna

La terza donna menzionata in questo passo è Susanna. Di lei non si dice altro che il nome. Ma questo fatto è già prezioso, dà spessore alla memoria storica circa la rilevanza delle discepole nel gruppo apostolico di Gesù. Queste discepole, in particolare le Tre, si sono “prese cura” di Gesù, lo hanno seguito e accompagnato fino alla fine.

 

Sotto la croce

Sul Golgota le amiche e discepole c'erano, lo attestano concordemente tutti i vangeli. Matteo (27,55-56) ricorda che erano in “molte” e ne focalizza tre, identificate median­te il nome, la provenienza o la parentela: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo. Quest'ultima, strada facendo, era intervenuta per chiedere a Gesù di far sedere i suoi figli uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra nel regno (Mt 20,20-21). La stessa cosa dice sostanzialmente Marco (15,40-41), con la differenza che la terza discepola è identificata non in base ai legami di parentela (“la madre dei figli di Zebedeo”) ma con il nome personale (“Salome”).

Giovanni è il solo che ricorda anche la presenza della madre e la nomina per prima:

“Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala” (Gv 19,25).

Qui le donne menzionate sono quattro, in primo posto la madre e in ultima posizione Maria di Magdala. Quattro come i soldati. Insieme a loro, che si spartiscono le vesti di Gesù, anch’esse ne raccolgono l’eredità. La madre di Gesù, a sua volta, richiama la tunica indivisibile: tocca in sorte a uno, il discepolo che Gesù amava.

La madre di Gesù appare solo a Cana e qui: apre e chiude l’“ora” del Figlio. Inoltre Maria, in quanto madre del Figlio e dei suoi fratelli, è segno dell’unità realizzata dalla croce, che abbraccia insieme il popolo dell’antica e della nuova alleanza, aperta a tutti. Infine, in quanto donna (cfr. v. 26), è la sposa, la figlia di Sion, il popolo della promessa che attende il suo Signore. Ai piedi della croce giunge l’ora delle nozze prefigurate a Cana: la donna incontra lo Sposo e diventa madre feconda di figli.

 

Evangelizzatrici del Risorto

Oltre ad essere presenti sotto la croce, le discepole di Gesù sono anche le prime ad accostarsi al suo sepolcro, confermandone così la morte (cfr. Lc 24,1-10; Mt 28,1-10; Mc 16,1-8). La loro testimonianza avrà coronamento nel mattino di Pasqua, quando sono ricondotte dai due angeli alla memoria delle parole di Gesù: “Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea... Ed esse si ricordarono” (Lc 24,6-8). La memoria equivale in certo senso al cuore, luogo in cui la parola va custodita. Con la Risurrezione la memoria delle parole di Gesù riaffiora alla coscienza. E le prime a “ricordarsi” sono le donne.

Il Signore risorto affida proprio alle donne il compito di evangelizzare la comunità dei discepoli, i suoi “fratelli” (Mt 28,10; Lc 24,8). Così anche in Giovanni il Risorto viene visto e testimoniato da Maria di Magdala che corre ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18). Soffermiamoci su quest’ultimo testo.

 

Maria di Magdala, rappresentante di ogni discepola e diacona del Vangelo

“Nel giorno dopo il sabato si recò al sepolcro di buon mattino quando era ancora buio [era già spuntata la luce ma era ancora buio dentro di lei], vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro” (Gv 20,1)

Maria di Magdala interpretò questo come profanazione della tomba, immaginò che qualcuno avesse portato via il corpo di Gesù; corre disperata dai discepoli.

Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (Gv 20,2).

Quel verbo al plurale (“non sappiamo”) lascia intendere che non era da sola. Giovanni però la presenta isolata perché vuole fare della sua persona una figura tipica, una rappresentante di tutte le discepole di Gesù. All’annuncio della Maddalena Pietro e l’altro discepolo corrono al sepolcro; vedono i teli funebri giacenti nel sepolcro e arrivano alla fede nella resurrezione, quindi tornano a casa.

Poi il vangelo ci ripresenta Maria, che nel frattempo era tornata al sepolcro:

Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto» (Gv 20,11-13).

 Maria è lì, al sepolcro, ma non è ancora arrivata alla fede nel Risorto, è ancora prigioniera della sua mentalità, quindi del dolore e del pianto. Rimane lì, perché vuole bene a Gesù, e piange, perché soffre per la sua assenza, per la sua perdita. Tuttavia la sua diagnosi non è corretta; il suo modo di valutare la realtà non corrisponde al vero. Nella sua testa è proprio così, ma nella realtà non è così. Agli angeli che le chiedono: “Donna perché piangi?”, lei ripete non la realtà ma la sua interpretazione: “Hanno portato via il mio Signore”. Non è vero che l’hanno portato via; è lei che lo pensa; e la sua idea la fa piangere, quindi si trova in una situazione di affetto e di ignoranza.

 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Gv 20,14-15a).

Gesù si rivolge a lei con quel vocativo importante di donna e le chiede: “Chi cerchi?”. È la domanda fondamentale che aveva già posto all’inizio ai discepoli che lo seguivano: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). È una domanda molto profonda. Tante volte i nostri itinerari di fede sono una ricerca di soddisfazione umana. Cerchiamo veramente lui o noi stessi? Se cerchiamo Lui e lo riconosciamo come il Risorto non c’è più spazio per il pianto. Ricordiamo che Gesù stesso aveva detto: “Piangerete e gemerete... Voi vi rattristerete, ma la vostra tristezza diventerà gioia” (16,20), perché “di nuovo vi vedrò e si rallegrerà il vostro cuore la vostra gioia nessuno può levare da voi” (16,22b-23a). Il passaggio dalla tristezza alla gioia è la nostra stessa risurrezione, frutto dell’incontro con lui. Dove non c’è gioia, non c’è Dio; anche se ci fosse perfetta osservanza e giustizia, c’è morte.

Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo» (Gv 20,15b).

È proprio fissata! Ha una idea in testa e sta seguendo quella; prende anche Gesù per il custode del giardino. È vero? No, eppure ha ragione. Come tutti gli equivoci del quarto Vangelo, anche questo è carico di significati. Il giardiniere richiama Adamo, il primo uomo, partner di Dio, chiamato a coltivare e custodire l’Eden (Gen 2,15). Ebbene Gesù è il giardiniere/Sposo, sceso nel suo giardino per incontrare la sorella sua sposa e inebriare tutti del suo amore (cfr. Ct 5,1). Nelle acque della morte ha passato la notte; per questo il suo corpo è bagnato di rugiada, i suoi riccioli di gocce notturne. Ora è lì, dalla sua diletta, e bussa (Ct 5,2) perché apra gli occhi e lo riconosca.

Il giardino, con i suoi odori, fa da scenario al Cantico dei Cantici. La sposa stessa è per lo Sposo un giardino pieno di profumi, “con mirra e aloe e tutti i migliori aromi” (cfr. Ct 4,12-16). Anche lo Sposo, a sua volta, è per lei sacchetto di mirra e grappolo d’uva (Ct 1,13s), melo tra gli alberi del bosco (Ct 2,3).

“Signore... dimmi...”. Questo “dimmi” è l’apertura alla conversione piena, come la Samaritana quando dice: “Dammi da bere”. È la stupenda pedagogia di Gesù. Egli si inserisce nel cuore dell’uomo e gradualmente lo provoca, perché sia l’uomo ad aprirsi liberamente alla conversione. Maria allora interroga l’unico (da lei chiamato Signore, anche se non ancora sa che è colui che va cercando) che è in grado di darle risposta. E gli chiede: “Dimmi, amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni” (Ct 1,7). Non vuole che lui. Senza di lui è vagabonda. Non trova casa presso nessuno dei suoi compagni, fossero anche luminosi come gli angeli.

Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!» (Gv 20,16).

Gesù prima l’aveva chiamata “donna”, adesso “Maria”. Il nome proprio indica l’individualità, entrare nell’esperienza personale. Chiamare uno per nome significa anche dargli una vocazione, una missione. E non solo: se finora nel racconto è chiamata “Maria”, ora Gesù la chiama in aramaico: “Miriam!”. È il suo nome, detto da una voce familiare e inconfondibile: “Una voce! Il mio diletto!” (Ct 2,8a). “Egli viene come un cerbiatto, saltando per i monti e balzando per le colline” (Ct 2,8b). Ormai l’inverno è passato (Ct 2,10): viene per tirar fuori dal recinto di morte la sua amata. Egli la conosce e la chiama per nome; e lei riconosce la voce di colui che ha esposto, disposto e deposto la sua vita per lei, per riprenderla di nuovo (cfr. 10,1 ss.).

“Essa allora voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: ‘Rabbunì!’, che significa: Maestro!” (v. 16). La sposa si era già voltata al giardiniere (v. 14). Ora si volta ancora. La prima volta si era voltata in modo fisico, ora questo voltarsi indica la conversione. In tal modo si appresta a intraprendere un cammino nuovo, interamente all’insegna della fede. Interrompe la spirale distruttiva in cui si trovava e si rende disponibile ad accogliere la “novità” della risurrezione.

Rabbunì”. Miriam lo riconosce al suono della voce che dice il suo nome; e gli risponde in aramaico[1]. Il giardiniere è il suo Gesù che conosce. Non lo chiama “Gesù”, ma “rabbunì”, nome che si dà, oltre che al maestro, anche allo sposo. Maria ha davanti Gesù di Nazareth, suo maestro e sposo.

Nel giardino risuonano “grida di gioia e di allegria, la voce dello sposo e quella della sposa”. Ad esse segue il canto di coloro che lodano l’amore eterno di Dio, che ristabilisce la sorte del suo popolo (Ger 33,11). Qui si compie infatti la nuova alleanza tra Dio e il suo popolo. Miriam e Gesù sono la coppia primordiale dell’umanità nuova, soli nel giardino al mattino di Pasqua.

 Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”» (Gv 20,17).

 Nel Cantico dei Cantici la sposa diceva che – quando ha trovato l’amato – lo ha abbracciato, lo ha bloccato e non lo lascia andare (cfr. Ct 3,4); ecco qui la novità! Questo versetto si capisce proprio nella luce del Cantico: Maria vorrebbe abbracciarlo, vorrebbe in qualche modo trattenerlo. Ma Gesù non va trattenuto, va seguito…

 “Non mi trattenere, va’ dai miei fratelli e dì loro….” (v. 17). Non è facile trovare nel vangelo dei versetti in cui Gesù chiami gli uomini fratelli - è un linguaggio nostro, ma non è comune nel testo evangelico -. Il Risorto chiama i discepoli “i miei fratelli”, e manda Maria di Magdala ad annunciare a loro il mistero della Pasqua. Notiamo la distinzione: “Padre mio e Padre vostro”. Non dice: “salgo al Padre nostro”; questo è molto importante perché la relazione che Gesù ha con il Padre rimane unica, in quanto Figlio dall’eternità. Ora egli “sale al Padre”, cioè la sua missione, che è passata attraverso la croce, ora termina con l’esaltazione. E questo vale anche per chi lo segue, anche per la Maddalena. Infatti è venuto perché anche noi andiamo dove lui da sempre è. Solo quando saremo anche noi nella dimora del Padre suo e nostro, ci sarà l’abbraccio finale. Non dobbiamo trattenere Gesù, lo riporteremmo ancora nel sepolcro, la terra da cui è uscito. Dobbiamo invece seguirlo nella casa del Padre suo celeste, che è ormai anche nostro. Lì si consumano le nozze. Solo al termine del cammino, nostro e di tutti, ci sarà l’unione piena, anticipata nell’abbraccio della Maddalena e di quanti, come lei, lo amano.

 Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto (Gv 20,18).

Non è più piangente, corre di nuovo e questa volta corre da evangelizzatrice; è la dinamica della nostra esperienza di fede, che viene rappresentata da questa figura altamente simbolica. Colei che ama ha l’occasione di incontrare il Signore, lo ha incontrato perché lo ha amato, perché lo ha cercato con intensità e con amore, nonostante i suoi sbagli; si è sentita semplicemente chiamare per nome e quel nome è stato sufficiente per cambiarle la prospettiva della vita, si è messa in moto, è diventata un’altra creatura, è l’immagine della Chiesa che nasce nel mattino di pasqua e si mette in moto, non piange più, il problema è risolto, ha incontrato il Signore: «Cristo mia Speranza è risorto!». A quel punto inizia una corsa di evangelizzazione.

 Ognuno di noi può evangelizzare solo se ha visto il Signore, cioè se lo ha incontrato. E tu lo hai visto, lo hai riconosciuto, incontrato? Non ti chiede anzitutto di andare a dire questo e quest’altro, ma di testimoniare un incontro. Maria di Magdala va’ a dire ai discepoli “Ho visto il Signore”. Diventa messaggera, annunciatrice, evangelizzatrice dell’incontro con Gesù risorto, e annuncia che il Padre di Gesù è anche il Padre nostro, annuncia che c’è una nuova famiglia, che l’Unigenito risorgendo ha molti fratelli. Ed è compito della Chiesa Vergine-Madre continuare quella storia di Gesù. È la figura femminile ideale, figura della Chiesa.

 

LA DIACONIA DEL VANGELO

 

Alla luce dei brani che abbiamo preso in considerazione vediamo che la diaconia del Vangelo richiede, in negativo, un cammino di liberazione, di guarigione; in positivo la donna è testimone dell’incontro con il Risorto. Se ciò vale per ogni credente, la donna, rispetto all’uomo, è meno dispersiva; anche se si dedica alle cose di ogni giorno, lo fa con attenzione particolare alle relazioni. Relazione con Gesù, per ascoltarlo in profondità e vivere la sua parola nella quotidianità; relazione con gli altri, per annunciarlo con le parole e il servizio concreto all’interno di questa relazione.

 

Un cammino di guarigione

Iniziamo con l’aspetto negativo: Gesù, che ci vuole alleate e collaboratrici della diaconia del Vangelo ci vuole anzitutto guarire dalle nostre patologie. Quali? Ne indico alcune.

• La prima patologia con cui fare i conti è la philautia, cioè l’essere interessati solo a se stessi, il non aprirsi al mondo con interesse per la diversità, compresa la diversità del “maschile”, di cui Gesù è il modello perfetto, e di tutto quel maschile che c’è nella Chiesa, visto che siamo chiamati ad essere uomini e donne di fraternità.

• Una seconda patologia è l’ira, cioè l’aggressività incanalata in modo distruttivo laddove si vuole dominare sugli altri, vincere contro di loro, far loro male ovvero incanalata come lamentela senza fine, silenzio ostile o depressione che non cessa fino quando gli altri non si piegano alla propria volontà. Qui la guarigione consiste nel neutralizzare tali derive dell’aggressività per convertirla ed utilizzarla invece come forza tranquilla che permette di dire la propria e al contempo di riconoscere le ragioni altrui.

• Una terza patologia è la paura che non passa: paura di non essere voluti bene, stimati, sostenuti… La paura può paralizzare (gli animali a volte si fingono morti nella speranza che il predatore vada oltre!), trasformarsi in panico (nella speranza che qualcuno si prenda cura), portare alla fuga o a chiedere protezione o a sottomettersi. Ognuno di queste modalità (se non si tratta dell’unico “strumento” a disposizione) a volte può anche andare bene, ma è comunque importante conoscere le proprie paure, accoglierle con realismo e andare al di là: ciò è possibile condividendole con qualcuno che contiene e aiuta a riflettere.

• Una quarta patologia è l’orgoglio ferito. C’è un orgoglio sano che dice il naturale bisogno di essere trattati con rispetto. Chi non ha una giusta stima di sé non sa esigere rispetto. L’orgoglio ferito, invece, può condurre alla permalosità, alla chiusura risentita, alla vendicatività.

• Una quinta patologia è la tristezza senza fine. È normale sentirsi tristi a causa di delusioni, insuccessi e perdite. Bisogna tuttavia fare lutto ed arrivare ad una sua chiusura. Delusioni, perdite e insuccessi vanno integrati in un contesto più ampio caratterizzato dalla speranza e dalla volontà di crescere, imparando anche dal negativo che la vita riserva. In altri termini, la tristezza va accolta e deve fare il suo corso. Come l’autunno fa con le foglie o come l’agricoltore fa quando pota, la vita porta via realtà per noi importanti. La fiducia sta nel sapere che la sapienza e l’amore viaggiano anche attraverso questo.

• Infine, patologie dell’animo sono tutte quelle forme di dipendenza (alcool, gioco d’azzardo, cibo, sesso, web, rapporti chiusi e possessivi…) che imbrigliano e che sono al posto di relazioni libere e nutrienti. Guarire passa dal saper stare con il disagio, dal leggerlo con intelligenza e dal lavorarci su per costruirsi come persone libere e relazionalmente disponibili. Per guarire abbiamo da imparare a nutrirci bene, non solo di cibo, ma anche di relazioni e di pensieri “buoni”, evangelici, come pure accogliere la potenza dello Spirito Santo che riceviamo nei sacramenti e in particolare quello dell’Eucaristia.

Curando le patologie di cui stiamo parlando, si possono neutralizzare i nemici dell’amore e si possono sostenere gli alleati dell’amore. Anzitutto l’apertura agli altri. Poi la mitezza, che non è mancanza di forza, ma forza che tiene conto degli altri e delle loro ragioni. La confidenza in Dio che ci permette di attraversare le paure e di andare al di là di esse. L’umiltà che accetta con spirito di apprendimento le critiche, gli smacchi, gli insuccessi. La gioia di base dovuta al sapere di essere amati da Dio anche quando il suo amore esigente permette prove di crescita e di maturazione.

 

La diaconia del Vangelo al femminile

In atteggiamento di ascolto del Maestro: Marta e Maria

La donna è chiamata a servire il Vangelo valorizzando tutta la sua capacità di relazionalità. Ed è quanto Gesù chiede ad ogni donna. Paradigmatico è, in questa prospettiva, l’episodio evangelico di Marta e Maria su cui ora mi soffermo che troviamo in Lc 10,38-48. Nel Vangelo secondo Luca è appena iniziato il lungo viaggio che porterà Gesù a Gerusalemme, il viaggio emblematico della sua obbedienza e il cammino con i discepoli in quanto momento formativo educativo.

“Mentre erano in cammino entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella di nome Maria la quale, sedutasi ai piedi di Gesù ascoltava la Sua parola Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti disse: Signore non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti! Ma Gesù le rispose: Marta Marta tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno: Maria si è scelta la parte migliore che non le sarà tolta”.

Siamo abituati in genere a contrapporre le due sorelle, come se fossero due alternative, o l’una o l’altra, rischiando di difendere in qualche modo Marta perché sembra rimproverata dal Signore. Qualcuno può avanzare osservazioni del genere: “Per fortuna Marta aveva fatto da mangiare, altrimenti Gesù avrebbe saltato il pranzo! Fosse stato solo per Maria non avrebbero mangiato quel giorno!” La Chiesa venera Santa Marta come figura esemplare, quindi non dobbiamo contrapporre le due persone, non è corretto domandare: è meglio l’una o è meglio l’altra?

L’insegnamento, che questo episodio vuole trasmettere, è anzitutto di completezza, cioè di valorizzazione di tutti gli aspetti; una persona equilibrata sa non esagerare e sa dare a ogni atteggiamento il valore giusto. Quindi le due donne sono due sorelle e devono essere molto unite perché i due atteggiamenti devono coesistere. Come ha insegnato la parabola del buon samaritano bisogna sapere la legge e bisogna metterla in pratica; così bisogna ascoltare la Parola e diventare autentici servitori.

Anzitutto l’episodio è ambientato in cammino: “mentre era in cammino Gesù entro in un villaggio (non importa il nome) e una donna lo accolse nella sua casa” (quella donna ha un nome, si chiama Marta).

È un elemento molto positivo questa ospitalità accogliente, ha una valenza simbolica. Ancora una volta è un elemento tipicamente femminile della disponibilità accogliente; diventa una cifra simbolica dell'umanità disposta, ben disposta verso la Parola di Dio.

La sorella di Marta che accoglie Gesù nella propria casa si siede ai suoi piedi e ascolta la sua Parola. L’atteggiamento è proprio quello della discepola: è l’atteggiamento di chi è seduto, cioè è comodo, è tranquillo per poter ascoltare, non è preso da altre cose.

Il problema di Marta non è il fatto del servizio, ma che è tutta presa dai molti servizi. Il problema è questa molteplicità di interessi e di azioni che in qualche modo dissipano la persona e, con l’intenzione di accogliere bene Gesù, in realtà lo si trascura.

Avrete fatto certamente anche voi l’esperienza di avere ospiti a casa e se volete trattare bene una persona sapete che ci sono tante cose da preparare. Però è possibile che, mentre uno prepara il tavolo e cerca la tovaglia bella e tira fuori i bicchieri e deve pulire i piatti belli e deve preparare questo e quant'altro per accogliere bene quella persona, non si ha tempo per stare con la persona stessa. Non la si valorizza per quello che l’ospite è; si concentra l’attenzione piuttosto sugli oggetti, le posate, i bicchieri, i tovaglioli, il vaso bello per accoglierlo, ma la persona è abbandonata.

L’immagine di una accoglienza positiva può dunque trasformarsi in un’accoglienza superficiale dove la preminenza è data alle cose. L'atteggiamento di Marta ha del prepotente nei confronti di Gesù, lo rimprovera, lo chiama Signore con un titolo onorifico, ma allo stesso tempo gli fa una domanda che nasconde un rimprovero: “Non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola?” Come dire: “non te ne accorgi? Lo vedi che sto lavorando solo io?”. E dato che lei ha già capito come bisogna comportarsi gli dà un ordine: “Dille dunque che mi aiuti!” Perché è chiaro che quello che vedo io è il modo corretto.

La risposta del Maestro incomincia con il doppio vocativo, ha un tono di dolce rimprovero: “Marta, Marta…”. Non è un tono duro, proprio il doppio nome ha questa valenza. Ricordiamo altri casi. In Luca durante l’ultima cena Gesù dice a Pietro: “Simone, Simone: il diavolo vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede” (Lc 22,31). Proprio nel momento in cui il discepolo pretende di seguirlo, garantendogli: “qualunque cosa succeda io ti seguirò”, il maestro lo rimprovera: Simone, Simone!”. Altro esempio: la chiamata di San Paolo: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9,4; 22,7; 16,14).

Il doppio nome iniziale assume un tono di rimprovero ma di rimprovero buono, amichevole, famigliare che intende far capire alla persona che sta sbagliando; è un modo gentile per invitare l’ascoltatore a rendersi conto che il proprio atteggiamento è scorretto.

“Ti preoccupi e ti agiti per molte cose”. Ecco il guaio: sei preoccupata e agitata. Non è il servizio che sta criticando, è la tua preoccupazione e la tua agitazione che non va bene mentre indispensabile è una cosa sola. Qual è l’unica cosa necessaria? La relazione con le persone. La relazione personale è quel bene fondamentale indispensabile ed eterno. È questa la parte buona! Nell'originale greco non c'è il comparativo (“la parte migliore”, come è stato tradotto il testo); c'è semplicemente l'aggettivo positivo: “la parte buona è la parte che non verrà tolta”.

Che cosa ha scelto Maria? La parte buona, cioè la relazione con Gesù. È questo l'elemento positivo e fondamentale perché spesso anche noi rischiamo di confondere il nostro atteggiamento di fede con delle cose, con delle pratiche molto concrete, con degli oggetti, con delle azioni che facciamo mentre tutto si gioca in un’autentica, profonda relazione personale con la persona di Gesù. E questo incontro personale avviene attraverso l’ascolto e la Parola; Lo ascolto e Gli parlo.

Marta non viene invitata a sedersi e a lasciar perdere il servizio; viene invitata ad alimentare il proprio servizio con l’ascolto e a superare preoccupazione e agitazione. È un discorso che all'evangelista Luca sta molto a cuore e lo ribadisce anche negli Atti degli Apostoli quando narra della prima comunità cristiana. Qui nel testo compare il verbo “diakonéo”, il verbo del servizio. Anche la Comunità Apostolica primitiva ebbe dei problemi di servizio, l’ascolto della Parola, il servizio delle mense, con mormorazioni all'interno dei vari gruppi cristiani che non andavano d'accordo. Il rischio, dice l'evangelista, è che una comunità, impegnata nel servizio, con il tempo diventi arida.

L'impegno del servizio stanca; pensate ai servizi di carità, servizi ministeriali, qualunque tipo di servizio, che potete fare nel vostro ambito di vita ecclesiale, dopo un po' di tempo stanca. Uno perde le motivazioni non ne ha più voglia perché trova incomprensione, ingratitudine, non c'è più lo stimolo, qualcuno s'impegna nell'azione di carità per qualche anno va avanti con entusiasmo poi sente il peso comincia a stancarsi, lascia perdere. Il servizio senza ascolto stanca, svuota, inaridisce. Se non c’è l'ascolto viene meno l’entusiasmo; se non c’è l'accoglienza della Parola viva, della persona viva di Gesù non si serve a lungo, se ne perde presto la voglia; passano quelle voglie iniziali che spingevano, che erano spesso motivazioni umane di ricerca di gratificazione, di soddisfazione.

Non basta certamente solo un ascolto sterile; un ascolto sterile è quello del terreno sassoso che riceve il seme della Parola ma non produce. L'ascolto fecondo è quello della terra umile che produce frutto. L’ascolto della Parola è strettamente connesso con il conservarla e il metterla in pratica; allora Marta e Maria non sono due figure distinte, due modelli alternativi: o imiti l'una o imiti l'altra; ma sono due figure complementari, entrambe necessarie.

Ognuno di noi deve imitare tutt'e due, è necessario un servizio autentico ma perché sia autentico il servizio deve ascoltare. È necessario un ascolto libero della Parola di Dio, di una persona che dica: sono tuo, sono disponibile, ho tempo per te, m'interessi tu come persona e da questo ascolto autentico, di conseguenza, nasce poi il servizio, l’opera l’impegno.

Ecco dunque figure femminili di donne che ascoltano la Parola e che sono esemplari per noi come discepoli autentici di Gesù. La Madre, colei che ascolta la Parola; Maria, che ha scelto la parte buona che non le verrà tolta. È certo, Marta dà da mangiare, ma nell'eternità non ci sarà più nessuno a cui dar da mangiare; non ci saranno più malati da curare, non ci saranno più bambini da educare, non ci saranno più poveri da sfamare e da vestire; ci sarà solo la relazione con la persona senza più cose da fare, senza più opere buone da compiere.

Ci sarà solo l’essere con il Signore. E me lo dite solo? Sarà il tutto! Quella è la parte buona che non sarà tolta! Per l'eternità saremo sempre con il Signore e cominciando ad ascoltarlo adesso impariamo ad essere veramente con Lui. Non siamo noi che dobbiamo insegnare che cosa fare; se l’ascoltiamo veramente siamo noi che impariamo da Lui.

Come c'insegnano queste figure femminili vogliamo diventare sempre più discepoli che ascoltano la Parola, la custodiscono in cuore bello e buono e portano frutto, mettendola in pratica.

 

Annunciare il Vangelo nella relazione

C’è un testo che afferma una cosa che mi ha sempre colpito. Si trova nell’istruzione della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica dal titolo, Il Servizio dell’Autorità e l’Obbedienza (11 maggio 2008), nel quale si afferma che “chi non sa ascoltare il fratello o la sorella non sa ascoltare neppure Dio”. E noi sappiamo che la donna ha una particolare capacità di ascolto grazie alla sua psicologia più aperta e recettiva rispetto a quella dell’uomo, con un grande spazio di interiorità, con una notevole potenzialità empatica e intuitiva. E lo fa su due piani: sul rapporto che instaura con l’altro mediante il suo atteggiamento di accoglienza, e sulla capacità di ascolto del contenuto – con atteggiamento comprensivo e di empatia – di quanto gli viene detto verbalmente e non verbalmente. Li accenno brevemente.

Abbandonando ogni forma di critica – atteggiamento di chi mentre ascolta un altro, è immediatamente intento a paragonare e valutare quello che ascolta in base ai suoi schemi personali e alle sue idee -, la donna sa accostarsi al rapporto con l’altro e al dialogo con una particolare capacità di accoglienza e di apprezzamento. Offre il suo ascolto e accoglie l’esperienza altrui. Accettare il pensiero o la condizione emotiva dell’altro, non significa essere privi di idee o convinzioni personali, né significa scendere a compromesso tra le proprie e le altrui convinzioni. L’apprezzamento è una disposizione d’animo con cui si è capaci di osservare e riconoscere il positivo dell’altro. Questo apprezzamento dell’altro rende la comunicazione più autentica poiché abbatte le naturali difese di ogni rapporto e infonde fiducia.

Riguardo invece ai contenuti, è invece importante comprendere quanto l’altro dice, cioè saper cogliere il suo punto di vista, cioè la prospettiva nella quale guarda una certa realtà. L’ascolto attento, inoltre, sa cogliere anche il messaggio non verbale, cioè sa interpretare il “di più” che viene comunicato con il tono della voce, con l’espressione del volto e il mondo affettivo di chi parla. Mediante l’empatia – cioè la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro – si rende comprensiva dell’altro e delle sue difficoltà poiché le sa percepire un po’ come proprie. Allo stesso tempo colui che parla si sente ascoltato; viene così soddisfatto il suo bisogno di essere considerato e di ricevere manifestazioni d’attenzione.

È all’interno di questo ascolto attento che la donna saprà esercitare la diaconia del Vangelo con una parola giusta, appropriata, capace di illuminare la situazione che l’altro sta vivendo e, insieme, infondere fiducia che Dio lo ama personalmente e sostiene con la sua grazia il suo cammino.

Una parola, infine, che non è pura ripetizione del Vangelo, ma che è accompagnata dal vissuto di chi già lo vive, di chi parla carico di esperienza spirituale personale e, se necessario, sa dare anche la propria testimonianza. È quanto già la vergine Maria ha fatto a Cana di Galilea quando ha detto ai servi: “Fate quello che vi dirà”. Ella sa cosa vuol dire ascoltare e accogliere nella fede la parola; ascolto che ha permesso l’incarnazione del Verbo. Così la diaconia del Vangelo è invito a fare esperienza che la Parola del Signore non è un inconsistente “flatus vocis”, ma è una Persona concreta, quella del Verbo, che vuole realizzare su ciascuno il suo progetto di salvezza.

 

____

[1] La traduzione della CEI dice che Maria rispose in ebraico, ma in realtà il termine rabbunì appartiene all’aramaico, cioè alla lingua parlata dal popolo.

Cos’è l’accidia?

È significativa l’esperienza di G. Bunge. Quando egli presentò la riflessione su questo vizio gli studenti osservarono meravigliati: «Ciò che il suo padre del deserto descrive lì è il male del nostro tempo»[1]. Ma cos’è l’accidia?

L’accidia viene dal latino acedia, in greco akēdìa. L’«a» privativo e kedos significa cura. L’accidia è non curanza, indolenza, negligenza, indifferenza. Anzitutto verso la cura dell’anima, verso la vita spirituale, mancanza di cura verso la propria salvezza. Ma anche mancanza di cura, di impegno, nei confronti dei fratelli.

Mi sembra che si possa descrivere i volti dell’accidia come una quadruplice «fuga».

 • Fuga da Dio. «La natura dell’accidia è la fuga da Dio, il desiderio di restare soli con se stessi e con i propri limiti, e di non essere disturbati dalla vicinanza di Dio»[2]. L’accidioso non ascolta la voce di Dio, si nasconde, ripetendo lo stesso gesto di Adamo ed Eva che dopo il peccato si nascosero allo sguardo da Dio (cf. Gen 3,1.10). Per questo cerca di fuggire dalla preghiera. E quando lo fa il “demonio meridiano” – così veniva chiamata l’accidia dai monaci – fa sentire pesante il tempo, che non passa mai, è interminabile.• Fuga da se stesso. Scappare da se stesso è il movimento contrario a entrare in se stesso. Il conoscersi a se stesso è entrare nel proprio intimo, nel cuore e scoprire nell’umiltà il proprio limite e la mi­sericordia di Dio. Il figlio prodigo della parabola “rientrò in se stesso” (Lc 15,17), significa che egli iniziò a riflettere sulla situazione concreta che lo porterà al pentimento.

All’opposto quando il cuore si avvolge dell’accidia si rischia un di­sorientamento esistenziale. Ed è chiaro che quando si perde il senso della propria vita si ha una fuga da se stessi. La stessa temporalità perde di senso. Che senso ha ricordare, impegnarsi o sperare? Quindi l’accidioso perde il gusto dell’essere che si offre e si riserva sotto le fragili specie d’una temporalità piena di senso, cioè orientata e significativa. Questa perdita del senso dell’esistenza è molto pericolosa perché può provocare uno stato di scoraggiamento generale, cioè una visione di se stessi, degli altri, della vita attraverso lo schermo del pessimismo e del dubbio. L'accidia, in questo senso, è l'impossibilità per l'uomo di vedere qualcosa di buono e di positivo: tutto viene oscurato e ridotto al negativismo e al pessimismo.

Questa visione negativa su tutto e su tutti fa percepire la propria vita come giunta a un vicolo cieco. L'avversione e il disgusto nei confronti di tutto ciò che si è, si ha e si fa, legata a una bramosia diffusa per ciò che non è a portata di mano, paralizza a tal punto la vita da non lasciar spazio a nulla. Essere continuamente scoraggiati e insoddisfatti, dunque, diventa la modalità normale di affrontare l'esistenza. «È una sorta di asfissia - scrive E. Bianchi - o soffocamento dell'anima che condanna l'uomo all'infelicità portandolo a disdegnare ciò che ha, la situazione (di lavoro, affettiva, sociale) in cui vive e a sognarne una irraggiungibile, lo rende preda di paure svariate (per esempio, di malattie più immaginarie che reali), inefficiente sul lavoro, intollerante e incapace di sopportazione verso ‘gli altri’ (che diventano spesso il bersaglio su cui scaricare frustrazioni e aggressività), impotente a governare i pensieri che si affollano nella propria anima e che lo gettano nello scoramento, in una tale insoddisfazione di sé che egli si interroga se non abbia sbagliato tutto nella propria vita»[3].

Di conseguenza, anche ogni possibilità di futuro diventa inimmaginabile: chi si sente a un vicolo cieco non ha più progetti, non ha più mete da raggiungere. E se anche si intravede una via d'uscita, questa diventa troppo lontana, irraggiungibile. E lo scoraggiamento aumenta. Se tale situazione si trasforma in uno stato continuo e duraturo in cui chi è colpito dall'accidia non trova vie di uscita, allora si soccombe in una profonda depressione, in cui si è tentati di annullare sia la propria vita passata (rottura di vincoli o distruzione di una vita sociale) sia, addirittura, di azzerare ogni possibile futuro (suicidio).

 

Fuga dal momento presente. L’accidia fugge ogni rapporto con il tempo presente. I Padri del deserto erano ben consapevoli che l’accidia era la tentazione di liberarsi dagli impegni e fatiche del presente.

Inoltre essendo il cuore “instabile”, “girovago”, l’accidioso è assalito e trascinato a destra e a sinistra da turbe di pensieri, un cuore che poggia sulla melma della propria confusione. Certamente quest’instabilità si manifesta in diversi modi: dal cambiare luogo o impegno, al fuggire verso situazioni ritenute ideali; dall'instabilità di umore all'instabilità di giudizio; dall'instabilità nei rapporti interpersonali alla sfiducia verso se stessi. Così Bunge descrive quest'irrequietezza interiore che si manifesta in mille modi:

«Bisogni di cambiar casa, lavoro, amicizie, compagnie... Impossibilità di portare a termine un lavoro iniziato, di finire la lettura di un libro... Tutto quello che si inizia viene abbandonato. Il più delle volte non ci si rende nemmeno conto di quel che ci sta accadendo. Abbiamo un sacco di ragioni plausibili che ci spingono a ‘cambiare aria’ [...]»[4].

Se per il monaco del deserto quest'irrequietezza e instabilità interiore si concentrava nel simbolo di una cella che gli stava troppo stretta, per l'uomo d'oggi assume altri volti: una scalata affannosa alla carriera, la ricerca di sempre nuove emozioni, un'angosciante forma di divertimento, la paura di lasciare spazi vuoti da impegni, l'instabilità nei rapporti ecc. Sono tutti palliativi di fronte a una fuga dal vuoto che si nasconde dentro di noi, e di cui l'accidia è il segno: stare da soli diventa terribile e crea paura, la paura di scoprire quale è lo stato del nostro volto interiore.

In questa situazione in parte anche l’informazione può essere un modo per fuggire dalla noia, perché ci aiuta a dimenticare i problemi, o almeno a distrarci dall’affrontarli[5].

 

Fuga dall’agire. Per San Tommaso una caratteristica dell’accidia è il disgusto dell’azione, taedium operandi[6], un torpore che toglie la volontà dell’agire. Tristezza, delusione, pigrizia, sconforto, spengono lo slancio per le iniziative, la voglia di ogni sforzo.

In ambito apostolico – scrive papa Francesco – l’accidia va contro lo zelo apostolico e contro la voglia di annunziare agli altri la novità del Signore Gesù. «Proprio questa è “la malattia dell’accidia dei cristiani”, un “atteggiamento che è paralizzante per lo zelo aposto­lico” e “che fa dei cristiani persone ferme, tranquille ma non nel senso buono della parola: persone che non si preoccupano di uscire per dare l’annuncio del Vangelo. Persone anestetizzate”. Un’anestesia spirituale che porta alla considerazione “negativa che è meglio non immischiarsi” per vivere “così con quell’accidia spirituale. E l’accidia è tristezza”. È il profilo di “cristiani tristi nel fondo» a cui piace assaporare la tristezza fino a divenire «persone non luminose e negative”»[7].

 

Altri effetti dell’accidia

● Anxietas cordis. Cassiano traduce il termine greco akedìa con l'espressione latina anxietas cordis. Certamente una delle manifestazioni più caratteristiche di questo stato esistenziale è l'angoscia, l'ansietà, la quale, partendo dal cuore (intrappolato in quello stato di confusione e di turbamenti che abbiamo descritto), investe tutta la vita. Così la vita appare senza più punti sicuri, senza certezze, come appoggiata su di una superficie fluttuante; ogni appiglio che ci si illude di afferrare crolla rovinosamente. E più la costruzione della propria vita appariva solida e certa, più evidente è il disastro finale e maggiore l'angoscia.

Un fenomeno caratteristico che accompagna questo stato di ansietà è la preoccupazione eccessiva per il proprio corpo. Si potrebbe dire che a un'anxietas cordis segue un'anxietas corporis. Si ha l'impressione che il proprio corpo sfugga al controllo: non si riesce ad abitare il proprio corpo e ci si lascia trascinare in un'illusoria e quanto mai esagerata preoccupazione per la salute fisica. A riguardo di queste paure sul proprio stato fisico, Bunge fa notare come «Evagrio conosceva bene, del resto, anche il legame segreto che esiste fra malattia psichica e malattia fisica, tema che tanto occupa la medicina moderna. Nel capitolo dell'Antirrhetikos sulla tristezza, che è, come sappiamo, strettamente legata all'accidia, egli descrive fenomeni psicosomatici sorprendenti, visti come conseguenza di stati ansiosi eccessivi, che affascinerebbero uno psichiatra moderno[8].

● Asfissia dell’intelletto, cioè l’incapacità di utilizzare la facoltà razionale, di vedere chiaro, di discernere, di individuare la realtà e la verità delle cose e di se stessi. Evagrio ci ricorda che l'accidia «è solita avviluppare l'anima tutta intera e soffocare 1'intelletto»[9]. Ecco perché è difficile smascherarla: chi ne soffre, non riesce a riconoscerla, in quanto l'accidia - dice Evagrio - «oscura la luce divina negli occhi»[10]. Significativamente, ancora oggi, in situazioni di questo genere, diciamo: ‘Soffoco!’»[11].● Cuore appesantito. Un evidente sintomo spirituale dello stato di accidia è quello che potrebbe essere definito col termine evangelico di «cuore appesantito»: «state bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita» (Lc 21,34). Tale pesantezza interiore evoca altre immagini, come quella del cuore indurito, insensibile e impenetrabile (il contrario è il cuore compunto, il penthos) e quella del cuore piombato in un sonno profondo, in un torpore. In ogni caso, la situazione che ne deriva è tipica di chi ha perso un'agilità interiore, di chi non è più attento agli stimoli che rendono dinamica e in tensione l'esistenza; di chi non sa discernere occasioni o pericoli e di conseguenza si lascia trascinare, soccombere. Questa pesantezza, che investe tutta la vita, crea una struttura di uomo ‘addormentato’.

Ma è utile ricordare ancora che tale pesantezza si nasconde in profondità, nel cuore. Citando il Sal 118(117), 28, Cassiano nota come il testo scritturistico si esprima così: «Dormitavit anima mea prae taedio, id est prae acedia». E commenta: «non il corpo, ma l'anima si assopisce. Perché veramente dorme di fronte alla contemplazione di tutta la vita…»[12].

● Insensibilità e indifferenza. Una conseguenza grave di questo stato di torpore e altro sintomo radicale del potere dell'accidia è l'insensibilità, l'indifferenza (anaisthesìa), una sorta di morte spirituale che ‘anestetizza’ ogni senso interiore attraverso cui si prende contatto con le realtà più profonde del proprio io e soprattutto con Dio. È, dunque, una situazione veramente drammatica: è come essere caduti in balìa di quegli idoli «che hanno occhi e non vedono, orecchie e non ascoltano, narici e non odorano...», cioè incapaci di comunicare e lasciarsi penetrare dalla parola. Tutto ciò rende la vita passiva, trascinata, spenta; nulla suscita interesse, crea tensione o gusto. Sottolineiamo due tipiche reazioni che scaturiscono da tale stato di indifferenza.

La prima reazione consiste in un'amara mormorazione contro Dio, tanto da generare un disgusto per la sua Parola: si passa dall'eucharistia all'acharistia: «l'accidia accusa Dio di essere senza cuore (letteralmente: senza viscere, àsplachnos) e di non essere amico degli uomini (aphilànthropos)»[13]. Una seconda reazione che caratterizza questo stato di insensibilità è la tendenza a banalizzare la realtà. Mascherata da una falsa parresia, si ride di tutto: tutto viene trascurato, tutto perde valore, non si prendono sul serio le cose che compongono la vita. Con l'illusione che sono cose piccole e insignificanti - ammoniscono i Padri - si giunge a disprezzare e banalizzare ciò che è importante.

 

L’accidia, male del nostro tempo

L’accidia e la depressione sembrano essere le conseguenze più evidenti di una cultura e mentalità narcisista, che fa di se stessi il centro di ogni realtà. La presenza diffusa di questo vizio può essere letta come un potente segno di avvertimento: essa ricorda che è falso il sogno di una civiltà felice, realizzato grazie alla tecnologia e all’abbondanza dei beni. La crescita tecnologica non può compensare la povertà della vita interiore, la perdita del senso di gratuità delle cose, di quello stupore che, secondo gli antichi, caratterizzava l’origine della sapienza e dell’esperienza spirituale. Gli studi condotti in sede psicologica confermano quanto depressione e tristezza si presentino come fenomeni preoccupatamente in crescita nelle società occidentali, colpendo in particolare la fascia di età che dovrebbe essere la più aperta alla vita. Uno studio sui comportamenti suicidari tra i giovani ha mostrato una notevole escalation, a partire dagli anni Sessanta, interessando in modo particolare gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, i Paesi in cui l’ideale della vita all’insegna della sicurezza e dell’abbondanza di beni sembra essere maggiormente diffuso e praticato. Ciò che allarma in particolare coloro che studiano il suicidio giovanile è «l’andamento in continua ascesa di tali valori, soprattutto in alcuni Paesi, e la mancanza di idee precise su come arginare o prevenire il fenomeno. Se infatti trent’anni fa nei Paesi occidentali le condotte suicidarie adolescenziali rappresentavano circa un ottavo dell’intero fenomeno suicidario, oggi esse ne costituiscono un quinto. Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi più colpiti: fra gli anni Cinquanta e gli Ottanta l’incidenza del suicidio tra i giovani è triplicata. La classe di età più fortemente implicata è quella dei «giovani adulti" (20-24 anni) che raggiunge il ragguardevole tasso specifico di 30 per 100.000; tendenza che non sembra arrestarsi»[14].

Tra le motivazioni di tale incremento la ricerca mostrava una correlazione tra fenomeno suicidario e trasformazioni sociali avvenute nello stesso periodo, quali la crisi dell’istituto familiare, la dissoluzione del tessuto sociale, l’aumento di comportamenti distruttivi a livello giovanile. Si tratta di elementi in crescita anche a motivo di proposte culturali sempre più propagandate e diffuse a livello di media, il cui messaggio di fondo è che qualunque cosa ci si senta di fare diventa perciò stesso lecita: tale fenomeno secondo l’autore mostra «le contraddizioni e le antinomie di un mondo sempre meno basato su fondamenti e punti di riferimento etici»[15].

Si pensi ancora alla diffusione, sempre più ampia e incoraggiata a livello pubblico, di droghe, alcool, farmaci per sopperire alla tristezza di vivere, all’incapacità di dare stabilità alle proprie scelte, alle relazioni, a impegni di qualsiasi genere... Al fondo di tale situazione si nota il disagio e l’impotenza di poter riempire un vuoto radicale, ontologico, della costituzione umana: l’accidia, essendo un male dello spirito, si mostra refrattaria a soluzioni meramente tecniche.

Forse questo vizio appare così diffuso perché riflette l’odierna mancanza di speranza. Di fronte alle difficoltà sorge, inevitabile, l’interrogativo sul senso di un impegno che si rivela incapace di oltrepassare risultati immediati e possibili frustrazioni: «Nel nostro mondo l’accidia non prende più il volto della pigrizia, ma quello del lasciare fare, dell’abbozzare. Tanto, si dice: “Sono tutti uguali e migliorare è impossibile”. Questo modo di ragionare evita costantemente di mettere in questione la propria condotta [...]. Viviamo nel mondo del fare, ma l’agire è spesso accompagnato dalla disaffezione: la smania di distrazione prevale sulla capacità di attenzione [...]. L’accidioso non sa faticare. Soprattutto non si sa dedicare. Nel nostro tempo vi sono uomini che non sanno coltivare a lungo neppure un amore. Dicono: che noia!»[16].

 

La pace, dono del Risorto

«Beati gli operatori di pace…». Gesù dichiara beato chi opera la pace, e chi desidera esserlo deve impegnarsi a realizzarla. Ma cos’è la pace? È solo assenza di conflitti? No, molto più. È infatti una Presenza: quella del Risorto: «Egli è la nostra pace» (Ef 2,14) e vuole regnare nel nostro cuore.

Corriamo sempre il rischio di perdere la pace per le cose più diverse: per un motivo davvero grave o per una sciocchezza. Il nostro Nemico cerca di distogliere il nostro sguardo fiducioso dal Signore, da ciò che è essenziale, e guardare a noi stessi, a sentirci vittime di ingiustizia, a ribellarci… a farci valere, a battere i pugni, e ad usare anche la violenza.

Spesso ci agitiamo, ci inquietiamo nel tenta­tivo di voler risolvere tutto da soli, mentre sarebbe molto più efficace restare calmi, sotto lo sguardo di Dio, lasciandolo agire e operare in noi con la sua saggezza e la sua potenza, infinitamente superiori alle nostre. «Poiché così dice il Signore Dio, il Santo d'Israele: “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell'abbandono confi­dente sta la vostra forza”. Ma voi non avete voluto» (Is 30,15).

Il nostro non vuole essere, ben inteso, un invito alla pigrizia e all'inerzia; ma un'esor­tazione a non agire mossi da uno spirito d'inquietudine e di fretta eccessiva, bensì sotto l'impulso mite e pacifico dello Spirito di Dio. San Vincenzo de' Paoli, la persona meno sospettabile di pigrizia, diceva: «Il be­ne che Dio opera si fa da sé, quasi senza che uno se ne accorga. Bisogna essere più passivi che attivi; e così Dio solo farà per mezzo di voi ciò che tutti gli uomini insieme non po­trebbero fare senza di lui».

Questa pace del cuore ci libera da noi stessi, aumen­ta la nostra sensibilità verso l'altro e ci rende disponibili al prossimo. Solo l'uomo che go­de di questa pace interiore può aiutare in modo efficace un fratello. Come, infatti, do­nare la pace ad altri se non la si possiede? Come potrà esserci pace nelle famiglie, nella società, tra le persone, se prima di tutto non regna la pace nei cuori?

«Conquista la pace interiore e una moltitudine troverà la salvezza presso di te», diceva san Se­rafino di Sarov, un grande santo russo del Settecento. Per acquisire questa pace inte­riore, egli si è sforzato di vivere nella pre­ghiera incessante. Dopo sedici anni di vita monastica e sedici di vita eremitica, ritornato al monastero di Sarov rimase altri sedici anni recluso in una cella. Egli ha cominciato a irradiare in modo visibile quanto s'era operato nella sua anima solo dopotutti questi anni di vita contemplati­va. Ma con quali frutti! Migliaia di pellegri­ni andavano da lui e ripartivano confortati, liberati da dubbi e inquietudini, illuminati sulla loro vocazione, guariti nel corpo e nell'anima.

L'esortazione di san Serafino non fa che te­stimoniare la sua esperienza personale, iden­tica a quella di tanti altri santi. L'acquisizione e il mantenimento della pace interiore, im­possibili senza la preghiera, dovrebbero es­sere considerati una priorità, soprattutto per chi ha la pretesa di voler fare del bene al prossimo. In caso contrario, spesso comuni­cheremmo a chi è nella difficoltà solo le no­stre inquietudini.

 

Pace e lotta spirituale

È necessario soffermarci su un'altra verità, non meno importante: la vita cristiana è una lotta, una guerra senza tregua. San Paolo ci invita, nella Lettera agli Efesini, a rivestire l'armatura di Dio per lottare non «contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mon­do tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6,12). Ogni cristiano dev'essere ben convinto che la sua vita spirituale non può in alcun caso ridursi a uno scorrere tranquillo di giorni senza storia, ma deve essere il luogo di una lotta costante (contro il male, le tentazioni, lo scoraggiamento), a volte dolorosa, che terminerà solo alla morte.

La lotta spirituale del cristiano, pur es­sendo talvolta dura, non è mai la guerra di­sperata di chi si batte in solitudine, alla cieca, senza nessuna certezza circa l'esito dello scontro. Non combattiamo da soli con le nostre forze, ma con il Signore che ci dice: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debo­lezza» (2Cor 12,9). La nostra arma principale non è la naturale fermezza del carattere o l'abilità umana, ma la fede, questa totale ade­sione a Cristo che ci permette, anche nei momenti peggiori, di abbandonarci con fi­ducia cieca a colui che non ci abbandonerà. «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13).

Il credente, in tutte le sue battaglie, qualun­que ne sia la violenza, si sforzerà di custodire la pace del cuore. Infatti la pace interiore non è solamente una condizione della lotta spirituale, essa ne è — molto spesso — il fine. È molto frequente che la lotta spirituale consista esattamente in questo: difendere la pace interiore dal nemico che si sforza di ra­pircela.

In effetti, una delle abituali strategie messe in atto dal demonio per allontanare un'anima da Dio e ritardarne il progresso spirituale è tentare di farle perdere la pace interiore. Ec­co cosa dice in merito Lorenzo Scupoli, uno dei più grandi maestri spirituali del XVI se­colo, molto stimato da san Francesco di Sa­les: «Il demonio si sforza con tutto se stesso di bandire la pace dal nostro cuore, perché sa che Dio dimora nella pace ed è nella pace che opera grandi cose».

Sarà molto utile rammentarlo perché spesso, nello svolgimento quotidiano della nostra vita cristiana, accade che sbagliamo combat­timento — se così si può dire —, che mal orientiamo i nostri sforzi. Combattiamo su un terreno dove il diavolo ci trascina sottil­mente e sul quale può vincerci, invece di combattere sul vero campo di battaglia dove, con la grazia di Dio, siamo sempre sicuri di vincere. Questo è uno dei grandi segreti della lotta spirituale: non sbagliare combatti­mento, saper discernere, malgrado le astuzie dell'avversario, contro cosa dobbiamo real­mente lottare e dove dirigere i nostri sforzi. È errata la convinzione che, per riportare la vittoria nella lotta spirituale, occorra vincere tutti i nostri difetti, non soccombere mai alla tentazione, non avere più debolezze e mancanze. Su questo terreno saremo im­mancabilmente sconfitti! Perché, chi di noi può avere la pretesa di non cadere mai? Non è certo questo che Dio esige, «poiché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Sal 103,14). Al contrario, la vera lotta spirituale, più che nel perseguire un'invincibilità e un'infallibilità assoluta­mente fuori dalla nostra portata, consiste principalmente nell'imparare a non turbarci eccessivamente quando ci capita di essere miseri e a saper approfittare delle nostre ca­dute per rialzarci più in alto. Cosa sempre possibile, a condizione di non perderci d'ani­mo e di conservare la calma.

Si potrebbe dunque a ragione enunciare questo principio: il primo obiettivo della lotta spirituale, verso cui devono tendere i nostri sforzi, non è ottenere sempre la vitto­ria (sulle nostre tentazioni, sulle nostre de­bolezze, ecc.), ma è piuttosto imparare a cu­stodire il proprio cuore nella pace in tutte le circo­stanze, anche in caso di sconfitta. Dobbiamo mirare a questa vittoria completa sui nostri difetti e desiderarla, ma essere ben consapevoli che non bastano le nostre proprie forze, e non pretendere di ottenerla immediatamente. È unicamente la grazia di Dio che ci darà la vittoria, e la sua azione sarà tanto più potente e rapida se sapremo mantenere l'anima nostra in pace e abban­donarci con fiducia nelle mani del Padre.

 

Operatori di pace

Nel Vangelo Gesù si avvicina sempre pacificando o pacifica avvicinandosi. Questo significa essere “operatori di pace”: fare come Gesù. Aiutare le persone a ritrovare l’essenziale, ciò che conta. Vi sono persone che, a causa della loro profonda pace interiore emanano un’atmosfera di pace e di serenità, che dissolve nei cuori le inquietudini, ridesta la fiducia, rende l’animo tranquillo e sicuro. La loro anima è così piena dello Spirito Santo e di benevolenza verso i fratelli, che qualsiasi forma di aggressività, di violenza, di cupidigia è estranea al loro comportamento.

Ma operare la pace è ancor più. Non è solo stemperare le tensioni, acquietare gli animi. È operare per il bene e la felicità degli uomini, riconosciuti fratelli. Infatti in ebraico la parola “pace” significa prosperità, pienezza, buone relazioni umane. È questo che si augurano gli ebrei con il saluto “shalom”. Operare la pace vuol dunque dire operare per il vero bene del prossimo. E far del bene agli altri, ovviamente, vuol dire voler il loro vero bene, quello di cui hanno davvero bisogno, non quello che immagino io. Il che significa che l’impegno per il bene e la gioia degli altri passa attraverso la conoscenza dell’altro, attraverso la relazione. Come, d’altra parte, fa il Risorto con noi.

Certo, senza la giustizia non ci può essere la pace. E in questo la nostra beatitudine si collega all’altra: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia». Per avanzare nella costruzione di un mondo in pace, di giustizia e di fraternità, il santo padre ci ricorda che va sempre tenuto fermo il seguente principio: il tutto è superiore alla parte, ed è anche più della loro semplice somma. «Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia»[17].

Papa Francesco ci dice che per il cristiano questo impegno va accompagnato nella fede «che l'unità dello Spirito armonizza tutte le diversità. Supera qualsiasi conflitto in una nuova, promettente sintesi»[18].

Il costruttore di pace deve però anche sapere che talvolta l'unica via alla pace passa attraverso il conflitto. È la giustizia a chiederlo e in questa direzione abbiamo già citato le parole di Gesù: «sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,34). L'inevitabile conflitto consente di mettere in crisi la solitudine del dominatore. E come avverte papa Francesco c'è sempre la tentazione di sottrarsi al conflitto. Il cristiano, invece, deve «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo»[19].

 

La buona politica è al servizio della pace

Nel messaggio in occasione della 52° giornata della pace (1° gennaio 2019), papa Francesco ha affermato con chiarezza e forza: «La pace è simile alla speranza di cui parla il poeta Charles Péguy; è come un fiore fragile che cerca di sbocciare in mezzo alle pietre della violenza. Lo sappiamo: la ricerca del potere ad ogni costo porta ad abusi e ingiustizie. La politica è un veicolo fondamentale per costruire la cittadinanza e le opere dell’uomo, ma quando, da coloro che la esercitano, non è vissuta come servizio alla collettività umana, può diventare strumento di oppressione, di emarginazione e persino di distruzione» (n. 2). Già Pio XI aveva affermato che la pace è il campo della più alta carità[20].

Ora in politica c’è spesso un modo di agire che – guarda caso – assomiglia da vicino a quello del Nemico, e quindi in pieno contrasto con il modo di agire ispirato a quello divino. Nel suo studio Ritter individua l’origine di questo stile “demoniaco” nell’idolatrare il rapporto amico-nemico: «Questa è l'essenza demoniaca del potere, che anche laddove si combatta con effettiva serietà per un fine ideale, alla lunga il successo viene accordato solo a colui che combatte con maggiore vigoria per il suo interesse egoistico e per far valere la sua personale volontà, e che colleghi questa sua volontà di farsi valere con la posta in gioco per la sua causa. Dichiarando “nemico” tutto ciò che gli si oppone sulla via del successo e ponendo questo rapporto amico-nemico al di sopra d'ogni altra valutazione, perde per lui anche il momento etico, la sua validità autonoma e incondizionata»[21].

Il dichiarare nemico tutto ciò che si oppone a sé costituisce il punto di partenza di chi crede e opera come se l'essenza del potere fosse la lotta in sé e per sé. Così nella lezione di don Sturzo: «Si deve avere sempre presente il proposito di non portare la lotta politica a fondo per la distruzione dell'avversario, di non rendere impossibile l'intesa con i partiti che si combattono, di non tagliare mai i ponti sul terreno elettorale e parlamentare. L'errore enorme di ridurre il paese a due blocchi fermi e chiusi per l'eliminazione del competitore dovrebbe essere bandito con ogni cura. Non bisogna mai portare le lotte sul piano di una guerra civile. Ci sono partiti che non hanno altro scopo che la conquista del potere: per tali partiti la sconfitta è una vera perdita; il loro lavorìo sarà di nuovo quello di guadagnare adepti per un'altra lotta. I partiti che invece hanno un ideale più alto, la realizzazione di un programma morale e sociale, sanno utilizzare la sconfitta a un più vantaggioso piano di azione. Noi siamo a favore di questo secondo tipo di partiti»[22].

Quando chi governa un'istituzione trasforma la normale competitività in conflittualità permanente, identificando se stesso con la causa politica, abbandona l'interesse comune per il proprio, ponendo l'istituzione in uno stato di perversione. Il quadro etico di riferimento non cambia, cioè i soggetti in questione non si sognerebbero mai di negare i principi morali fondanti, ma praticamente il loro operato è posseduto dal demoniaco. Il loro male è tutt'altro che banale (come lo definisce al Arendt[23]), ma affonda le sue radici in deliberate e ponderate riflessioni.

Giova un riferimento ad alcune costanti dello “stile demoniaco”:

L'affermazione smisurata di sé. Col ritenersi unico, insuperabile, insostituibile, il politico inizia un deleterio processo di autoreferenzialità, che lo allontana dalle persone e dal servizio al loro bene, mentre divinizza il proprio ruolo e potere. L'etica politica può ammettere solo un'affermazione di sé nel quadro di regole precise e ferree, nel contesto di un servizio che fa bene più agli altri che a sé, visto che non esiste vero servizio che non sia sacrificio ad ogni livello. Il cinismo. Cinico è colui, scriveva Ocar Wilde, che «conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna»[24]. Cinico è dunque chi presta attenzione alla concretezza, ma non crede in nulla. Tali persone – spesso brillanti – non perdono occasione per smontare con battute sagaci ciò che gli altri credono.

Sono molti gli atti politici ispirati da rassegnato cinismo. Non rientra in esso l'ostacolare la crescita economica e culturale dei cittadini, pur avendone le possibilità di promuoverla? Non è diabolico chi ha lasciato crescere la criminalità organizzata pur di non sconvolgere equilibri consolidati nella loro convivenza? Non c'è del perverso nello scegliere e nominare successori o collaboratori, di cui si conosce precisamente la loro pessima qualità morale e scadente professionalità?

L'ambiguità. È demoniaco ciò che è ambiguo. Per definizione è ambiguo ciò che può ammettere due o più significati. Spesso l'ambiguità è favorita dalla vaghezza, cioè da una mancanza di precisione nel definire i termini. Chi esercita il potere in un'amministrazione pubblica, in una compagine politica, in un'organizzazione internazionale, diventa ambiguo quando nel riferirsi a ciò che è costitutivo del suo essere e del suo agire, introduce pluralità di significati e muta quelli esistenti. Succede allora che alcuni concetti essenziali per un'istituzione, quali l'ordine, il bene comune, la giustizia, l’onestà, la fiducia e così via, assumono significati diversi a seconda delle circostanze. Il demoniaco è proprio questa costante mutevolezza.

Perché servo del bene comune nella sua verità e interezza, chi comanda deve scegliere e le sue scelte devono essere chiare e pubbliche. Non può governare gli altri chi non dice mai chiaramente da che parte sta e perché. Il parlare sì, sì, no, no non è una questione di stile, ma di autenticità (cfr. Mt 5,37).

La menzogna. Il demonio è il principe della divisione e della menzogna. Quante vittime hanno causato le menzogne espresse per ragion di Stato? Nel suo The art of political lying, Swift parlando del mentitore politico così lo definisce sinteticamente: «egli non si chiede mai se una data proposizione sia vera o falsa, ma piuttosto se, in quel momento o in quel contesto, sia conveniente sostenerla o ricusarla»[25]. La calunnia. Nella maggior parte dei casi il nemico se non esiste va creato. Insinuazioni, pettegolezzi, sospetti, dubbi creano quell'humus in cui al nemico vengono fatti assumere tutte quelle caratteristiche che hanno la pretesa di legittimare la diabolica cattiveria riservatagli da chi esercita il potere. Gezabele scrisse lettere calunniose sul conto di Nabot (1Re 21,8-16).

Esiste un modo per resistere al demoniaco presente nel potere? L'analisi di Ritter ci offre un quadro preciso di resistenza attuata sulla base di un esercizio costante di ragione, diritto e morale: chi esercita il potere «deve unire in sé i più forti contrasti: essere appassionato e tuttavia assennato, pieno di fede nella sua missione e tuttavia consapevole dei suoi limiti. Deve potersi irrigidire contro i suoi nemici e tuttavia mantenersi infine pronto alla riconciliazione, dov'essa sia razionalmente possibile. È veramente un'unione rara di facoltà contraddittorie, ma è anche l'indispensabile presupposto di ogni vera grandezza storica»[26].

Alle tentazioni nel deserto, il Cristo rispose con la fermezza dalla profonda coscienza della sua missione (Lc 4,1-13). La tentazione ci può essere anche per il cristiano, ma è possibile combatterla, senza cedere. È una lotta dura. Ma a questo è chiamato colui che opera per il bene comune, per la pace.

«… saranno chiamati figli di Dio»

Rendere fratelli è l’opera del Padre e di chi già è figlio. La pace vera, quella lasciataci da Cristo (Gv 14,27), quella che nasce dal cuore, è capace di creare l’autentica famiglia di Dio, dove tutti si sentono compresi e amati come figli di Dio e fratelli tra loro.

Operare la pace è dunque proprio di chi agisce come suo Padre. Per questo Dio, che è interamente interessato alla felicità degli uomini, chiamerà suoi figli coloro che agiscono come Lui.

E «chiamarli» significa che lo sono e vengono da Lui riconosciuti tali. Vale a dire che con il loro essere ed agire danno al mondo l’immagine del vero Dio.

 

NOTE

[1] G. Bunge, Akedia. Il male oscuro, Magnano (Bi), Qiqajon, 1999, 34.

[2] J. Ratzinger, Regarder le Christ. Exercices de foi, d’espérance et d’amour, Paris 1992, 89.

[3] E. Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano 1999, p. 44.

[4] G. Bunge, Akedia..., cit., pp. 69-71.

[5] Cf. E. Rojas, El hombre light. Una vida sin valores, Madrid 1992; J.A. Vallejo-Nágera, Conócete a ti mismo. Los grandes problemas psicológicos de nuestro tiempo, Madrid 91990.

[6] S. Tommaso D’Aquino, S.Th. II-II, q. 35, a. 1.

[7] Papa Francesco, Omelie da Santa Marta, Oltre i formalismi, 1 aprile 2014.

[8] G. Bunge, Akedia..., cit., p. 73.

[9] Evagrio Pontico, Praktikos, 36.

[10] Evagrio Pontico, Antirrhetikos, VI,16.

[11] G. Bunge, Akedia..., cit., p. 62.

[12] Giovanni Cassiano, De institutis coenobiorum, X,4.

[13] Giovanni Climaco, Scala Paradisii, XIIL, 90, PG 88, col 860A.

[14] P. CREPET, Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio, Milano, Feltrinelli, 1993, 35. Dati molto simili si trovano in ricerche più recenti (cfr Hardwired to Connect: The New Scientific Case for Authoritative Communities, New York, Institute for American Values, 2003; C. WALLACE, «Kids These Days: Tbc Changing State of Childhood», in The Christian Century 122 [2005] n. 6, 26-40), o svolte in atri Paesi, come la Francia (A. ANATRELLA, Non à la société dépressive, Paris, Flammarion, 1993, 249) e 1’Italia (C. BUZZI - A. CAVALLI - A. DE LILLO, Giovani nel nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, il Mulino, 2002; A. MAGGIOLINI, Sballare per crescere?, Milano. FrancoAngeli, 2003, 31).

[15] Ivi, 52.

[16] S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Milano, Feltrinelli, 1997, 12 s.

[17] Evangelii Gaudium, 235.

[18]Ibid, 230.

[19]Ibid, 227.

[20] Pio XI, Discorso alla FUCI (18.12.1927).

[21] Ibid., 38.

[22] L. Sturzo in De Rosa, Luigi Sturzo, Utet, Torino 1977, 390.

[23] H. Arendt, Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano 1986, 227.

[24] O. Wilde, Tutte le opere, Vol. II. Teatro e Poesia, Casini, Roma 1987, 69.

[25] J. Swift, The art of political lying (1710), Blackwell, Oxford 1966, 11.

[26] G. Ritter, Il volto demoniaco del potere, cit., 38, 191-192.

«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»

Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra” (Lc 23,44). La morte di Gesù è descritta dall’evangelista con una valenza cosmica. Anzitutto si parla di tenebra in pieno mezzogiorno, che ricorda le tenebre iniziali di quando Dio creò il mondo. Quindi la tenebra è simbolo del caos originario nel quale il mondo ricade alla morte di Gesù perché si è allontanato dal Dio della vita. E come nel caos originario lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque, così ora lo Spirito farà una nuova creazione.

Questa tenebra ha anche un altro significato: richiama le tenebre d’Egitto, la morte dei primogeniti. La morte di Gesù, primogenito del Padre, è l’inizio del mondo nuovo, il mondo pasquale, liberato da ogni schiavitù.

Si squarcia il velo del tempio (cfr v. 45). Il velo del tempio separava Dio dal resto che non è Dio, e quindi anche dall’uomo. Il santo dei santi è il luogo della presenza della “gloria” (dove “gloria” significa “peso”: è il luogo nel quale pesa la presenza divina). La Gloria ha squarciato tutto col suo peso per accogliere il ritorno del Figlio a “casa”. Se pensiamo alla parabola del figlio prodigo, o della pecora perduta, o del buon samaritano, la ricerca finalmente si compie: nella carne di Gesù c’è il ritorno a casa di tutti i figli perduti.

Inoltre questo “squarcio” del velo del tempio pone fine alla vecchia economia: Dio non ha più veli, lo si contempla nel volto del Figlio. Ed è una economia che non è più riservata a Israele, ma che è offerta a tutti, a tutti i lontani.

Gesù grida a gran voce. È eccezionale questo grido per uno che muore in croce. Nelle tenebre risuona la voce divina. È la voce potente del Verbo, che fa nuove tutte le cose (Ap 21,5). Cosa grida? Marco e Matteo non lo dicono. Luca sì.

Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. Gesù cita il Sal 31 (30),2.6. È un salmo di fiducia, con cui prega un orante che chiede di essere liberato dai propri nemici e dalle loro insidie, dal loro disprezzo, dalle loro calunnie. Il salmo aveva come invocazione “Dio”, “JHWH” o “Signore”. Gesù la sostituisce con “Padre”. Nella sua vita terrena aveva sempre chiamato “Abbà” il Padre celeste, espressione che, come sappiamo, significa “papà”: era il vocabolo familiare usato dai figli per rivolgersi al loro padre. Nel momento della morte, Gesù può non solo mormorare ma gridare “Abbà” con tutta la forza della sua anima filiale. Il grido manifesta lo slancio filiale che trabocca e riconosce la bontà del Padre.

Segue l’abbandono fiducioso al Padre: “nelle tue mani affido il mio spirito”. Lo spirito in Gesù altro non è che lo Spirito Santo. Grazie all’azione dello Spirito il Figlio di Dio ha preso carne nel grembo di Maria (cfr. Lc 1,35). Lo Spirito discende su di lui in forma corporea al momento del Battesimo accompagnando con questa visione la voce che dal cielo lo proclama Figlio di Dio (cfr. Lc 3,22). Con questa pienezza di presenza in lui dello Spirito e da questi guidato, Gesù va ad affrontare la prova delle tentazioni demoniache (cfr. Lc 4,1) e, vinto il demonio è con la potenza dello Spirito che inizia il suo ministero in Galilea (cfr. Lc 4,14). Si può affermare che tutta la vita terrena Gesù costituisce un tempo in cui lo Spirito riposa solo su di lui. Gesù è ben consapevole di ciò e lo esprime in particolare nella sinagoga di Nazareth, quando applica a sé le parole del profeta: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18ab; cfr. Is 61,1). Ora Gesù riconsegna Padre lo Spirito. La sua morte non è più la perdita della vita ma l’affidare la vita alla sorgente della vita. È il ritorno al Padre. È il ritorno a casa. Tutto il vangelo è la rivelazione della paternità di Dio, attraverso quanto il Figlio ha detto e fatto in ricerca dei figli perduti. Si consegna al Padre e gli affida la sua vita ormai piena, dicendo: “Ecco con me i miei fratelli che mi hai dato. Tutti li ho ritrovati, nessuno è andato perduto” (cf. Gv 10,28s). È finita la sua missione di Figlio. Ci ha aperto l’arco della vita. È l’esodo. Si compie in lui quell’esodo di cui Gesù ha parlato con Mosè ed Elia nella trasfigurazione (9,31); esodo per il quale “indurì il suo volto” (9,51).  Dopo Gesù anche noi possiamo accettare come dono sia il vivere che il morire. Ed è vinta la paura della morte.

 

Benedetta Bianchi Porro

Nasce l’8 agosto 1936. Il 26 maggio 1944, all’età di otto anni, annota nel suo diario: «Che bello vivere!». Ma il dolore bussa subito alla porta della sua vita. A tre mesi venne colpita dalla poliomielite, che le lasciò una gamba più corta: resterà zoppa. Ma lotterà per vincere questa menomazione, che le procurerà non poche umiliazioni.

Benedetta, come ogni bambina, sogna…  ma, nello stesso tempo, si accorge che i suoi sogni si dissolvono tutti come bolle di sapone. Innanzitutto pensa al matrimonio; sogno che si scontra sempre con una dura realtà. Racconta la mamma che spesso, quando vivevano a Sirmione, tutta la famiglia, soprattutto di domenica, si fermava al bar e sedeva accanto a un tavolo, all’aperto.

Benedetta aveva un volto bellissimo e, pertanto, diversi ragazzi si fermavano e le facevano qualche complimento, dimostrando di apprezzare il suo non comune fascino. Ma, appena Benedetta si alzava e, zoppicando, cominciava a camminare per unirsi alla comitiva dei giovani, essi, con evidente imbarazzo, trovavano scuse… e si allontanavano: Benedetta capiva e prendeva atto che tante strade per lei erano chiuse.

Nel 1953 Benedetta frequenta il Liceo Classico a Desenzano del Garda. Un giorno, durante la lezione di latino, avverte qualcosa di strano. «Oggi sono stata interrogata in latino: ogni tanto non capivo quello che il professore chiedeva. Che figura devo fare ogni tanto! Ma che importa? Un giorno forse non capirò più niente di quello che gli altri dicono, ma sentirò sempre la voce dell’anima mia: e questa è la guida che devo seguire».

Il 1° febbraio 1954 appunta sulla carta una prima confidenza di disperazione: «Stasera sono tanto triste e penso che non riuscirò a resistere tutta la vita così sorda: un rimedio, qualunque sia, bisogna che lo trovi e al più presto».

Benedetta ancora non sa che cosa l’aspetta: è l’inizio del suo calvario, barcolla e le sembra di naufragare. All’amica Anna Laura Conti scrive tre lettere drammatiche, nelle quali emerge il rischio della disperazione. Il 26 gennaio 1953 scrive: «Mia cara Anna, ho ricevuto due giorni fa le tue lettere; il tuo incoraggiamento e le tue parole così serene e calme placano le tempeste del mio animo. Anch’io sono assetata di pace e desidero abbandonare le onde del mare per rifugiarmi nella quiete di un porto. Ma la mia barca è fragile, e le mie vele sono squarciate dal fulmine, i remi spezzati; e la corrente mi trascina lontano. Vorrei poter raggiungere l’equilibro, vorrei poter affrontare il mondo con entusiasmo e vedere che gli uomini sono buoni e le cose belle: che insomma val la pena di vivere qualunque vita, come pensi tu. Ma temo che non vi sia in ciò felicità, temo solo che tutto sia illusione: e l’illusione mi fa tremare più della disperazione. Mi agito e lotto vanamente, perché non voglio trovare dolore dove spero ancora possa esservi pace: non ho fiducia sufficiente in me e negli altri. […]

Qua tutto passa e scorre come sempre. Si direbbe che il tempo scivoli istante per istante silenzioso e riservato: i giorni sono tristi e monotoni, nessuna novità, nessun entusiasmo, un po’ di rassegnazione e molta infelicità. Il lago è grigio, il cielo è nebbioso: talvolta, quando sento gli occhi pieni di lacrime e il pianto che mi chiude la gola, non so se sia il freddo o i ricordi. Sai, Anna, mi sembra di essere in una palude infinita e monotona e di sprofondare lentamente, lentamente, senza dolore o rimpianto, così incosciente e indifferente verso ciò che avverrà quando anche l’ultimo tratto di cielo scomparirà e il fango si chiuderà sopra di me. Scrivimi presto. Salutami tutti i tuoi».

Benedetta è anche tentata di suicidarsi. Maria Grazia Bolzoni, compagna di studi all’Università, ha raccontato che un giorno Benedetta, indicando l’ampia terrazza dell’appartamento in cui viveva a Milano durante gli studi di Medicina, le confidò che era tentata di farla finita una volta per sempre. Benedetta ha conosciuto il buio, ma non vi è rimasta.

Benedetta collezione un’umiliazione dopo l’altra: però le umiliazioni non la rendono ribelle, ma umile.

All’età di 17 anni si iscrive all’università: frequenta a Milano il primo anno di medicina. La giornata è scandita dalle lezioni all’università e dallo studio accanito. Quando esce dall’università si reca all’Istituto dei Sordomuti, dove impara a leggere le parole pronunciate dagli altri seguendo il movimento delle labbra.

Questo esercizio le richiede un grande sforzo di concentrazione. I primi tempi arriva a casa sfinita: è come apprendere una lingua difficilissima. Ma lei vuole riuscire. Deve comunicare con gli altri ad ogni costo, deve capirli.

Riesce a superare il suo primo esame universitario rispondendo alle risposte della professoressa come un libro stampato. Non vuole che la professoressa la interrompa: scoprirebbe il suo dramma. La professoressa la congeda con un voto soltanto discreto. E la guarda con severità, dicendo: «Signorina, questo è il suo primo esame. Ma si ricordi che l’università non è una scuola per pappagalli». Benedetta ha capito anche questo. Si alza avvilita. Quando esce e riattraversa la piazza per andare a casa ha le guance bagnate di pianto. Ma ripromette a se stessa che non cederà per così poco. Andrà avanti lo stesso. «Mi basta arrivare ad esercitare come l’ultimo dei medici», esclama.

Estate 1955. Dopo mesi di studio, Benedetta affronta l’esame fondamentale del primo biennio, l’esame di anatomia. È uno dei più difficili. Quando il professore la domanda lei non lo sente, indugia un attimo. Il professore, già un po’ maldisposto, le rivolge ancora la parola, ma Benedetta non capisce. Diventa rossa per la vergogna, si scusa, cerca di spiegarsi: «Soffro di una forma nervosa… sono in cura da uno psicanalista… non sento più niente».

A questo punto il coro di risate dei compagni la interrompe. Benedetta riprende: «La prego di aver pazienza… spero di guarire… se potesse farmi le domande per iscritto…»

Il professore, ormai fuori dei gangheri, le urla in faccia: «Che pazienza e pazienza! Figuriamoci! Chi ha mai visto un medico sordo?»

E il libretto universitario vola contro la porta, scagliato con violenza.

Anna, la giovane domestica, ha visto tutto. Si china a raccogliere il libretto e piange. Benedetta continua: «Le chiedo scusa. Non volevo offenderla». Il professore rimane muto. Anche i compagni ora fanno silenzio. Hanno capito che Benedetta non sta scherzando. Forse quello che ha detto è vero, drammaticamente vero.

Torna a casa e riprende a studiare come se non fosse successo nulla. Ripete l’esame a novembre. Questa volta la interroga un assistente. Il professore è lì accanto, ascolta accigliato, si è rifiutato di interrogarla.

Benedetta è preparatissima. Risponde bene per quasi mezz’ora. Prende trenta.

Benedetta è felice. Quasi corre a casa, pur zoppicando. La madre l’abbraccia e le dice: «È una grande vittoria. Sei contenta?»

Improvvisamente un’ombra passa sul volto di Benedetta: «Mamma, anche questo è andato bene… ma a che serve? Tra poco…»

Infatti, mentre ritornava a casa, esultante, d’un tratto aveva sentito un dolore acuto alla testa. Poi la vista le si era appannata, come quando si guarda attraverso l’obiettivo di una macchina

fotografica senza mettere a fuoco. Si era aggrappata ad Anna e aveva pensato: “Che brutti scherzi fa la stanchezza! Oppure sarà la troppa felicità?”

Poi, un pensiero terribile, come una folgorazione: “No, mio Dio! Gli occhi no!!!”

Benedetta ormai comincia a capire dove conduce la strada della sua malattia.

 

Le stazioni della via Crucis di Benedetta

12 luglio 1955: viene ricoverata nella casa di cura Villa Igea di Forlì. Il professor Leonardo Gui esegue un intervento chirurgico e accorcia il femore sinistro di circa quattro centimetri per togliere a Benedetta l’umiliazione dell’andamento claudicante. L’intervento riesce, ma, a motivo degli sviluppi della malattia, risulterà completamente inutile.

27 giugno 1957: per cinque ore viene sottoposta a un delicato intervento chirurgico alla testa per l’asportazione di un neurinoma del nervo acustico. Durante l’intervento, per un errore, viene reciso il nervo facciale sinistro: e così metà volto di Benedetta rimane paralizzato. Dopo l’intervento, il chirurgo presenta le scuse ed è molto impacciato davanti a Benedetta che, essendo studente di medicina, subito nota il disastro avvenuto. Però Benedetta tende la mano e, stringendo delicatamente quella del professore, esclama: «Professore, lei ha fatto quanto umanamente era possibile. Mi dia la mano. Lei non è il Padre Eterno!»

Benedetta si dimentica sempre di sé e vive preoccupandosi degli altri: inizia così il suo canto in mezzo al dolore; inizia nel momento in cui, attraverso l’amore, Benedetta incontra Dio.

4 agosto 1959: Benedetta viene operata al midollo spinale. L’intervento non produce l’esito sperato e Benedetta resta definitivamente paralizzata agli arti inferiori: d’ora in poi vivrà tra il letto e la poltrona. Sopravviene anche la paralisi vescicale e Benedetta deve sottoporsi a tutte le umiliazioni che il caso comporta. E, a poco a poco, perde il gusto, il tatto, l’odorato.

Il 28 febbraio 1963, dopo un altro intervento chirurgico alla testa, perderà anche la vista: tutto le viene tolto, ma tutto ritrova in Dio. Questo è il vero miracolo di Benedetta Bianchi Porro: la gioia trovata e cantata dentro l’esperienza del dolore.

Improvvisamente, nel deserto silenzioso della malattia, esce fuori una melodia di gioia incontenibile. Benedetta è felice!

Che cosa è successo? Il 19 aprile 1958 confida a Maria Grazia Bolzoni: «Cara Maria Grazia, finalmente due minuti liberi per scriverti!! Sono stata, e sono, occupatissima: esercitazioni, lezioni e studio mi tolgono il fiato. Come vorrei avere una forte resistenza per fare serenamente tutto ciò! Non che io non sia serena, ma gli altri notano su di me i segni della stanchezza fisica e allora apriti cielo! … Per quello che riguarda lo spirito, invece, sono serena, perfettamente, anzi sono molto di più: felice sono; non credere che esageri. Chissà perché spesso sento dire che più si è intelligenti e più si apprende, meno si è felici. Non è vero, invece: non c’è felicità senza la coscienza di essa; anzi la coscienza della mia propria felicità mi inebria e mi dà attimi di vera estasi spirituale. Certe volte ho persino timore, timore di perderla facilmente per averla acquistata a troppo piccolo prezzo».

Alla mamma, che è andata a Milano per un po’ di tempo, Benedetta scrive il 20 febbraio 1961: «Cara mamma, […] il babbo ieri sera aveva tanto lavoro: è stato in ufficio dopo cena per finirlo […]. Quanto a me sto come sempre. Ma da quando so che c’è Chi mi guarda lottare cerco di farmi forte: com’ è bello così, mammina! Io credo all’amore disceso dal cielo, a Gesù Cristo e alla “Sua Croce gloriosa” (S. Teresa del B. G.)!! Sì, io credo all’amore!»

Benedetta ha incontrato Gesù, e l’ha incontrato nella croce! Benedetta ha capito che il Crocifisso è un’inondazione di amore nel deserto della cattiveria umana: Benedetta si fida di Gesù e comincia a riempire di amore il suo dolore e, con immenso stupore, scopre che l’amore vince il dolore: l’amore conduce dal Venerdì Santo alla Pasqua. Come è accaduto a Gesù!

Il 22 aprile 1963, ormai già cieca, detta una lettera per l’amica Francis: «Cara Francis, vorrei tanto saperti ringraziare della tua lettera, che mi è giunta proprio quando mi sembrava di boccheggiare e sentivo la speranza sbiadire per dar posto in me ad un infinito senso di dolore e di angoscia. Poi ho avuto la gioia di poter farmi trasmettere le tue parole, e mi è sembrato per un attimo di essere composta di vetro, e che tu, scrivendomi, vedessi dentro di me, nell’anima. Ho sentito che l’aiuto di Dio, tramite il tuo, mi veniva incontro e mi dava una gioia più grande di quanto tu possa immaginare. Te ne sono molto grata. Nella tristezza della mia sordità, e nella più buia delle mie solitudini, ho cercato con la volontà di essere serena per far fiorire il mio dolore; e cerco con volontà umile di riuscire a essere come Lui vuole: piccola, piccola, come mi sento sinceramente quando riesco a vedere la Sua interminabile grandezza nella notte buia dei miei faticosi giorni. Così spengo la tentazione di desiderare il caldo del sole quando più grande nell’intimo la sento, e io Lo chiamo qui accanto a me, come se il mio letto fosse una piccola grotta, o una deserta cella, e Lui dovesse aiutarmi ad uscire ed insegnarmi ad assolvere meglio il mio compito, che non è solo e non deve essere solo quello di scrutarmi dentro, ma di amare la sofferenza di tutti quelli che vivono o vengono attorno al mio letto, e mi danno o mi domandano l’aiuto di una preghiera. Non sempre riesco a farlo. Riesco a fare invece anche dei capricci! … Vorrei avere tutta la pazienza che occorre per sapere aspettare, come la natura aspetta e geme la sorgente della fine e la vittoria del principio. Vorrei, nella mia stasi, essere buona e remissiva, dolce e serena, e riuscire completamente a dimenticarmi per ascoltare solo il miracolo della Sua Luce. Spero tanto, Francis, di vederti presto [eppure era già cieca!]. Ricordami alla Giovanna, all’Adriana se le vedi. Perché non siete venute tutte al matrimonio di mia sorella? Ricordati, quando verrai, delle Lettere di S. Teresa. Salutami Maddalena e tutti i fratelli di “Gioventù Studentesca”. Benedetta».

E al gesuita padre Gabriele Casolari, dettandoli alla mamma, invia questi stupendi pensieri nell’estate del 1963: bisogna «vivere lasciando che tutto il senso della nostra vita lo sappia e lo conosca Lui solo, e ce lo faccia a volte intravvedere, se così a Lui piace… Per questo solo io trovo sincerità, umiltà e mi sento docile nelle sue mani. Ed ho la certezza, che se anche Lei ha scelto la via del Sacerdozio, io dell’apostolato, è perché lo abbiamo “incontrato” per un attimo sulla nostra strada: “Dove andremo? … Tu solo, hai parole di Vita Eterna”.

È per questo, don Gabriele, che anche se sono sorda, cieca, forse fra poco, più mutilata ancora, io sento che in Lui devo essere serena: perché Lui è Luce, è promessa più eloquente, più vibrante che la parola umana. Io so, che lo seguo, anche se Lui si nasconde, e io non riesco, per attimi, a capire più il senso esatto di quello che ancora vuole da me. Sono attimi, se tutto fosse facile, non ci sarebbe salvezza. E nelle prove, mi raccomando alla Madre che ha vissuto prove e durezze le più forti, mi raccomando, anche se sono così miseramente piccola, che Lei riesca a scuotermi e a generare dentro il mio cuore, il suo Figlio, così vivo e vero, come lo è stato per Lei. Ecco, allora il dono più grosso, più grande, quasi per incanto, mi ritrovo in Lui tutta la mia serenità, appoggiata alla sua spalla, non più misera, incerta, povera, ma ricca nello spirito, perché, pregandolo, Lui non mi ha cacciata. Vede, don Gabriele, nulla è saldo in noi, e tutto quello che è saldo in noi è perché Dio ci tiene stretti con la sua mano, momento per momento. Tutto questo è il motivo per cui anche se le mie giornate sono eternamente lunghe e buie, sono pur dolci di un’attesa infinitamente più grande del dolore. Il cielo è la nostra Patria vera, e là dobbiamo mirare, all’incontro. Buon lavoro, don Gabriele, mi benedica. Benedetta».

E ancora: «Reverendo Padre, […] io in questi ultimissimi giorni sono peggiorata, di salute. Spero perciò che la “chiamata” non si faccia troppo attendere! La mente, grazie al Signore, è ancora lucida, ma sono tanto stanca! Sono molto stanca, Padre, quasi da non sentire più le parole neppure in bocca, ma mi sento spiritualmente ancora in piedi, nell’attesa di rispondere il “presente” ad un suo cenno. Le dirò, Padre, che ho già sentito la sua voce: la voce dello “Sposo”! Sono lenta nelle preghiere e nei colloqui col Signore e mi offro ugualmente così con umiltà. Lui, che è in me, mi guiderà a fare la sua volontà, fino in fondo».

E all’amica Anna, alla quale aveva inviato lettere colme di disperazione nell’anno 1953, dieci anni dopo, nel 1963, confida il segreto della sua gioia: «Cara Anna, grazie molto della tua cartolina e del tuo ricordo. Anch’io non mi sono scordata di te e ti voglio sempre tanto bene. Io però sono molto cambiata. Ora con me c’è Dio e sto bene. Come sto bene! “Voi mi avete segnata col fuoco del vostro amore”, dice una preghiera. Io vivo in un deserto silenzioso, ma con la luce della preghiera. Del resto presto suonerà la campana e Lui, finalmente, mi verrà incontro. Noi siamo la “terra” che spera sotto la neve, perché “tutte le cose stanno dove devono stare, e vanno dove devono andare: nel luogo assegnato da una sapienza che non è la nostra”. E se in qualche attimo mi sento timorosa, io dico coi discepoli: “Resta con me, Signore, perché si fa sera!” Nei miei incontri col Signore ti ricordo, e in particolare tua mamma, che mi è tanto cara. Sono cieca, sorda, quasi muta perché a fatica mi faccio capire, ma io dico con S. Giovanni nel Vangelo: “In principio era la luce, e la luce era la vita degli uomini. Risplende tra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno ricevuta” […]».

Ormai Benedetta ha incontrato Gesù. Dove? Nel dolore! Perché questa è la notizia meravigliosa che Benedetta grida con tutta la sua sconvolgente storia: Dio abita anche nel dolore; e, pertanto, il dolore non è più dolore!

Nel dolore Benedetta sente l’urlo di Gesù, che le dice: «Benedetta, soffro con te! Benedetta, riempi di amore il dolore e, insieme a me, rovescerai la pietra che chiude la tomba: e sarà Pasqua, e sarà un’inondazione di gioia». Benedetta credette, e fu così!

 

«Con me c’è Dio e sto bene!»

Come ha fatto Benedetta a incontrare Dio? La risposta è sicura: ha incontrato Dio… uscendo dall’egoismo, cioè decidendo di dimenticare se stessa per vivere negli altri.

Mi limito a raccontare tre episodi che sono rivelatori della nuova vita di Benedetta dal 1958 fino alla morte.

Nel 1962, quando era paralizzata e sorda, ma non ancora cieca, Benedetta partecipa a un pellegrinaggio di ammalati a Lourdes. Il 30 maggio, alle ore 11, viene portata davanti alla grotta per un ultimo saluto alla Madonna insieme agli altri ammalati. Accanto a Benedetta c’è Maria Della Bosca, una ragazza di Trento, che è paralizzata e disperata perché non ha ottenuto la grazia della guarigione. Benedetta se ne accorge e, dimenticando se stessa, le dice: «Maria, prega ancora, non disperarti! Anch’io pregherò per te!» e le tende la mano quasi per trasmetterle la sua umile fede. A un certo punto Maria si alza e cammina tra la meraviglia di tutti. Abbraccia Benedetta e la mamma di Benedetta e corre verso la grotta: è guarita!

Benedetta non prova alcuna invidia, ma è felice per la felicità dell’amica guarita. In una lettera del 6 giugno 1962 racconta il fatto: «Nel nostro pellegrinaggio c’è stata una miracolata: un’umile ragazza di ventidue anni, che da due anni non camminava: che bellezza! Ne sono ancora scossa».

Benedetta viveva per gli altri: e Dio viveva in lei e la colmava di gioia. Ed ecco un altro fatto, nel quale risplende il segreto della vita di Benedetta. Ella conosce il dottor Umberto Merlo, gravemente ammalato: egli però non ha la fede e si dispera lottando contro la sua malattia. Benedetta capisce lo stato d’animo di Umberto e, come sempre, dimentica se stessa per far suo il problema di un altro.

Attraverso la mano della mamma, gli scrive così il 24 luglio 1963: «Caro Umberto, mi permetta di dire così. So che è in ospedale e non sta bene, ed io ho voglia di mandarle gli auguri, dispiaciuta solo di non poter fare di più, perché vorrei tanto aiutarla. Vorrei proprio avere la possibilità di illuminarla, perché solo così Lei soffrirebbe meno e avrebbe di conseguenza lo spirito in pace!

Umberto, lasci che Dio la ritrovi e se la tenga amorevolmente sulle spalle, come dice la parabola della pecorella smarrita, che il buon Pastore ritrova, lasciando, per questa, le altre novantanove al pascolo. Il Signore, Umberto, ci è fedele: sempre. Non ci lascia in nessun momento, Lui, il più fedele degli amici! Se riguardo il tempo, anch’io ho passato tanti dolori, agitazioni, e nella lotta cercavo Lui – Lui solo – da sempre. “Dove andrete? Solo io ho parole di vita eterna!” E Lui è venuto, mi ha consolata, mi ha accarezzata nei momenti di paura e di dolore più forte, proprio quando tutto mi pareva crollato, salute, studio, sogni, lavoro.

Caro Umberto, caro Umberto, mi ascolti. Lei sa che il Signore ha detto che c’è più gioia in cielo per l’anima che si pente, che per novantanove giusti! Si lasci aiutare. Dice la Bibbia: “Mi troveranno quelli che mi cercano, se mi cercheranno con tutto il cuore”.

Non creda di essere solo a soffrire, non pensi che la sua croce sia troppo pesante. Accetti con semplicità la parte che Dio le ha dato. Come vorrei che Lei, Umberto, trovasse un po’ di quella pace, che io posseggo! Non si affanni, non si domandi: “Dov’è?” Non cerchi Dio lontano. Perché è vicino a Lei, soffre con Lei. È in Lei, nel suo cuore! Lo ami, allora, semplicemente, con umiltà.

Per questo io le ho scritto, per questo io prego per Lei. E Lei, al Signore, domandi aiuto anche per me. I miei sinceri auguri, arrivederla. Sua sorella Benedetta».

Umberto è folgorato da questa lettera: avverte una luce, una delicatezza, un’umiltà, una speranza… che per lui sono terra sconosciuta. Riceve tanto conforto da questo scritto inatteso e va serenamente incontro alla morte il 30 agosto 1963. Benedetta è cieca e sorda; nessuno le ha detto nulla della morte di Umberto… eppure a un certo momento, nel pomeriggio di quel 30 agosto 1963, confida alla mamma e al fratello Corrado che stanno accanto al suo letto: «L’esilio di Umberto è finito! Tutti i suoi dubbi ora saranno dissipati».

Come aveva fatto a saperlo? Tutto questo appartiene al segreto dei santi.

Benedetta interviene anche dopo un bisticcio tra i suoi genitori. Così scrive la mamma: «Ebbi un bisticcio con mio marito e mi arrabbiai molto. Quella mattina, quando andai a portare la colazione a Benedetta, lei mi prese la mano e l’accarezzò. Faceva quel gesto affettuoso tutte le mattine. E nell’accarezzarmi la mano, disse: “Mamma, sento che non sei tranquilla. Cosa è successo?”

Risposi: “Ho bisticciato con il babbo”. Il mattino dopo, Benedetta mi chiese: “Sei ancora arrabbiata?” Risposi di sì. Il nostro dialogo avveniva per mezzo dell’alfabeto muto. Passarono circa otto o dieci giorni. Lei non mi faceva più domande per timore di essere indiscreta. Ma una mattina mi disse: “Mamma, deve essere molto grave ciò che ti è successo, perché ancora non sei tranquilla”. Dapprima io dissi: “Ma no, Benedetta!” Poi, però, non seppi resistere e aggiunsi: “Mi voglio dividere dal babbo”. Mi domandò: “Di quanti metri ti vuoi dividere?”

“No, non scherzare! Parlo sul serio”. “Mamma, ricordati che l’uomo non può dividere ciò che Dio ha unito”. “Però io sono stanca di questa situazione!” Allora lei mi disse: “Mandami qui il babbo”».

Il padre di Benedetta indugia, non vuole entrare nella stanza della figlia, trova tutte le scuse. Passa circa un mese. Alla fine, di fronte all’insistenza da parte della moglie, si decide, ma vuole che con lui ci sia anche la moglie.

«Entrammo. Io – racconta la madre – presi la mano destra di Benedetta e le comunicai: “Il babbo è qui. Da tanti giorni lo aspettavi. Lui non poteva. Ma adesso è venuto”. Lei gli disse: “Babbo, dammi le mani”. Quando il babbo le diede le mani, lei le baciò e disse: “Queste mani, queste manone grosse, quanto hanno lavorato per i tuoi figli! Come ti sono grata! Scusami, babbo, se qualche volta ti ho dato dei dispiaceri. Adesso vai al tuo lavoro. Non voglio rubarti del tempo. Volevo dirti solo che da tanto non sentivo le tue mani!”

Mio marito, che si aspettava un rimprovero, a sentirsi dire quelle parole, a vedersi baciare le mani, si mise a piangere e uscì dalla camera. Io rimasi. Benedetta si immerse in preghiera. Dopo un poco, stese la mano e sentì che io ero là, vicino a lei. Disse: “Mamma, sei ancora qui? Perché non mi parli?” Le risposi: “Perché sono molto arrabbiata con te”. Benedetta mi disse: “Davvero, mamma? Perché?” Ero proprio in collera e dissi tutto d’un fiato: “Perché è quasi un mese che volevi parlare con il babbo. Io mi aspettavo che tu gli dicessi chissà cosa!… Invece l’hai ringraziato per il suo lavoro, gli hai baciato le mani…” Benedetta esclamò: “Allora, mamma, sono anch’io arrabbiata con te”. “Ah, va bene, invertiamo le cose!” Benedetta concluse: “Non invertiamo niente. Soltanto, ricordati: se qualcuno sbaglia nei tuoi confronti o verso altre persone, fagli sentire che lo ami di più. Solo così proverà l’umiliazione di avere sbagliato. L’amore corregge. I rimproveri suscitano la ribellione. Amalo come prima e più di prima. Lui comprenderà il proprio errore”».

In Benedetta ardeva un amore disinteressato e sempre pronto a fare il primo passo… verso tutti: per questo motivo Dio viveva in lei e la riempiva di pace. E la pace di Benedetta contagiava chi poteva avvicinarla.

 

L’ultimo giorno: «Grazie»

20 gennaio 1964, domenica. Attese invano che alcuni amici andassero a trovarla. La loro assenza la rattristò: «Sai, mamma, per molti Benedetta è già morta. Eppure molti mi ricorderanno, rimpiangeranno di non essermi stati accanto in quest’ora. La fine è vicina, ma non dovrai mai sentirti sola, mamma, ti lascio tanti figli, tanti figli da guardare».

22 gennaio 1964, vigilia della morte. Conversò a lungo con la mamma e con l’infermiera: «Ho mirato molto in alto: vorrei raggiungere il Signore… Tutti noi siamo in una sala d’aspetto, in attesa, come in stazione… Dopo l’inverno viene sempre la primavera».

Ore 22. Chiama la mamma. E dice, indicando col dito verso l’alto, cercando l’immagine del Bambino fra le braccia della Madonna a capo del letto: «Vedi, Lui è un Dio che opera meraviglie: ricordatelo».

E poi aggiunse: «Mamma, ti chiedo un favore: inginocchiati accanto a me e ringrazia il Signore per tutti i doni che mi ha fatto». La mamma guardò la figlia e la vide deformata, impedita in tutte le sue espressioni vitali, inchiodata sul letto da anni, cieca e sorda e privata di tutto ciò che le persone abitualmente cercano per essere felici. La mamma ebbe un momento di ribellione e disse: «No, Benedetta! Non mi chiedere questo: io non ho la tua generosità!»

Poi la mamma guardò la figlia aspettando la reazione: il volto di Benedetta si fece triste… a causa della mamma. La mamma, allora, si pentì e si inginocchiò e, senza che Benedetta la vedesse, pianse… e ringraziò il Signore per lei: e lentamente pronunciò il Magnificat, così come Benedetta desiderava!

23 gennaio. Ore 8. Le avevano detto che c’era un uccellino sulla finestra. Lei chiese su quale delle due finestre fosse precisamente. Emilia, che si era accoccolata sul letto alla sua sinistra, le spiegò che l’uccellino era appunto sul balcone, cui lei stessa volgeva le spalle. Allora Benedetta tese la mano sinistra per prendere quella dell’infermiera, mentre con l’altra stringeva quella della madre; e, rivolta in quella direzione, si mise a cantare: «Rondinella pellegrina…», indugiando molto sulle ultime parole. Pareva proprio che guardasse di là dai vetri. L’infermiera fu colpita dall’accento particolare della voce, sottile, ma limpida, come da anni non aveva più: «Signora, ma non sente che voce? Questa è voce che viene dal cielo: la Benedetta muore». Poi corse dalla Carmen, la sorellina più piccola, e le disse: «Va’ di là, baciala prima di andare a scuola, quando torni non la trovi più». Carmen abbracciò la sorella strettamente, tanto che la mamma la rimproverò perché temeva potesse farle male. Benedetta disse: «Ciao Carmen, sii più buona che brava».

La mamma va un momento in cucina. Un uccello beccuzzava dietro la vetrata; poi prese il volo. La madre, seguendolo, vide qualcosa di bianco nell’aiuola dove l’uccello si era posato.

Tornò in camera con la grande notizia: «Benedetta, nell’aiuola grande è nata una rosa».

«Di che colore?» domandò Benedetta.

«Bianca».

«Oh, mamma, quale notizia mi dai: questo è un dolce segno» [«Per coloro che credono, tutto è segno» aveva detto una volta].

«Te la vado a prendere».

«No, è troppo presto ancora».

Poi Benedetta chiese alla madre di leggerle la lettera che le aveva scritto Lucio, ma poi disse: «Scusa… sto pensando a quello studente di Epoca…»

«Sì, Benedetta, vuoi scrivergli?»

«Per potergli scrivere dovrei prima pregare, umiliarmi davanti a Dio e non ho più tempo… Dillo a…»

Parve assopirsi. Poi si riprese ancora e di nuovo chiese la lettera di Lucio. La madre, sempre più angosciata, saltava alcune frasi, cercando di abbreviare e di riassumere. Benedetta, lucidissima, se ne accorse e tentò un sorriso: «Mamma, o Lucio ha disimparato l’italiano o sei tu che non sai leggere».

La mamma batte con la mano sul dorso della mano di Benedetta in segno d’intesa e rilegge da capo tutto lo scritto di Lucio: «Avrei tanta voglia di venire a trovarti, ma per ora devo accontentarmi di incontrarti e pensarti alla Comunione durante la Messa; lì ci ritroviamo tutti».

Benedetta annuì. «E ora ti trascrivo un brano della

prima lettera di san Paolo ai Corinzi che mi piace molto».

«Anche a me» commentò Benedetta. «Perché dimostra come la croce, cioè Dio crocifisso per amore, non ha senso per chi vuole perdersi, ma è salvezza per chi lo riceve. Inoltre non sono i miracoli che ci fanno incontrare Dio, e neppure la sapienza, ma la croce di Cristo».

«Sì» commentò Benedetta.

E la madre continuò a leggere: «Il discorso della croce per quelli che si perdono è follia, ma per quelli che si salvano è sapienza di Dio e potenza di Dio. Poiché sta scritto: distruggerò la sapienza dei sapienti».

Benedetta chiese alla madre di ripetere ancora questo passo della lettera. E citò distintamente lei stessa la frase di Isaia, avanti ancora che la madre gliela “trasmettesse”: «Distruggerò la sapienza dei sapienti e respingerò l’abilità degli abili. […] Poiché, mentre i Giudei domandano segni e i Greci sono in cerca di sapienza, noi proclamiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e follia per i pagani…»

A questo punto la mamma concluse: «Ed ora non voglio affaticarti di più».

«Non fa niente, è l’ultima volta» mormorò Benedetta.

Illudendosi di distrarre la malata e di farla riposare un poco, la madre le disse: «Adesso vado a prenderti da mangiare, sono le undici» (La madre e l’infermiera mentivano a Benedetta riguardo alle ore).

«No, sono le dieci! È già l’ora. Rimani mamma. Mamma… ricordi la leggenda?»

Ormai la voce di Benedetta era un sussurro quasi incomprensibile nell’affanno dell’agonia che sopraggiungeva. La madre non capiva e tacque sconvolta. «Molto importante, capisci, mamma?»

«No, Benedetta…» rispose smarrita la madre.

«La leggenda, ricordati…»

Benedetta si sente molto male, divenne violacea in volto: furono chiamati d’urgenza il dottore e don Lino, il parroco di Sirmione.

Entrò la sorella Manuela. Benedetta la riconobbe dall’anello. (Riconosceva anche la madre per via di un grosso anello). Benedetta ebbe un’ombra di sorriso: «Grazie». Il dottore le praticò un’iniezione endovenosa.

Avvertendo la puntura, Benedetta volse la testa da un lato con un piccolo gesto di sofferenza: «Ma cosa mi fate ancora?»

Però si riprese subito: «Grazie». La madre, sconvolta, mise la mano di Benedetta in quella della sorella e corse fuori dalla stanza.

Benedetta fece un piccolo gesto, come di saluto. E parve addormentarsi: era entrata in Cielo! E la sua ultima parola è il testamento della sua fede, della sua bontà e della sua umiltà: grazie!

Il padre di Benedetta, quando accorse accanto al letto della figlia, ebbe un sussulto: il volto di Benedetta era ritornato bello ed espressivo come quando aveva sedici anni.

Benedetta ormai aveva vinto la grande battaglia contro l’egoismo e contro l’orgoglio; e aveva aperto a Dio la porta della sua libertà diventata umile, semplice e fiduciosa. E il suo corpo mandò un raggio di conferma.

E la leggenda? A che cosa voleva alludere Benedetta? La mamma, alcuni giorni dopo la morte, si ricordò che Benedetta amava tantissimo la leggenda Il mendicante e il re di Tagore: ella sentiva di aver dato tutto al Signore e sentiva di aver ricevuto il centuplo fin da quaggiù… in letizia, in pace, in speranza incrollabile, in gioia di vivere nell’attesa dell’incontro con Gesù.

Ecco la leggenda:

Ero andato mendicando di uscio in uscio lungo il sentiero del villaggio, quando, nella lontananza, apparve il tuo aureo cocchio come un segno meraviglioso; io mi domandai: Chi sarà questo Re di tutti i re? Crebbero le mie speranze e pensai che i miei giorni tristi sarebbero finiti; stetti ad attendere che l’elemosina mi fosse data senza che la chiedessi, e che le ricchezze venissero sparse ovunque nella polvere. Il cocchio mi si fermò accanto. Il tuo sguardo cadde su di me e scendesti con un sorriso. Sentivo che era giunto alfine il momento supremo della mia vita. Ma Tu, ad un tratto, mi tendesti la mano dritta dicendomi: «Cosa hai da darmi?»

Ah!, qual gesto regale fu quello di stendere la tua palma per chiedere a un povero!

Confuso ed esitante tirai fuori lentamente dalla mia bisaccia un chicco di grano e te lo diedi.

Ma qual non fu la mia sorpresa quando, sul finir del giorno, vuotai per terra la mia bisaccia e trovai nello scarso mucchietto un granellino d’oro! Piansi amaramente per non aver avuto il cuore di darti tutto quello che possedevo.

Benedetta non pianse, ma gioì per aver dato tutto e testimoniò che il Vangelo è vero fino all’ultima sillaba. Per questo motivo la sua ultima parola fu: «Grazie!»

«Oggi sarai con me in paradiso»

Tutti i sinottici ricordano che insieme a Gesù vengono crocifisso due ladroni. E Gesù è nel mezzo. Gli evangelisti Marco e Matteo sono concordi nell’affermare che anch’essi insultano Gesù (cfr. Mc 15,32; Mt 27,44). Solo Luca introduce la “variante” del “buon ladrone” (Lc 23,39-43).

«Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» (v. 39).  A queste parole reagisce l’altro malfattore crocifisso, che comincia a rimproverarlo: “Neanche tu hai timore di Dio benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male” (vv. 40-41). È da notare anzitutto che quest’ultimo, che noi chiamiamo “buon ladrone” riconosce il proprio peccato. Questa è la conversione: essere “rei confessi”, divenuti finalmente capaci di aprirci all’amore più grande di ogni male. Questo mi guarisce la vita dall’egoismo, e mi rende uomo nuovo. Personalmente credo che il malfattore è giunto a questo punto almeno per due motivi:

- egli sa che Gesù «non ha fatto nulla di male», è un “giusto”. Se è qui non è per colpa sua. Allora perché muore in croce? Che senso ha la sua morte?

- ha osservato come Gesù stava affrontando la morte: non una parola di disperazione, non una parola di odio e di rivalsa verso coloro che lo hanno condannato, non una invettiva contro i carnefici... E poco prima aveva anche offerto il perdono a tutti, quasi scusandoli: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Insomma la morte di quest’uomo era una “morte diversa” dal solito. È la morte di chi non è ripiegato su di sé, di perdona, di chi ama. E ama anche me. Gesù in croce ha attirato la sua attenzione: «Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Mostra la sua gloria di Figlio a tutti, compreso all’altro malfattore. Ma la sua gloria è “oscura”, è una luce che non si impone, esige che l’uomo non rimanga chiuso nel suo egoismo, nella sua ottusità, non rifiuti la luce della verità di Dio e di se stesso, ma riconosca la propria cecità. Allora il Figlio gli rivelerà la propria identità di figlio.

Ecco, qui capiamo in cosa consiste la salvezza personale: il Signore è andato in croce per star vicino a me che sono in croce. Quindi è morto per me, che sono malfattore, come per tutti gli uomini. Ed è proprio questo che il secondo malfattore capisce: la sua morte è solidarietà con me. In tal modo il secondo malfattore, “scoperta” la solidarietà di Gesù, si interpella ad essa: «Gesù (lo chiama con il nome proprio, che significa: Dio salva!) ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (v. 42). Anche i lebbrosi lo avevano chiamato Gesù, Signore. E il cieco lo chiamò dicendo: «Gesù, Figlio di Davide». Cioè capisce che Lui è Re davvero. E capisce che c’è un Regno che va oltre la vita e la morte. È il Regno del Padre. Il Regno dell’Amore più grande della morte.

Ecco quale deve essere la certezza di ogni cristiano: sono salvato nella morte proprio per il fatto che qualunque sia la mia vita e la mia morte, Dio è lì con me. E la mia morte è sempre comunione con Lui. E siccome la paura della morte è il principio dell’egoismo - cioè dell’autodifesa, da cui derivano le mie cattive azioni -, allora, con la certezza che Dio è sempre con me posso finalmente vivere una vita nuova, cioè da figlio e da fratello. Ora non ho più bisogno di salvarmi a tutti i costi perché sono stato liberato dalla paura della morte (cf. Eb 2,14).

Al malfattore Gesù risponde: «Amen, ti dico, oggi, sarai con me in paradiso». Non domani, oggi. Gesù aveva detto già altre volte oggi” (cf. 2,11; 4,21; 6,26; 13,32-33; 19,9; 22,34); questo è il settimo oggi, l’oggi definitivo della salvezza. Quando è l’oggi di Dio? Quando noi ascoltiamo la sua Parola. L’ascolto della Parola ci rende contemporanei alla salvezza, all’oggi eterno di Dio che ci ha aperto in Gesù.

«... con me sarai nel paradiso». “Con me”: è questa la salvezza. Essere in comunione con Lui, l’essere con Lui.

Forse a noi disturba questa generosità di Gesù. “Quel ladrone non si merita tale dono! Neppure un po’ di purgatorio! Niente! Non è giusto!”. È un modo comune di ragionare. Ma non è quello di Gesù. Gesù sa che nulla meritiamo. Che tutti, in realtà siamo mal-fattori, cioè non siamo all’altezza di quel fare-il-bene a cui simo chiamati. E se riconosciamo che abbiamo fatto del bene, dobbiamo sinceramente riconoscere che è grazia di Dio, «perché senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5). È il suo dono, il per-dono a creare in noi la capacità di portare «molto frutto».

La logica del per-dono (cioè, etimologicamente, il “dono per”) è quindi la logica divina che siamo chiamati a vivere anche noi se vogliamo configurarci a Gesù. Qui mi soffermo su due aspetti di questa logica: il perdono e il dono di sé.

 

Il perdono

Le obiezioni al perdono

Gesù ci chiede di perdonare sempre (cfr. Mt 18,22). Il perdono è espressione di libertà, forse la più alta, proprio perché imprevedibile e inscrutabile. È “difficile” capire perché qualcuno decida di perdonare, mentre possono apparire comprensibili le motivazioni di chi rifiuta di accordare questo gesto, anche per piccoli sgarri. Per questo ci sembrano più “ragionevoli” le seguenti, ricorrenti, motivazioni:

- Se mi vendico, starò meglio. Falso. Perché anche quando la vendetta si realizza con successo, non reca mai la soddisfazione sperata, ma ulteriore sofferenza e dolore. C’è infatti il rimorso e la sensazione di non essere stati molto diversi da chi si è voluto punire.

- Non posso perdonare, provo ancora rancore. Certo, non si può perdonare in un batter d’occhio. Ci vuole tempo. C’è tutto un cammino da fare. E il primo passo è quello di dare voce alla rabbia e alla protesta per la sofferenza subita. È il primo passo, indispensabile per poterne compiere altri, un passo obbligatorio per il processo del perdono.

- Non riesco a dimenticare. Perdono e dimenticanza sono atteggiamenti completamente diversi: il primo è un atto volontario, il secondo involontario. Prescrivere la dimenticanza è come dire: «ricordati di dimenticare». Un simile atto risulta, oltre che contraddittorio, anche dannoso, perché porta all'effetto contrario, rafforzando la memoria dell'avvenimento. È ciò che in psicologia viene chiamato «intenzione paradossale», in cui la proibizione di un evento favorisce il suo insorgere. Se ci fosse la dimenticanza non ci sarebbe alcun motivo per parlare di perdono. Invece si perdona proprio perché c’è qualcosa che ci fa soffrire perché ritenuto ingiusto. Allora la “dimenticanza” non è un motivo valido per non perdonare.

- Il perdono è una forma di debolezza. In realtà, esso è esattamente il contrario. Può perdonare solo chi è interiormente forte, chi ha saputo dare spazio a sentimenti e atteggiamenti che consentono di affrontare e apprezzare la vita, e quindi anche quella di chi mi ha ferito.

 

I passi del perdono

Il perdono è una conquista, quella appunto dei forti che vincono il male con il bene. È ciò che Gesù ha fatto. È ciò che tanti santi hanno fatto.

Quali sono le tappe per raggiungere il perdono? Dando per scontato che ogni esperienza coniugale è unica ed irripetibile, non è inutile tratteggiarne qualche elemento indicativo, quasi modello paradigmatico per una educazione al perdono che sappia coniugare in unità predisposizioni umane ed esigenze tipicamente cristiane. Il perdono rappresenta infatti il frutto di un insieme di atteggiamenti che toccano in profondità la nostra psicologia e richiedono un atto di trasformazione interiore, espressione a un tempo dell’impegno personale e/o di coppia e dono della grazia che viene da Dio e dalla presenza del suo Spirito

- Dare il nome al proprio rancore. È importante dare un nome ed esprimere il proprio rancore. Vederlo in faccia è già un modo per non lasciarci condurre ciecamente da esso. E così è anche importante esprimerlo nei giusti modi.

- Guardare l’altro con occhi diversi. Non si tratta di giustificare, ma di guardare in una prospettiva diversa, quella di cogliere l’altro nella sua verità personale. In fin dei conti l’altro non è il mostro che il mio rancore dipinge, ma spesso è una povera persona. P. Levi, riflettendo su ciò che Auschwitz aveva si­gnificato per chi, sopravvissuto, ne è rimasto segnato per sempre, riconosceva che il passo più auspicabile, anche se il più difficile, restava quello di capire l'of­fensore. L'empatia consente di restituirgli i suoi colori reali, che non sono quelli che l'odio e il risentimento gli hanno attribuito; spesso anzi emerge una figura pietosa, che in un certo senso si è distrutta con le pro­prie mani.

Per questo risulta così importante conoscere la per­sonalità dell'offensore; quando ciò diventa possibile viene smantellata l'immagine che, istintivamente, ci si era fatti del colpevole, un'immagine, per quanto po­tente e suggestiva, falsa.

- Rivisitare la propria storia. Non si può perdonare se non siamo consapevoli di essere stati perdonati. Fare memoria del perdono già ricevuto ci mantiene nell’umiltà e ci fa apprezzare la gratuità di chi ce l’ha donato. A partire da quella del Signore. Da questa consapevolezza non può che sgorgare il desiderio di essere io stesso capace di offrire il perdono a chi mi ha ferito.

 

La forza del perdono

Solo il perdono può convertire il cuore. Può far cambiare una persona. Per questo Gesù ha detto: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Chi guarda al Crocifisso conosce l’amore del Padre nel Figlio, non fugge più, cioè si converte; libero dalla cecità e dalle paure che lo bloccano, contempla la rivelazione della sua identità di figlio, per il quale il Padre ha dato suo Figlio.

Ci sono numerosi episodi che ci mostrano con lucidità la verità del Vangelo. Ne cito alcuni[1].

Emblematica è la recente sto­ria del Sudafrica, anzitutto la politica di governo adot­tata da N. Mandela, cristiano convinto di confessione metodista, all'indomani della sua liberazione, avvenuta nel 1990. Egli trascorse in carcere ben 27 anni, ingiustamente condannato a motivo del suo im­pegno nella lotta contro l'apartheid, un carcere duro, segnato dall'isolamento, dalle intemperie, dai lavori forzati e durante i quali morirono, senza che egli po­tesse neppure vederli, la madre e il fratello, e senza sapere nulla della moglie e dei figli, con cui non riuscì più a riallacciare il legame una volta tornato in libertà. Eppure egli decise di perdonare i suoi carcerieri e co­loro che lo avevano condannato, meravigliando i suoi stessi oppositori. Una volta ottenuta la carica di capo dello stato, fece del perdono la politica di ricostruzio­ne di un paese che era giunto sull'orlo della guerra civile: «Egli dette, sorprendendo tutti, un ricevimento per le vedove dei politici che lo avevano imprigionato e pranzò con il magistrato che aveva sostenuto la sua impiccagione»[2].

Per Mandela il perdono è l'arma più potente a disposizione di un uomo, capace di proteggerlo da ogni male, fino a renderlo invincibile, perché con esso sconfigge il suo più grande nemico, se stesso, mante­nendo salda la lucidità e il controllo di sé.

La vicenda del Sudafrica risulta sotto molti aspet­ti densa di insegnamenti. Nel corso del processo di pacificazione la psicologa P. Godobo Madikizela, membro della Commissione per la riconciliazione in Sudafrica, decise di incontrare in carcere E. de Kock, capo delle Squadre della morte, uno dei maggiori responsabili degli omicidi e violenze che segnarono il periodo dell'apartheid, al punto da essere sopran­nominato dalla gente Prime Evil («il male assolu­to»), per i cui reati venne condannato a 212 anni di reclusione. La Godobo descrive, in particolare, un momento di questo confronto, quando de Kock incon­trò alcune vedove — i cui mariti erano stati assassinati per suo ordine — che gli avevano comunicato il loro perdono: «Quando cercai di capire cosa intendesse con l'espressione “perdonare Eugene de Kock”, una delle donne disse che egli ci fornì molte più notizie di chiunque altro circa la morte dei loro mariti. Aggiunse che volle prenderlo per mano per mostrargli che c'era una possibilità di cambiare, e che lo perdonava, in­condizionatamente. Quando le vidi uscire piangendo, chiesi loro cosa significassero quelle lacrime. “Esse” — mi risposero — “non sono soltanto per i nostri mariti, ma anche per lui”. Questa fu per me una cosa così incredibile, da diventare l'inizio del mio lavoro nel campo del trauma e del perdono».

Al termine di quell'incontro de Kock sembra vacil­lare e riconoscere l'enormità di quanto compiuto: «La sua faccia cambiò; si poteva notare quanto fosse afflit­to; iniziò ad agitarsi, a tremare, la sua voce era rotta. Disse con un sospiro: “Avrei desiderato fare di più che dire `Sono dispiaciuto'. Avrei voluto riportarli in vita. E invece devo vivere con tutto questo”». A quelle parole, stupendo se stessa, Godobo si trovò ad abbrac­ciarlo, provando una profonda pena per lui[3].

Sono situazioni in cui il perdono può diventare una forza capace di sconvolgere le persone più indurite, come nient' altro potrebbe fare, una sorpresa che si ripresenta nelle circostanze più diverse.

È il caso di Yusuf Al-Azhari, primo ministro a Mogadiscio, che per ordine di Siad Barre si vide improvvisamente uccidere il suocero ed essere imprigionato per mesi, rasentando più volte la morte. Quando, anni dopo, decise di incontrare Barre a Lagos, dove si trovava in esilio agli arresti domiciliaci, e di perdonarlo, avverti non solamente una sorta di liberazione interiore, ma anche l'impatto sconvolgente di questo gesto sul suo aguzzino: «Mentre parlavo vedevo lo stupore sui suoi occhi. Vedevo il suo tormento interiore. Alla fine, vidi anche le lacrime del rimorso che gli rigavano le guance. Allora ringraziai l'Onnipotente che mi aveva aiutato a raggiungere quel luogo sacro nel mio cuore»[4].

Per quanto riguarda l'Italia, non si possono non ricordare gli episodi, per lo più nascosti ma altrettanto significativi, di coloro che decisero di perdonare gli assassini dei loro mariti, figli, fratelli, parenti, amici, durante i sanguinosi anni del terrorismo. G. Bachelet, figlio del professor V. Bachelet, ucciso a Roma dalle Brigate Rosse, in occasione dei funerali del padre volle ricordare i suoi assassini, accordando loro il per­dono, suo e dei familiari, e auspicando il loro ravvedi­mento. Anni dopo, un gruppo di ex terroristi indirizzò un memoriale al p. A. Bachelet, fratello della vittima, in cui riconoscevano di essere stati sconfitti non dalle armi dell'esercito, né dai programmi politici, ma da quel gesto accordato loro, un gesto che aveva frantu­mato la loro ideologia: «Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante il funerale del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevo­cabile [...]. E se abbiamo cercato di cambiare, ciò è avvenuto anche perché qualcuno ha testimoniato per noi, davanti a noi, della possibilità di essere diversi»[5].

Ben presto a questa lettera seguirono degli incon­tri, che con il tempo sciolsero nelle vittime rancori e diffidenze, per lasciare posto a nuovi sentimenti, e suscitarono negli assassini il desiderio di riparare in qualche modo al male compiuto. Questi incontri, indubbiamente difficili e densi di sofferenza, sono risultati anche i momenti più toccanti di questo per­corso verso la riconciliazione. I passi compiuti, da entrambi le parti, furono di tipo diverso: c'è chi non volle saperne nulla, chi decise silenziosamente di perdonare, chi chiese e ottenne un incontro per potersi finalmente guardare in faccia, l'assassino e la vittima, come ricordano in questa lettera due terroristi: «Ieri abbiamo ricevuto la visita della vedova dell'uomo che abbiamo ucciso. Descrivere le sensazioni provate quando abbiamo incontrato quella signora minuta, ma incredibilmente coraggiosa, è impresa pressoché impossibile. In quel momento sembrava che ogni di­stinzione di ruoli, qualsiasi etichetta o categoria non avessero più significato»[6].

Un momento decisivo di questo percorso sembra essere stato, per tutti, la presa di contatto con la pro­pria fragilità, capace di sciogliere una scorza apparen­temente impenetrabile, rivelando nuove possibilità, nuove strade di vita: «Molti di noi sono stati indotti a riflettere proprio dalla concessione del perdono da parte delle persone offese, da tante famiglie delle vit­time della violenza. Il perdono concesso come dono gratuito ha testimoniato e testimonia delle possibilità di essere diversi su entrambi i fronti, di poter cam­biare, di poter mettersi in movimento verso l'altro, di aver fiducia nell'uomo»[7].

È una conferma dell'osservazione di P. Ricoeur: accordare il perdono è un atto di verità, è riconoscere che l'uomo, ogni uomo è sempre più di ciò che ha fatto. Questo gesto di fiducia diviene così una modalità concreta di mostrare questo «oltre», di dare spazio alle potenzialità di bene.

Il perdono in questi contesti drammatici, lungi dall'apparire un elemento melenso e superficiale, si rivela davvero, come riconosceva Mandela, l'arma più potente a disposizione dell'uomo, di fatto l'unica arma davvero capace di spezzare la spirale dell'odio e della violenza, attestando che un modo differente di vivere è possibile, e alla portata di tutti. Un gesto che a sua volta si diffonde, contagiando altri, dando la forza di compiere a loro volta questo gesto umanamente impossibile. È l'aspetto di maggior stupore che emer­ge da parte di chi è visto destinatario inaspettato del perdono, come attesta la lettera di questo brigatista: «Mi sono accorto che, una volta innescata la spirale del perdono, la spirale dell'amore gratuito, nessuno la può più fermare. Diventa un contagio, una luce che si accende di sguardo in sguardo, di gesto in gesto, una reazione a catena: questo è il miracolo di cui oggi sono testimone. Ho questa coscienza nuova, che se riuscirò a trasformare la mia vita, questa diventerà per gli altri un segnale, e quando loro faranno altrettanto, questo segnale si propagherà, e raggiungerà altri an­cora...» [8].

 

Il dono di sé

Chiamo così la carità con la quale tanti santi hanno dato non solo qualcosa, ma la loro stessa vita a servizio dei fratelli. Tra i tanti vi voglio ricordare la bontà umile di papa Giovanni XXIII e alla meravigliosa carità di madre Teresa di Calcutta.

 

Giovanni XXIII

Il 28 ottobre 1958 viene eletto papa: un uomo di 77 anni! Quando si affaccia alla loggia della basilica di San Pietro per la prima benedizione resta abbagliato dai fari che illuminano la facciata. Quando rientra dopo la benedizione, si ferma un istante ed esclama: «Non ho visto niente! Se voglio vedere i volti dei miei fratelli, debbo tenere spenti i fari del mio orgoglio!» Quanta umiltà! E quanta attenzione per la gente, per il gregge di Dio a lui affidato!

Arriva il primo Natale e il papa confida al segretario: «La mia mamma, in occasione delle feste faceva sempre un’opera di misericordia. Andrò a trovare i bambini dell’Ospedale Bambin Gesù».

Il segretario, preoccupato, fece osservare: «Padre Santo, dal 1870 il papa non è più uscito dal Vaticano. Come possiamo realizzare questo suo desiderio?»

Il papa, sorridendo, rispose: «È semplice, caro don Loris! È semplice: apriamo la porta!» E così avvenne.

Grande emozione tra il personale, tra i genitori e i bambini. In una corsia papa Giovanni nota un bambino che non si è allontanato dal suo lettino. Papa Giovanni si avvicina, il bambino sente la vicinanza del papa e allunga la mano per toccarlo: «Sei il papa, ma io non ti vedo… perché sono cieco!»

«Come ti chiami?»

«Mi chiamo Carmine».

«Carmine, siamo tutti un po’ ciechi». Papa Giovanni sapeva leggere ogni fatto con la profondità dei semplici.

26 dicembre 1958: visita i carcerati del carcere Regina coeli. Allontana il testo scritto già preparato e confidenzialmente dice: «Quando ero bambino, un mio parente fu messo in carcere perché era andato a caccia senza licenza. Quanta sofferenza! Vi capisco! Però ora è necessario ricostruire la vita, ricostruire il cuore.

Ho messo il mio cuore accanto al vostro cuore. Quando scrivete a casa, dite alle vostre mamme e alle vostre mogli e ai vostri figli: “Il papa vi saluta con affetto”».

Un detenuto improvvisamente rompe il cordone di sicurezza e si getta ai piedi del papa ed esclama: «Papa Giovanni! Io sono un delinquente. C’è speranza anche per me?»

Papa Giovanni si china, lo abbraccia e gli sussurra: «C’è speranza per tutti!»

Tornando in Vaticano, in macchina, confida al segretario: «Caro don Loris, queste sono le gioie del papa! E queste sono le gioie di ogni cristiano».

Il 25 gennaio 1959 con un coraggio impressionante comunica la decisione di indire un Concilio Ecumenico affinché la Chiesa sappia trovare un linguaggio adatto per poter presentare all’uomo contemporaneo la bellezza del Vangelo. Il Papa è consapevole della situazione drammatica che il mondo stava vivendo, e la Chiesa non può alla sua missione di illuminare le coscienze con la parola di Dio e offrire a tutti la “medicina” della misericordia.

Il 22 ottobre 1962 il mondo è con il fiato sospeso: una flotta di navi sovietiche, carica di missili a testata nucleare, per decisione di Nikita Kruscev marcia verso Cuba; il presidente degli Stati Uniti John Kennedy è pronto a reagire a questa provocazione: potrebbe scoppiare la terza guerra mondiale, che certamente sarebbe stata una guerra atomica. Papa Giovanni si mise subito all’opera e, dopo una notte di febbrili contatti con Washington e Mosca, annuncia la pace fatta. Tutto il mondo leva un sospiro di sollievo.

Il 24 maggio. Papa Giovanni è a letto per un improvviso aggravamento della malattia, che gli causa continue emorragie. Sul far della sera esclama: «Sono qui in obbedienza. Ho davanti a me la mia anima, il mio sacerdozio, la Chiesa universale. Sono tranquillo nelle mani di Dio. Ecco, Gesù crocifisso mi invita a stendere le mie braccia accanto a lui, mentre Maria, la nostra cara madre celeste, mi incoraggia…»

Lo sguardo e il cuore di papa Giovanni sono costantemente rivolti al Crocifisso.

30 maggio, ore 23.30. Il papa accusa un dolore improvviso assai acuto alla regione gastrica, accompagnato da grave risentimento delle condizioni generali. Il professor Mazzoni profila l’ipotesi di avvenuta perforazione del tumore e nel contempo esclude la possibilità di un intervento chirurgico. Giovanni XXIII ha ormai le ore contate.

Viene chiamato anche il professor Valdoni, che tutti sapevano essere piuttosto lontano dalla fede. Papa Giovanni lo osserva mentre si china per visitarlo e poi, delicatamente, gli sussurra: «Professore, mentre lei si preoccupa del mio corpo, io penso alla sua anima e prego per lei». Il professor Valdoni rimase visibilmente commosso.

La bontà di papa Giovanni, appresa dallo sguardo costante verso Gesù Crocifisso, colpì il medico agnostico e indifferente nei confronti della fede.

31 maggio. Il segretario del papa, lo avvisa dell’imminenza della morte: «Santo Padre… l’ora è giunta: il Signore vi chiama!» Papa Giovanni non si scompone per niente e, dopo attimi di riflessione, aggiunge: «Sarà bene sentire la sentenza dei medici».

«Questa è la sentenza, Santo Padre: è la fine. Il tumore ha compiuto la sua opera».

Papa Giovanni prontamente risponde: «La mia valigia è pronta! Mi hai dato la notizia più bella, quella che aspetto da tutta la vita!»

Il segretario esclama: «Come farò senza di lei?»

Papa Giovanni resta in silenzio per qualche istante e poi risponde: «Caro don Loris, mi hanno tirato tanti sassi, ma io non li ho mai raccolti e non li ho mai restituiti. Fai così anche tu: il Signore penserà a te». Anche questa risposta nasce dalla frequentazione del Calvario e dall’attenzione umile e obbediente verso ogni parola e ogni gesto del Divino Maestro. Alle ore 11, prima di ricevere il Santo Viatico, si rivolge agli astanti che sono in ginocchio e pronuncia parole di fede grandissima: «Questo letto è un altare, l’altare vuole una vittima: eccomi pronto! Offro la mia vita per la Chiesa, la continuazione del Concilio, la pace del mondo, l’unione dei cristiani. Il segreto del mio sacerdozio sta nel Crocifisso… Quelle braccia allargate dicono che egli è morto per tutti, per tutti, nessuno è respinto dal suo amore e dal suo perdono».

Il papa, con estrema semplicità, spiega qual è il segreto della sua vita: «Il Crocifisso… quelle braccia allargate… per tutti!»

I fratelli di papa Giovanni accorrono al capezzale per dare un ultimo saluto al papa morente. Zaverio, inavvertitamente, si mette in fondo al letto e, con la sua persona slanciata, nasconde il Crocifisso, che papa Giovanni teneva appeso davanti e non dietro a sé. Il papa si agita e non riesce a parlare, ma tutti si accorgono e capiscono che c’è qualcosa che non va.

Zaverio si sposta, lascia di nuovo vedere il Crocifisso e il papa ritorna sereno: non poteva lasciare questa terra senza posare l’ultimo sguardo su colui che aveva ispirato tutti i suoi gesti e tutte le sue parole.

Il mondo intero è in preghiera per lui: i detenuti di Regina Coeli ascoltano tre Messe e gli scrivono: «Padre santo, vi siamo vicini con il nostro amore». Nel pomeriggio una folla immensa si raduna in piazza San Pietro e il cardinale Traglia celebra la Messa “per un ammalato”.

Alle ore 19.45 la Messa termina e si odono le parole del Vangelo conclusivo (come era in uso allora): «Venne un uomo mandato da Dio il suo nome era Giovanni» (Gv1,6). In quello stesso momento papa Giovanni muore.

 

Madre Teresa di Calcutta

Il desiderio in Agnes Gonxha Bejaxhiu,  (Madre Teresa) di appartenere totalmente a Dio – come racconta lei stessa – comparve per la prima volta all’età di dodici anni. «Sentii la chiamata, è qualcosa di personale. Non fu una visione. Non ho mai avuto visioni. Per sei anni pensai e pregai al riguardo. Talvolta dubitai persino di avere la vocazione. Ma infine ebbi la certezza che Dio mi stava davvero chiamando». Così Agnes formulò la sua richiesta alle Suore di Loreto. E cominciò la sua prima esperienza tra i bambini poveri nei bassifondi di Calcutta.

«All’inizio quando vidi dove i bambini dormivano e mangiavano, mi assalì l’angoscia. Non è possibile trovare povertà peggiore. Eppure loro erano felici. Beata infanzia! La prima volta che li incontrai non erano affatto contenti. Iniziarono a saltare e cantare solo quando misi la mia mano nelle loro manine sporche. Da quel giorno mi chiamarono “Ma”, che significa “madre”…Mi arrotolai subito le maniche, sistemai la stanza, trovai dell’acqua, una scopa ed iniziai a spazzare il pavimento…. Stettero a guardarmi a lungo. Vedendomi allegra e sorridente le ragazze cominciarono a d aiutarmi ed i ragazzi portarono altra acqua. Dopo due ore la stanza era stata trasformata in una pulita aula scolastica».

Da una lettera di Suor Teresa alla madre Drana: «Mi rincresce di non essere con te, ma sii felice, carissima mamma, perché la tua Agnes è felice….Il nostro centro qui è molto bello. Sono insegnante e amo il mio lavoro. Sono anche a capo dell’intera scuola e tutti mi stimano».

Nel 1948 prende consapevolezza della chiamata nella chiamata. «Viaggiavo verso Darjeeling per il mio ritiro. In treno ho ricevuto la chiamata a lasciare tutto e seguire Gesù per servire coloro che, come Lui, non hanno dove appoggiare il capo: gli ignudi, i disprezzati, gli abbandonati, i dimenticati, i derelitti….Non c’era dubbio che fosse opera Sua….

Il messaggio era chiaro. Era un ordine. Sapevo qual era il luogo a cui appartenevo, ma non sapevo come arrivarvi, né come tutto si sarebbe realizzato. Lasciai che Dio mi usasse come più Gli piaceva, in modo a me sconosciuto…». Così, dopo aver ottenuto il permesso di lasciare il convento di Loreto, iniziò il suo lungo servizio tra i più poveri.

Ottiene dal papa Pio XII l’esclaustrazione dall’Istituto delle Suore di Loreto. Gli inizi sono difficili: come religiosa è tenuta ad obbedire all’Arcivescovo di Calcutta e compie dei gesti che allora erano rivoluzionari: per esempio decide di indossare l’abito tipico delle donne povere, un sari bianco con le strisce blu e la croce sulla spalla. Dopo aver perfezionato il corso di infermiera si dedica totalmente ai poveri e ottiene il permesso di aprire il primo ricovero. Madre Teresa non apre un grande ospedale, ma una semplice stanza in cui trasporta i moribondi che ella raccoglie lungo le strade di Calcutta, e li assiste, perché possano morire in maniera degna di un uomo.

Il lavoro è enorme. Altre Suore che prima erano sue consorelle, chiedono di aggregarsi a lei e nel 1950 si forma il primo nucleo delle Missionarie della Carità.

A Madre Teresa non gli mancheranno le critiche: una tra queste perché Madre Teresa era contro l’aborto; un’altra perché si diceva che la sua carità portava sollievo ai moribondi, invece bisognava agire sulle cause. Discorsi anche giusti, teoricamente, alle quali ella rispondeva che intanto che si discute sulle cause, le persone muoiono

Proviamo ora a penetrare con discrezione dentro la sua anima. Nel 1948, dopo aver lasciato Loreto, scrive: «Dio vuole che io sia una suora libera, ricoperta della povertà della croce…». «Gesù, unico amore del mio cuore, desidero soffrire ciò che soffro e tutto ciò che Tu vuoi io soffra per puro amor Tuo, non per i meriti da acquistare, né per le ricompense promesse, ma solo per renderTi felice, per lodarTi e benedirTi nel dolore come nella gioia».

Certamente questa carità di Madre Teresa nasce dalla contemplazione amorevole della croce:

«“HO SETE” (cfr. Gv 19,28) è qualcosa di molto più profondo che dire semplicemente “ti amo”. Per me la sete di Gesù è qualcosa di così intimo….Se ascolti con il cuore sentirai, ti accorgerai della Sua presenza, capirai…».

«Hai visto con gli occhi dell’anima con quale amore Lui ti guardi? Hai sentito le parole di vita che Lui ti rivolge? Chiedi questa grazia. Lui desidera ardentemente dartela».

«“HO SETE, DAMMI DA BERE” disse Gesù quando fu lasciato senza alcuna consolazione, quando stava morendo in assoluta povertà, quando venne lasciato solo, disprezzato e lacerato nel corpo e nell’anima. Parlava della Sua sete, non di acqua, ma di amore, di sacrificio».

«Gesù, conoscendo l’amore del Padre per ciascuno di noi, ha sofferto ed è morto così che noi possiamo amare ed essere amati dal Padre. Non aveva bisogno di soffrire sulla Croce, ma lo ha fatto perché ti ama e mi ama…..Nessuno, nemmeno Gesù avrebbe potuto sopportare quell’umiliante sofferenza se non per amore».

«Per se stessa la sofferenza non ha senso, ma quando permetto a Gesù di soffrire in me, quando Lui mi concede di condividere la Sua Passione, allora il significato è straordinario. E‟ il dono più grande che Dio possa fare ad un’anima. Possiamo offrirlo in riparazione, per la pace, per un amore più grande….».

«Gesù ha sete del nostro amore e questa è la sete di tutti, poveri e ricchi. Noi tutti abbiamo sete d’amore… “HO SETE” è una vita che deve essere vissuta a fianco di Gesù, non una semplice devozione».

«Fino a quando non proverai nell’intimo che Gesù ha sete di te, non potrai sapere chi Lui vuole essere per te, o chi Lui vuole che tu sia per Lui».

Fondamentale è l’Eucaristia. «Per poter donare Gesù dobbiamo avere Gesù. Le persone non hanno fame solo di pane, hanno fame di amore comprensivo, vogliono Dio, vogliono Gesù nella loro vita. Questa fame deve essere saziata, e tu ed io abbiamo la responsabilità di donar loro Gesù».

«Noi traiamo la vera forza dall’unione intima con Cristo. La nostra giornata inizia con la S. Messa. Tutte noi sappiamo che se non crediamo e vediamo Gesù sotto le sembianze del pane sull’altare, non lo potremo riconoscere nel volto sfigurato dei poveri».

L’adorazione eucaristica, insieme alla S. Messa, era un momento di preghiera fondamentale. «Non è possibile impegnarsi direttamente nell' apostolato senza essere anime di preghiera. Dobbiamo essere consapevoli della nostra unione con Cristo così come Lui lo era della Sua con il Padre. La nostra opera è realmente apostolica solo nella misura in cui la lasciamo agire in noi e attraverso di noi, con la Sua potenza, il Suo desiderio, il Suo amore».

«Tu ed io dobbiamo condividere questo lavoro, unirci ai piedi di Gesù nel Santissimo Sacramento e lì, ai suoi piedi, offrirGli il nostro amore ed il nostro servizio…  L’Eucarestia ed i poveri non sono che un unico Amore».

Madre Teresa vedeva e amava Gesù nel povero. «Toccando il Cristo ammalato tocchiamo il Suo corpo sofferente e questo ci farà dimenticare la nostra ripugnanza e le tendenze naturali; ci metterà a contatto con la potenza dell’amore che guarisce. Abbiamo bisogno di occhi di fede per vedere Cristo nel suo corpo lacerato, dietro ai vestiti sporchi sotto i quali si nasconde il più bello tra i figli dell’uomo».

«Come devono essere pure le nostre mani per toccare il corpo di Cristo come il sacerdote Lo tocca sull’altare… Con quale fede e devozione solleva l’Ostia Sacra!” Lo stesso dobbiamo fare noi quando solleviamo il corpo dei nostri poveri ammalati. Mettiamo lo stesso amore, la stessa fede e devozione nelle nostre azioni, e Gesù le riceverà come se Gli siano state fatte personalmente».

«Credo alle parole di Gesù: “Lo avete fatto a Me” questo è l’unico motivo e la gioia della mia vita: amarlo e servirlo sotto il volto sfigurato del povero, di colui che non è accettato, dell’affamato, dall’assetato, dell’ignudo, del senzatetto, e, naturalmente, facendo questo, proclamo il Suo amore e la Sua compassione verso ciascuno dei miei fratelli e delle mie sorelle sofferenti».

Ci colpisce come Madre Teresa abbia vissuto questo eroismo della carità nonostante l’oscurità della fede che ha vissuto per molti anni. «Se mai diventerò una santa, sarò di sicuro una santa dell’oscurità. Sarò continuamente assente dal Paradiso per accendere la luce a coloro che, sulla terra, vivono nell’oscurità» (Lettera a P. Neuner, 06.03.1962.

Nel 1942, prima ancora della “chiamata nella chiamata”, aveva fatto il voto di non negare mai nulla a Dio. Qualche tempo dopo, racconta di aver avuto una locuzione interiore, una voce che le diceva: «Non ti rifiuterai di fare questo per me?». Questo momento di grazia, in cui sente Gesù, dura fino al 1947, cioè fino all’anno dopo di aver deciso di darsi completamente al servizio dei poveri. Ma dopo di allora non ha più sentito niente; salvo un mese nel 1958, poi fino alla morte non ha più sentito niente!

Anzi, più andava in mezzo ai poveri e più sentiva la fatica, l’oscurità della fede, tanto che all’inizio pensava che il Signore la stava purificando, la stava preparando a qualcosa di grande. Pensava che - come dice S. Giovanni della Croce - dopo la notte viene il giorno: ma quel giorno non veniva mai!

Da allora cominciano dubbi e “pene come dell’inferno”, dice lei stessa: «Dicono che la pena che soffrono le anime nell’inferno è la perdita di Dio. Io sperimento proprio questa terribile pena … di Dio che non sembra esistere in realtà … Gesù, ti prego: perdona le mie bestemmie».

Ma la sua fede non viene meno, continua a pregare in una solitudine impressionante e dice:  «Signore, mio Dio, chi sono io perché Tu mi abbandoni? … Io chiamo, io mi aggrappo, io voglio ... e non c’è nessuno a rispondere, nessuno a cui mi possa aggrappare… Sono sola. L’oscurità è così fitta e io sono sola, non voluta, abbandonata. La solitudine del cuore che vuole amore è insopportabile. Dov’è la mia fede?.... Mio Dio, quanto è dolorosa questa sofferenza sconosciuta. Fa soffrire senza tregua …. Non oso pronunciare le parole e i pensieri che si affollano nel mio cuore e mi fanno soffrire un’indicibile agonia … Se c’è Dio, per favore mi perdoni, confido che tutto finirà in Cielo con Gesù … Mi viene detto che Dio mi ama, e tuttavia la realtà dell’oscurità, del freddo e del vuoto è così grande che niente tocca la mia anima. Prima che l’opera iniziasse c’era così tanta unione, amore, fede, fiducia, preghiera, sacrificio. Ho fatto un errore ad abbandonarmi ciecamente alla chiamata del sacro Cuore? L’opera non è in dubbio, perché sono convinta che essa sia Sua e non mia. Non sento nulla, nemmeno un semplice pensiero né tentazione entra nel mio cuore per rivendicare qualcosa dell’opera […]. Se ciò ti porta gloria, se Tu ottieni una goccia di gioia da questo, se le anime sono portate a te, se la mia sofferenza sazia la tua sete, eccomi, Signore, con gioia accetto tutto fino alla fine della vita e sorriderò al tuo volto nascosto, sempre» (dalla “Lettera-preghiera al Signore”, senza data).

Ma Madre Teresa non viene meno alla sua fede e continua a invocare e nella notte che la tormenta dice:  «Gesù, ascolta la preghiera, se ciò ti è gradito, se il mio dolore, la mia sofferenza, la mia oscurità e la mia separazione ti danno una goccia di consolazione, fa’ di me quello che vuoi, sono tua. Imprimi nella mia anima e nella mia vita le sofferenze del tuo cuore. Non guardare i miei sentimenti e neanche il mio dolore: se la mia separazione che viene da te, permette che altri si avvicinino a Te, voglio di tutto cuore soffrire ciò che soffro, non solo adesso, ma per l’eternità. Se il mio dolore, la mia sofferenza serve a qualcuno, l’accetto».

Quindi impara non solo ad accettare l’oscurità della fede, ma a farne uno strumento di donazione per gli altri. Scopre, cioè, che questa prova che il Signore le chiede di vivere (”Mi hai promesso di non rifiutarmi niente”), non è solo per purificarla, ma è un modo di dare la vita. È il modo che anche Gesù ha vissuto: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!».

Ella scrive: “L’oscurità, la solitudine e il dolore, la perdita e il vuoto di fede, di amore e di fiducia; questo è tutto ciò che ho e in tutta semplicità lo offro a Dio per le sue intenzioni, in segno di gratitudine. Preghi per me, perché possa non “rifiutare Dio” e accettare ogni cosa e qualsiasi cosa in abbandono assoluto al santo volere di Dio, ora e per tutta la vita” (Lettera a p. Picachy, 26.04.1959).

Madre Teresa capisce sempre più che in questo modo partecipa alla sete di Gesù. E più va avanti, più ha la consapevolezza di capire che cosa sentiva Gesù quando dalla croce diceva: “Ho sete”. È questo che le dà la forza di sopportare per tanti anni la prova: la certezza che grazie a quella prova lei condivide il grido di Gesù sulla croce: “Ho sete”. Questo le basta, non solo per purificarsi, ma per contribuire alla riparazione del peccato nel mondo.

___

[1] Cfr. G. Cucci, P. come perdono, Cittadella, Assisi 2011, 46-51.

[2] C. Regalia - G. Paleari, Perdonare, cit., 59.

[3] Cfr. G. Godobo Madikizela, A Human Being Died That Night: A South African Story of Forgineness, , Houghton, Marines Books, 2004.

[4] Borris-Dunchnstang, Perdonare, cit., 218.

[5] A. Bachelet, Ritornate a essere uomini! Risposte di ex terroristi, Rusconi, Milano 1989, 16: corsivo nel testo.

[6] Ivi, 99.

[7] Ivi, 70-71.

[8] Ivi, 68.

«… perché vedranno Dio»

Questa è la promessa che Gesù fa ai puri di cuore: avere la possibilità di vederlo. Nell’AT a Mosè che chiede: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), Dio risponde: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Mosè vedrà Dio solo di spalle (cf. Es 33,21-23). Così Mosè può sperimentare la presenza di Dio nella sua vita, senza riuscire a fissarlo. La stessa esperienza è vissuta anche dal profeta Elia, che arriva a cogliere la misteriosa presenza di Dio solo nella «voce di silenzio sottile» (1Re 19,12).

Gesù annuncia che l’impossibile è diventato possibile.

Ma che cosa significa propriamente «vedere Dio»? La formula biblica appartiene al linguaggio teologico per designare l'evento escatologico. «Vedere Dio» implica una comunione profondissima, che trasforma l'uomo: trasformazione iniziata nella vita del credente, ma che si compirà solo nella pienezza dell'eternità. È la visione dei beati nel paradiso. In questa prospettiva, Giovanni nella sua prima lettera mette in evidenza quello che già siamo diventati per grazia, insistendo sulla tensione verso il compimento futuro, quando sarà possibile vedere direttamente Dio e ciò comporterà la nostra piena realizzazione, determinando la completa conformazione a Lui:

«Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1Gv 3,2-3).

Si noti che il vedere Dio è legato anche ad una certa purificazione. «Vedere Dio» dunque significa diventare come lui, essere trasformati a sua perfetta somiglianza, eliminando ogni ostacolo e ogni limite creaturale della condizione dell'uomo sulla terra.

Lo ribadisce anche Paolo nell'elogio dell’agàpē, per sottolineare il contrasto fra la visione presente e la tensione alla futura pienezza: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia» (1Cor 13,12).

Per capire la novità del vedere Dio «faccia a faccia» ricordiamo qui quale è il limite creaturale della nostra conoscenza in questa vita. Qualunque sia l’oggetto della mia conoscenza, supponiamo un fiore, essa avviene non per un’unione fisica del fiore con me – il fiore rimane esteriore -, ma per il fatto che una rappresentazione di esso - che chiamiamo idea – viene colta dalla mia mente.

Orbene, la nostra futura conoscenza di Dio sarà diversa da questo modo di conoscere che ci sembra tanto diretto. Avverrà, infatti, attraverso un’unione immediata tra Dio e l’intelligenza umana: la stessa essenza divina viene nella nostra mente come rappresentazione di se stessa, diventando per noi al tempo stesso oggetto e principio di conoscenza. In altre parole, i beati conoscono Dio nella modalità nella quale Dio, che è spirito, conosce se stesso; non dunque come qualcosa di estraneo ad essi, ma – essendo pienamente in lui (Dio sarà tutto in tutti) - come se si identificassero con lui.

 

«Vedere Dio in tutte le cose»

Sant’Ignazio di Loyola ci insegna che è possibile «vedere Dio in tutte le cose». Sa che Dio opera in questo mondo e abita in tutta la realtà (la natura, l’uomo, la storia). Questo Dio, che è Creatore e Signore, può essere “scoperto” o “riconosciuto” negli avvenimenti della vita quotidiana. A sant’Ignazio gli era divenuto facile riconoscere questa presenza del Signore che lo riempiva di gioia.

Certo, questo “vedere Dio in tutte le cose” non è la visione del cielo; tuttavia riconoscere questa sua presenza nella vita di ogni giorno è un’esperienza profonda che riempie il cuore di gioia. È come incontrare – e molto più – la persona che si ama. È sempre una gioia vederla, incontrarla!

Durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro papa Francesco a chiare lettere disse: «Dio è reale se si manifesta nell’oggi»; «Dio sta da tutte le parti». E il Papa spiega: «C’è la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi. […] Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. […] E richiede pazienza, attesa […]». «Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo, quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avvertita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni»[1]. 

Ma per vedere Dio nella nostra quotidianità, per riconoscerlo e gioire dell’incontro con Lui è necessaria la purificazione del cuore. Perché? Perché vediamo le cose e gli altri colorate con le passioni del nostro cuore.

 

Per un’educazione al vedere

Le relazioni — con se stessi, con gli altri e con Dio — si dete­riorano a cominciare dalla vista. Tolstoj nota che Anna Karenina si accorge di non amare più il marito dalla maniera in cui lo guarda, concentrandosi su difetti mai notati prima: «“Dio mio! Perché gli sono venute quelle orecchie?”, pensò, guardando la sua lingua fred­da, e specialmente le cartilagini delle orecchie, che ora l'avevano colpita e che sostenevano le falde del cappello rotondo»[2].

Per san Tommaso, l'azione più grave contro la verità non è tan­to la menzogna, ma avere verso l'altro uno sguardo spietato, sen­za misericordia. Esso riflette in realtà il proprio sguardo interiore, amareggiato, incapace di gustare il bene.  Il primo passo per vedere bene consiste anzitutto nel rendere esplicita la maniera con cui si guarda il mondo, gli altri, e se stessi. Si pensi all'acquolina in bocca con cui il goloso vede il cibo, il lussurioso una donna o l'ava­ro il denaro, modalità che mostrano un atteggiamento cosificante o predatorio nei confronti dell'altro e delle cose. Se il mondo ci appare grigio, è perché porta il nostro colore. Il primato della misericordia richiede anzitutto il riconoscimento della difficoltà, presente in tutti, a vedere bene, cioè a vedere il bene. Come recita uno splendido racconto ebraico: «Un giorno un rabbino chiese ai suoi studenti: “Come fate a dire che la notte è giunta alla fine e che sta tornando il giorno?”. Uno studente suggerì: “Quando si può vedere chiaramente che un animale in lontananza è un leone e non un leopardo”. “No”, ribatté il rabbino. Un altro disse: “Quando si può dire che un albero produce fichi e non pesche”. “No”, replicò il rabbino. “È quando si può guardare il volto di un'altra persona e vedere che quella donna o quell'uomo sono tua sorella o tuo fratello. Perché, fino a quando non riuscirai a farlo, non importa quale momento della giornata sia, è ancora notte”»[3].

Se la qualità del nostro sguardo incide sul rapporto con il creato (cose, avvenimenti, persone), tanto più vale per Dio. Bisogna avere il giusto sguardo, gli occhi puri, per riconoscerlo nei segni della sua presenza, lì nella bellezza della creazione, ma anche – in prospettiva antropologica - dove c’è umiltà, amore, speranza, gioia… in noi (nella nostra interiorità) e negli altri.

• Il primo passo per vedere Dio è dunque prendere coscienza di ciò che c’è nel nostro cuore. C’è il grano e la zizzania insieme (cfr. Mt 13,24-30). Non possiamo estirpare la zizzania – quel male che c’è nel nostro cuore («Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie» - Mt 15,19) con le nostre forze, ma possiamo vigilare su essa. La lotta spirituale di chi non cede alle “tentazioni” che ci vengono dal nostro cuore impuro è indispensabile. Perché quanto più cediamo ad esse, tanto più occupano la nostra fantasia e la nostra mente – lasciandoci poi trasportare nelle azioni da esse –. E vediamo la realtà con queste lenti, con questa distorsione. In realtà rischiamo di diventare ciechi. Quanto più invece lottiamo contro queste passioni, tanto più le vinciamo con la grazia di Dio, tanto più vediamo correttamente. È questo l’aspetto ascetico del cammino spirituale.

La possibilità di guardare in ma­niera differente può giungere anche dalle persone e dalle situazioni più inaspettate. È l'insegnamento che ricaviamo da questa simpatica storiella: «Un monastero era in via d'estinzione: non c'erano vocazioni. Il morale era a terra e il futuro era tetro. Fra quanti andavano a visitare quel luogo, nessuno mostrava l'intenzione di fermarsi. Disperato, l'abate andò a trovare un suo amico saggio, un rabbino, per chiedergli consiglio. Il rabbino espresse il suo dispiacere e ammise che anche nelle scuole rabbiniche c'era penuria di studenti. Prima che l'abate se ne andasse, però, il rabbino gli confidò a bassissima voce: “Uno di voi è il messia”. L'abate tornò al monastero e condivise questa affermazione sconcertante con i suoi monaci, che non riuscivano a coglierne il significato. Nessuno di loro sembrava un candidato ve­rosimile. Il vecchio Beniamino era una persona piacevole, ma terri­bilmente pigro, quindi non poteva essere lui. Antonio era un uomo buono, ma gli piaceva troppo bere, e questo lo escludeva. Edoardo era estremamente ligio a tutte le regole, ma assai malinconico, dunque non era possibile che fosse lui il messia. Però da quel giorno comin­ciarono a guardarsi in modo nuovo: cominciarono a vedere segni di santità e di benevolenza che prima sfuggivano. Lentamente il mona­stero divenne un luogo più dolce e più felice. Le persone che anda­vano a visitarlo si fermavano di più e la comunità tornò a crescere. Il vecchio abate tornò allora dal rabbino e gli disse: “Grazie per avermi detto: ‘Uno di voi è il messia’. Non abbiamo ancora scoperto chi è, ma ora stiamo prosperando”. E il rabbino rise: “Veramente, io avevo detto: 'Nessuno di voi è il messia!'”»[4].

• Un passo successivo è chiedere la grazia di avere un cuore purificato, così da poter avere sempre una buona vista spirituale. Come per il cieco di Mc 8,23-26, si richiede una sorta di miracolo. Questa purificazione del nostro cuore normalmente, come per il cieco, avviene per gradi. Tanti santi hanno conosciuto questa grazia. Si pensi ad esempio alle notti dei sensi e dello spirito in San Giovanni della Croce e in Santa Teresa d’Avila.

«Quando mai ti abbiamo visto?» (Mt 25,37.44): è la domanda stupita dei presenti — dei salvati come dei dannati — nell'ap­prendere che il Signore era sempre stato vicino a loro senza aver­lo tuttavia minimamente notato. Eppure egli c’era! E si rende presente anche nella nostra vita, nelle persone, negli eventi. Egli stesso desidera che lo riconosciamo. «Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apria­mo, lentamente ci rende capaci di vedere»[5]. È lo sguardo di chi è diventato capace di notare ciò che è invisi­bile agli occhi, riconoscendo nella persona più sommessa e ordina­ria la presenza, silenziosa e discreta, di Colui che viene. Che ha promesso: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19).

 

Non solo vedere Dio, ma anche udirlo, gustarlo, odorarlo, toccarlo

Esiste una dottrina cattolica sui sensi spirituali, quelli dell’anima dove abita lo Spirito, per la quale sant’Ignazio di Loyola è fra i grandi maestri. Chi legge, infatti, gli Esercizi s’imbatte subito in quest’affermazione: “Non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente” (2, 4). Questa teologia ha un illustre esponente in J.-J. Surin. Essa, però, è molto antica. Già Origene illustrava le potenzialità spirituali dei sensi scrivendo che la vista può fissare le realtà superiori; l’udito percepisce suoni che non si trovano realmente nell’aria; il gusto ci fa assaporare il pane vivo disceso dal cielo e l’odorato avvertire i profumi che sono, secondo san Paolo, il buon odore di Cristo; c’è infine il tatto, grazie al quale Giovanni afferma di aver toccato con le mani il Verbo della vita[6]. Nell’area culturale latina sant’Agostino dirà: “Nessuna meraviglia che alla scienza ineffabile di Dio che tutto conosce, vengano applicati i nomi di tutti questi sensi corporali, secondo le diverse espressioni del linguaggio umano; lo stesso nostro spirito, cioè l’uomo interiore, – al quale, senza che l’uniformità del suo conoscere venga compromessa, giungono i diversi messaggi attraverso i cinque sensi del corpo, – quando intende, sceglie e ama la verità immutabile, vede quella luce a proposito della quale l’evangelista dice: Era la luce vera; e ascolta la Parola di cui l’evangelista dice: In principio era il Verbo (Gv 1, 9 1); e aspira il profumo di cui vien detto: Correremo dietro l’odore dei tuoi profumi (Ct 1, 3); e gusta la fonte di cui si dice: Presso di te è la fonte della vita (Sal 35, 10); e gode al tatto di cui vien detto: Per me il mio bene è lo starmene vicino a Dio (Sal 72, 28). E così non si tratta di un senso o di un altro, ma è una medesima intelligenza che prende nome dai vari sensi”[7].

Facciamo alcuni esempi di questa percezione citando alcuni interventi di papa Francesco.

Vista. Nel linguaggio di Francesco molto ricorrente è la parola “sguardo” e questo ha, fra l’altro, un’eco molto personale. Si rilegga, ad esempio, l’omelia in Santa Marta del 21 settembre 2013 (festa liturgica di san Matteo, che per il Papa ha una risonanza speciale perché rimanda alla scelta di vita) in cui parla dello sguardo di Gesù, che cambia la vita, porta a crescere e dà dignità.

«Uno sguardo che ti porta a crescere, ad andare avanti; che ti incoraggia, perché ti fa sentire che lui ti vuole bene». Proprio com’è accaduto per l’esattore delle tasse divenuto suo discepolo.

«Come era questo sguardo di Gesù»? Basti pensare a «come guardava i malati e li guariva» o a «come guardava la folla che lo commuoveva, perché la sentiva come pecore senza pastore».

E soprattutto occorre riflettere non solo su «come guardava Gesù», ma anche su «come si sentivano guardati» i destinatari di quegli sguardi. Perché — ha spiegato papa Francesco — «Gesù guardava ognuno» e «ognuno si sentiva guardato da lui», come se egli chiamasse ciascuno con il proprio nome.

Per questo lo sguardo di Cristo «cambia la vita». A tutti e in ogni situazione. Anche, ha aggiunto Papa Francesco, nei momenti di difficoltà e di sfiducia. Come quando chiede ai suoi discepoli: anche voi volete andarvene? Lo fa guardandoli «negli occhi e loro sono stati incoraggiati a dire: no, veniamo con te»; o come quando Pietro dopo averlo rinnegato, incontrò di nuovo lo sguardo di Gesù, «che gli cambiò il cuore e lo portò a piangere con tanta amarezza: uno sguardo che cambiava tutto».

Tornando alla scena evangelica, nella quale Gesù è a tavola con i pubblicani e i peccatori, egli “li li aveva guardati e quello sguardo su di loro è stato come un soffio sulla brace; hanno sentito che c’era fuoco dentro»; e hanno anche sperimentato «che Gesù li faceva salire», li innalzava, «li riportava alla dignità».

Infine il Papa ha individuato un’ultima caratteristica nello sguardo di Gesù: la generosità. È un maestro che pranza con la sporcizia della città, ma che sa anche come «sotto quella sporcizia ci fossero le braci del desiderio di Dio» desiderose che qualcuno le «aiutasse a farsi fuoco». E questo è ciò che fa proprio «lo sguardo di Gesù»: allora come oggi. «Credo che tutti noi nella vita — ha detto Papa Francesco — abbiamo sentito questo sguardo e non una, ma tante volte. Forse nella persona di un sacerdote che ci insegnava la dottrina o ci perdonava i peccati, forse nell’aiuto di persone amiche». E soprattutto «tutti noi ci troveremo davanti a quello sguardo, quello sguardo meraviglioso». Per questo andiamo «avanti nella vita, nella certezza che lui ci guarda e che ci attende per guardarci definitivamente. E quell’ultimo sguardo di Gesù sulla nostra vita sarà per sempre, sarà eterno».

Quanto all’udito è davvero il caso di estrarre un passo da ciò che disse ai Vescovi [ma serve anche a noi!] il 7 ottobre 2015 riguardo all’ascolto: “Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2, 7)”. Una volta il Papa ha detto: “Quando uno ha paura di ascoltare, non ha lo Spirito nel suo cuore”[8]. E soprattutto è importante “ascoltare con umiltà”. L’ascolto reciproco di cui parla Francesco ha senza dubbio il suo riferimento primario a quanto lo Spirito dice alle Chiese; ma è pure un richiamo a quel discernimento che tanto gli sta a cuore sì da fargli dire che oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nella capacità di discernimento spirituale[9].• Gusto. “Gustate e vedete com’è buono il Signore”, canta un salmo (34, 9) e sant’Agostino così commenta: “Si rallegrino tutti coloro che assaporano la sua dolcezza”[10]. Nell’omelia del 27 febbraio 2018 papa Francesco ha così commentato la pagina del Vangelo dove Gesù fa appello alla nostra conversione: “Il Signore in questo brano ci chiama così: ‘Su, venite. Prendiamo un caffè insieme. Parliamo, discutiamo. Non avere paura, non voglio bastonarti’ … Ehi tu, Zaccheo, scendi! Scendi, vieni con me, andiamo a pranzo insieme!”. Il gusto del Signore è il dono della gioia che si deposita nel nostro cuore quando accogliamo il suo Evangelo. Conosciamo le parole che intonano l’esortazione Evangelii gaudium: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”. La gioia di cui qui si parla è un sentimento e questo non è poco davvero; è, tuttavia, anche di più perché è dono dello Spirito; è segno dell’accoglienza di Gesù e del suo Evangelo: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Una volta il Papa ha aggiunto che “la gioia è il segno del cristiano: un cristiano senza gioia o non è cristiano o è ammalato … un cristiano senza gioia non è cristiano”[11].

In Amoris laetitia il richiamo al senso del gusto è davvero positivo: “Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo. Va ricordata la felice scena del film Il pranzo di Babette, dove la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: ‘Come delizierai gli angeli!’. È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere. Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda sé stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui” (n. 129).

Perché non aggiungere a questo punto un richiamo a quella sulla Sacra Liturgia? È questa, difatti, il luogo privilegiato dove il cristiano apprende e vive il gusto di Dio e della fraternità: “Com’è dolce che i fratelli vivano insieme”, canta il Salmo (133, 1).

Odorato. È il quarto dei cinque sensi. È anch’esso importante, perché in grado di comunicarci ciò che altri sensi non riescono: non tocca e non vede, non ascolta né gusta, ma avverte, riconosce e riesce a distinguere ciò ch’è impersonale, da quanto invece è personalissimo e unico. L’odorato è in grado d’introdurre nel profondo della relazione, nell’intimità. Il Papa richiamò questo senso nell’omelia della prima Messa crismale presieduta in San Pietro, il 28 marzo 2013. Parlava ai sacerdoti e chiese loro di essere “pastori con “l’odore delle pecore”. L’interpretazione l’ha data lo stesso Francesco poche settimane dopo, parlando così ad alcuni vescovi: “Nell’omelia della Messa Crismale omelia di quest’anno dicevo che i Pastori devono avere ‘l’odore delle pecore’. Siate Pastori con l’odore delle pecore, presenti in mezzo al vostro popolo come Gesù Buon Pastore. La vostra presenza non è secondaria, è indispensabile. La presenza! La chiede il popolo stesso, che vuole vedere il proprio Vescovo camminare con lui, essere vicino a lui. Ne ha bisogno per vivere e per respirare! […] Presenza pastorale significa camminare con il Popolo di Dio: camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzarlo nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade”.

L’olfatto, il fiuto di cui parlava il Papa, dunque, è duplice. Le pecore, cioè i fedeli, devono sentire nel pastore un odore di santità. E, insieme, il pastore usa il suo “fiuto” per riconoscere nel sensus fidei dei fedeli le indicazioni dello Spirito “per trovare nuove strade”, per scegliere nuovi percorsi pastorali[12].

Tatto. Per san Bonaventura, poi, il tatto è fra tutti i sensi quello che più tiene insieme: realizza al massimo, infatti, il contatto fra due persone e così esprime la carità, che fra tutte le virtù teologali è la più unitiva. Quando si ama non ci s’accontenta di vedere e di guardare, ma si tende a toccare. A chi ama non basta udire, perché ogni voce è un appello a infrangere il muro della distanza, un’invocazione ad abbracciarsi. L’amore vuole sempre toccare. Ogni volto amato richiama una mano e ogni mano si tende verso il volto amato.

L’uso di Francesco del verbo toccare dev’essere letto anche in questo sfondo antropologico e di teologia spirituale. Egli comincia a parlarne in senso cristologico (“toccare la carne di Cristo”), ma giunge poi alla carità verso il prossimo. Durante la Veglia di Pentecoste del 18 maggio 2013 disse: “Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo”. E citando chi gli aveva chiesto: “Mi dica, quando lei dà l’elemosina tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?”, commenta: “Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua Incarnazione. Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo”.

 

Giovani senza Dio in Italia

Un’indagine del 2016[13] mostra che sono aumentati i giovani che non credono in Dio (il 5% in più degli ultimi 8 anni). Circa il 28% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ha dichiarato di non credere in Dio, nel senso attribuito comunemente a questa espressione. I «piccoli atei», richiamati dal titolo del libro, sono presenti, nelle regioni più dinamiche, tra quanti hanno un’istruzione elevata e nelle famiglie di buona condizione socioculturale. Se questa tendenza fosse confermata, essi rischierebbero di prefigurare l’avanguardia moderna dell’Italia giovane, annunciando il futuro di un’Italia non credente proprio nei settori più significativi.

Quali sono le ragioni del loro ateismo? Sono diverse. Ciò che accomuna nel profondo l’insieme di questi giovani sembra essere una doppia convinzione: l’impossibilità di conoscere ciò che supera l’esperienza umana; e la consapevolezza di non aver bisogno di Dio per condurre una vita sensata, ricercando o ritrovando dunque altrove il senso di un’esistenza degna e compiuta (pp. 8s).

E’ interessante ciò che i giovani credenti affermano dei loro coetanei, cioè che, secondo loro, solo il 23% dei giovani crede in Dio, mentre il 70% non è coinvolto in un percorso di ricerca di tipo religioso.

Non sono queste delle motivazioni che ci provocano? Che ci interrogano se noi sappiamo riconoscere Dio, se conosciamo il suo amore, se ci rendiamo conto come opera in noi, negli altri, nella storia? Forse a questi giovani manca la nostra testimonianza…

 

Un cammino ascetico per risvegliare i nostri sensi spirituali

Vi do qui tre indicazioni di ciò che ci aiuta a risvegliare i nostri sensi spirituali. Non mi soffermo ad approfondirle. Ciascuno potrà trovare delle occasioni per conoscerle e viverle.

La vigilanza dei pensieri e dei sentimenti. Non possiamo lasciarci trasportare dai pensieri e dai sentimenti. Sant’Ignazio ci invita al discernimento: capire da dove essi provengono. Entrambi. Per assecondare quelli che vengono dallo Spirito e quelli che vengono dal Nemico (il nostro cuore malato, le tentazioni dal mondo in cui viviamo, il Tentatore).• La partecipazione alla liturgia. Lì si rivela la presenza di Cristo che parla nella Parola annunciata; quando facciamo la comunione possiamo assaporare l’amore di Cristo che ha spezzato per noi la sua vita e versato nel suo sangue per la salvezza, per la mia salvezza. Il pane è mangiato e assaporato con il gusto, e il gusto interiore lo consuma come l'amore della comunione. Assaporiamo la presenza di Cristo nella comunione con gli altri fratelli presenti nell’assemblea, nella comunione di fede e speranza suscitata dallo Spirito, ma anche la fraternità con cui ci riconosciamo fratelli /sorelle.• La preghiera. Lì, come ci insegna sant’Ignazio, possiamo «sentire e gustare le cose internamente». Nella preghiera non si tratta di nutrire pensieri elevati o riflessioni sublimi, né si tratta di fare grandi ragionamenti o lunghi discorsi. Per pregare basta fermarsi con semplicità su quella parola di Dio, su quell’ispirazione, su quell’esperienza che mi riempie il cuore e gustarla fino in fondo: attraverso di essa il Signore mi fa sentire il suo amore, mi parla… e, se io voglio, guida la mia vita.

 

Le conseguenze di una ricerca smodata del piacere

«Il piacere è un sentimento o un’esperienza, più o meno durevole, che corrisponde alla percezione di una condizione positiva, fisica o psicologica, proveniente dall'organismo. È considerato uno stato di contenuto opposto al dolore che può essere di breve durata o cronico»[14]. Il piacere non va disprezzato. Va accolto con libertà di cuore, come una dimensione del nostro esistere, quella della corporeità e della psiche.

Il rischio è quello di focalizzarsi nella ricerca del piacere come obiettivo principale della vita. In tal caso si ha una ricerca malata, inconsapevole, dell’assoluto. Tale ricerca non genera la gioia, proprio perché la gioia, come abbiamo visto, si pone su un altro piano; invece all’interno della gioia – ad esempio all’interno della relazione amorevole tra marito e moglie (agape) - ci può essere lo spazio del piacere (eros).

Quali sono i rischi di una vita focalizzata sulla ricerca del piacere? Anzitutto di paralizzare i sensi spirituali, in modo da non godere più dei beni dello spirito. Infatti i piaceri forti dei sensi del corpo – come insegna San Tommaso d’Aquino – «assorbono l’anima più di ogni altra cosa»[15]. La conseguenza è ovvia: non trovare mai la gioia agognata; di cadere, inoltre, nella spirale mortifera del vizio. Sappiamo che la prima conseguenza del vizio è la perdita della libertà; il soggetto fa sempre più fatica a staccarsi dal vizio, pur non trovandovi più il piacere e il fascino di un tempo, anzi avvertendo un sempre e maggiore disgusto e insofferenza[16]. Ci sono poi altre conseguenze gravi, disumanizzanti. Si pensi ad esempio a quelle della lussuria e della gola.

• La lussuria è di sua natura distruttiva, anzitutto perché nega la realtà, poiché il suo mondo è l’immaginazione, un mondo falso e superficiale, che spinge a fuggire l’intimità, la manifestazione dei sentimenti e della tenerezza. Ciò che viene distrutto, in particolare, è la fiducia nell’altro, la verità di un rapporto. Il lussurioso, in realtà, è una persona sola, senza amicizie, senza veri legami affettivi. Per di più oltre ad utilizzare l’altro come un oggetto per il proprio piacere, il vizio conduce il lussurioso a rivolgere all’altro richieste sempre maggiori, eccessive – si sa, infatti, che nel vizio si verifica un’assuefazione del godimento, per cui per poter provare lo stesso piacere bisogna aumentare le “dosi” – fino ad arrivare anche all’uso della violenza. • La gola. Un elemento in comune tra i vizi, ma che nella gola si trova esasperato, è l’aspetto della bruttezza (obesità) cui conduce. È facile poi intuire tutte le conseguenze sulla salute della persona obesa (in particolare le malattie cardiovascolari).

L’eccesso di cibo incide anche negativamente sulla ragione, non permettendo un uso corretto ed equilibrato di essa, danneggiando così il pensiero, la parola, la vita comune: «Quando le potenze corporali inferiori sono turbate per una sregolata ingestione di cibo, la stessa ragione, per conseguenza, è intralciata; e così è considerata figlia della gola l’ottusità della mente nell’intendere»[17].

I padri notano che con la gola si sviluppa non di rado anche la maldicenza, la curiosità, il pettegolezzo, una modalità di comunicazione che sembra prosperare nei salotti, nelle grandi tavolate, nell’ozio stancante e annoiato che si crea nel tempo di attesa tra una portata e l’altra, come se lo spirito, all’appesantirsi del corpo, diventasse anch’esso più grossolano e terreno nella sua maniera di esprimersi.

Il goloso rischia di diventare con facilità egoista ed avido dimenticando le persone che si trovano accanto a lui nonché il significato relazionale insito del pasto. Se, inoltre, il cibo è essenzialmente legato al senso della festa, della gioia, dell’allegria, il goloso purtroppo, con il suo comportamento compulsivo, si è precluso tutto ciò, diventando strutturalmente incapace di fare festa.

Sono solo due esempi per dire che il piacere deve stare nel suo giusto ordine ed equilibrio.

 _____

[1] A. Spadaro, «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, 3918 (2013) 467-468.

[2] Tolstoj, Anna Karenina, Milano, Garzanti, 2008, 163.

[3] S. D. Sammon, Religious Life in America: A New Day Dawning, New York, Alba House, 2002, 95.

[4] T. Radcliffe, Prendi il largo!„., cit., 301 s.

[5] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte. Dall'ingresso in Gerusa­lemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano - Milano, Libr. Ed. Vaticana - Gar­zanti, 2012, 306.

[6] Cfr. Origene, Contro Celso 1, 48.

[7] S. Agostino, Comm. al vangelo di Giovanni 99, 4.

[8] Francesco, Omelia in Santa Marta del 28 aprile 2016.

[9] Francesco, 30 luglio 2016, ad alcuni gesuiti polacchi.

[10] S. Agostino, Comm Enarr. in Ps 5, 15-16.

[11] Francesco, Omelia in Santa Marta del 22 maggio 2014.

[12] Cfr. Concilio Vaticano II, Lumen Gentium 12.

[13] F. Garelli, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Bologna, il Mulino 2016.

[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Piacere

[15] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 4t, a. 3.

[16] L’attuale ricerca psicologica parla di «assuefazione del piacere» e di «caduta del desiderio»: chi cerca il piacere come fine in sé stesso non lo trova mai (cfr. V. Frankl, Psychotherapy and Existentialism, Charion Books, New York 1967, 5).

[17] S. Tommaso d’Aquino, De malo, q. 14, a. 4.

La gioia che Dio vuole per ciascuno di noi

La gioia, sembrano volerci dire le Scritture nel loro insieme, è qualità divina e caratteristica precipua del Dio dei cristiani; non è qualcosa di esterno a Dio, ma è parte di lui o, come disse una giovane santa carmelitana, la cilena Teresa de los Andes, «Dio è gioia infinita». Non solo Dio è bellezza, come ripete sempre più frequentemente la teologia moderna, ma è gioia.

E non solamente è gioia, ma è proprio di Dio dare gioia. L’Alleanza è manifestazione esplicita di tale volontà divina di condivisione della gioia; essa avviene in vista di essa. Perché Dio non può godere da solo né sopporta la visione della sua creatura triste. Dunque la gioia è anche modo di essere, realtà interiore e manifestazione esteriore di colui che crede in questo Dio. Con mille ragioni per essere felice. E mille inviti a vivere così, e a manifestare questo modo di essere e di relazionarsi dei credenti, come appare nel Primo e nel Secondo Testamento.

Se diamo uno sguardo alla società in cui viviamo ci accorgiamo che c’è ben poca gioia.  I giovani sono i primi a sentirne la mancanza, ad avvertire il vuoto, l’insoddisfazione. Sono in aumento i suicidi. Eppure nella nostra cultura ci sono tante promesse di gioia, legate soprattutto al possesso dei beni. Ma sono promesse false. Per di più spesso non si si sente più nemmeno l’esigenza di accostarsi a Dio, di cercarlo. Certe pratiche religiose sono fatte più per abitudine che per convinzione.

Da un lato, come può parlare di felicità la Chiesa, coi suoi divieti, le sue penitenze e la croce come suo simbolo, a una società del benessere, dello sballo e delle emozioni estreme? Dall’altro, è esattamente l’attenzione a questo mondo odierno che ci fa scoprire come la felicità oggi sia diventata uno stress, un obbligo continuamente ribadito da mass media e pubblicità in un mondo ove l’ottimismo serve a indurre al consumo, e quanta tristezza profonda vi sia dietro una gioia superficiale e falsa, artificiale e passeggera, ove non si sorride quasi più, e il ridere – tutt’al più – è diventato rito televisivo collettivo e ripetitivo, di fronte alla solita, noiosa e imbecille battuta sul sesso. Inoltre, sempre nella cultura odierna, una volta la felicità era forse troppo lontana, magari rimandata al paradiso ove la cultura risentiva di una qualche radice cristiana; oggi si tenta invece di far credere che si possa raggiungere, a basso prezzo e in tempi brevi, nei nostri giorni sempre più frenetici. Salvo poi vedersela sfuggire di mano per un nonnulla, e doverla riconquistare sempre daccapo.

E allora, se questa è la situazione, i cristiani, uomini della gioia, del sorriso e del buon umore, devono diventare apostoli di essa. E la Chiesa, proprio perché «casa della Parola», deve diventare insieme casa e scuola di comunione nella gioia vera, tanto più umana quanto divina.

Insomma, la gioia è una cosa… seria, molto più di quanto pensiamo.

La vera fonte della gioia è radicata più profondamente, cioè nel cuore stesso, nella sua più remota intimità. Ivi abita Dio e Dio stesso è la fonte della vera gioia»6.

La gioia che ci dà Gesù non è quindi pura sensazione euforica, che passa. E’ una la gioia di cui parliamo, gioia cristiana non è legata alla soddisfazione dei sensi, è ben più profonda e sempre anche inedita.  Vediamo perché.

Tentiamo allora di vedere come radicare e recuperare questa gioia quale parte essenziale dell’identità del credente.

 

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33)

Gesù è venuto ad annunciare il Regno. «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo!» (Mc 1,15). Si tratta di accoglierlo. Il Regno è Gesù. E Gesù – illuminandoci con la via del Vangelo e sostenendo il nostro cammino con la sua grazia – vuole che in noi regni la gioia. Egli stesso ha detto: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Per chi cerca il regno di Dio, cioè Gesù, e vive il suo vangelo, cioè compie la volontà di Dio («la sua giustizia), oltre alla gioia Egli ci dà anche «tutte quelle cose… in aggiunta» (Mt 6,33). In altre parole a chi dedica le migliori energie alla ricerca del Regno e della sua giustizia, Dio ci dà le cose di cui, è un’aggiunta che viene data a chi vive da figlio e fratello.

Ma torniamo alla gioia. Le società occidentali hanno registrato miglioramenti notevoli su alcuni aspetti della vita rispetto a soli 50 anni fa: longevità, possibilità alimentari, cure mediche, accesso all’istruzione, libertà di spostamenti, libertà di scelta, diffusione capillare dei diritti. Nonostante ciò la percentuale di infelicità percepita è – secondo le ricerche statistiche - notevolmente aumentata. Negli ultimi anni la depressione è cresciuta di 10 volte; se un tempo il suo primo episodio si verificava attorno ai 30 anni, ora fa la sua comparsa a 13 anni. L’aumento di ricchezza non ha reso le persone più contente di prima, eppure la corsa al benessere economico rimane un mantra indiscusso, sordo a qualunque smentita[1].

C’è poi chi continua a cercare la felicità nell’autorealizzazione di sé, come carriera al lavoro, affermazione nell’ambito della politica e del sociale, nel narcisismo di chi ricerca il successo, ecc. Sono tentazioni che Gesù ha vinto nel deserto prima di iniziare la sua missione pubblica. Sono illusioni.

C’è anche chi ha cercato di  eliminare lo stato d’animo speculare alla felicità: la tristezza. Così, ad esempio, modo R. Nozick, un filosofo della politica, ha ipo­tizzato la creazione di una macchina capace di dare sensazioni gra­devoli su richiesta; eppure, invece di provare gioia, «collegarsi alla macchina è una specie di suicidio. […] Non c'è alcun contatto vero con una qualsiasi realtà più profonda, per quando se ne possa simu­lare l'esperienza. La macchina non soddisfa il nostro desiderio di essere in un certo modo»[2]. Una situazione piacevole ma artefatta finisce per spegnere il gusto di vivere.

La gioia, allora, va cercata nella giusta direzione. Gesù ce l’ha chiaramente indicata: cercare il Regno, cercare Dio e la sua volontà, vivere da figli. E se non abbiamo tale gioia Gesù ci dice: «convertitevi e credete al vangelo!». Ce lo dice anche indicandoci la condizione essenziale: «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna». Cioè, paradossalmente, l’uomo si realizza ed è felice non nell’autorealizzazione, ma nella trascendenza di sé.

La gioia è possibile solo come conseguenza di una tensione di vita che conduce l’individuo fuori del proprio io, verso l’altro, verso ciò che è vero-bello-buono, verso il Regno, nei termini di Gesù. Allora la gioia gli sarà data – non è solo un effetto psicologico, è un dono dall’alto[3] – come un bene non cercato per sé. È in fondo, di là dell’apparenza, la logica del chicco di grano che cade a terra e muore, e alla fine produce molto frutto (Gv 12,24)… Ed è felice, ci è lecito pensare!

Capiamo allora i motivi per cui la gioia non la si trova: perché la si cerca male, nel modo sbagliato, facendone lo scopo immediato del nostro agire, o perché la si cerca per se stessi (ignorando l’altro o non cercando abbastanza e prima di tutto la sua gioia, e dunque dimenticando che la gioia è relazionale), o perché la si cerca per se stessa, come sensazione positiva, di relax e benessere psicofisico.

Al contrario la gioia, specie quand’è duratura e profonda, svela che il cammino di ricerca di senso (o del tesoro della vita) sta andando nella giusta direzione. Quando la gioia è stabile e intensa, anche se pacata e discreta, o quando resiste alle difficoltà della vita e dà la forza di affrontarne le intemperie, sta a dire che quel cammino è andato nel verso giusto. La gioia è anche segnale autenticante, insomma, del proprio itinerario di crescita, non è solo sensazione passeggera o stato d’animo, magari legato al carattere, più o meno innato o predisposto in tal senso.

 

«Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17)

Ed ecco un motivo profondo per gioire anche quando le cose non vanno come noi vogliamo, come ci aspettiamo. Perché spesso siamo arrabbiati con la vita. «La vita non è stata buona con me, da essa ho ricevuto più dolori che gioie... Non sono stato abbastanza compreso dagli amici, o aiutato dalla comunità... Ho anche sbagliato e realizzato poco, ma neanche ho ricevuto quel granché nella mia esistenza...». Sono frasi di persone credenti o consacrate al Dio della vita, ma in rotta con la vita. Certamente non si può pretendere di consolare con le solite pillole pseudo-rassicuratorie (tipo «c’è chi sta peggio di te» o «bisogna accontentarsi, qualche guaio è successo a tutti»), e neppure con la pillola «escatologica» dell’al-di-là che non ha niente in comune con l’al-di-qua («coraggio, la gioia non è di questo mondo, godremo solo nell’altro, dove finalmente sarà fatta giustizia!»). No, una certa gioia di vivere fa già parte del Regno quaggiù. Ed è gioia vera, frutto d’una percezione realistica della vita, non legata solo a ciò che abbiamo raggiunto con le nostre forze (perché sarebbe ancora una volta un’autoaffermazione), né legata alla circostanze favorevoli o meno, ma al nostro essere figli Dio, amati, e al nostro rispondere all’amore di Dio con il nostro sì all’amore di ogni giorno.

Quella voce che risuona da fuori ci vuole coinvolgere nella gioia stessa di Dio, che -  come per Gesù al Battesimo nel Giordano (Mt 3,17) e nell’episodio della Trasfigurazione (Mt 17,5) - si compiace delle nostre scelte, della nostra scelta rinnovata di vivere da figli nell’amore, nel dono sincero di sé.

Gioia è relazione, è sentire queste parole, e sentirle ognuno come rivolte a sé. Sentire che il Padre si compiace dei miei sforzi, del mio impegno, della mia rettitudine di cuore, delle mie scelte. E ci indica come modello il Figlio: ecco perché alla Trasfigurazione aggiungerà: “Ascoltatelo”.

 

«C'è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35)

Il paradosso del dono esprime il paradosso della felicità, più volte riscontrato: essa può giungere soltanto in sovrappiù. Quando si dona a qualcuno, si sperimenta una soddisfazione che non può essere paragonata ad alcun guadagno materiale: la gioia del dare non conosce confronti.

Kierkegaard notava in proposito: «La porta della felicità si apre verso l'esterno; chi tenta di forzarla in senso contrario, finisce per chiuderla sempre di più»[4]. Quanto più si cerca di possedere la feli­cità tanto più essa diventa sfuggente e irraggiungibile. La si trova, invece – come già ditto sopra - nel dono di sé. Ed è sempre possible vivere il dono di sé, anche quando non si dona qualcosa. Per esempio dando il nostro tempo, l’attenzione, ascoltando con amore i problemi, le preoccupazioni, le sofferenze dei fratelli. Come pure valorizzando l'altro. «Si dice che Warden Duffy (un personaggio mitico del carcere di San Quentin) abbia affermato che il modo migliore di aiutare un uomo è permettergli di aiutarvi. La gente ha bisogno di sentirsi necessaria»[5]. Le difficoltà personali non vengono con questo dimenticate, spesso vengono relativizzate; inoltre il fatto di aver fatto del bene agli altri ci fa del bene, ci conferma nel nostro essere figli di Dio; e per di più si gioisce della gioia degli altri.

 

«Il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4)

Un vangelo molto illuminante che ribadisce quanto abbiamo sopra detto, è quello nel quale Gesù raccomanda al credente non tanto un certo tipo di comportamenti, tutti molto buoni in sé (elemosina, preghiera e digiuno), ma una motivazione coerente alla loro origine (cfr. Mt 6,1-6.16-18). È una chiarificazione importante, perché ci può aiutare a capire dove sia il nostro cuore o il tesoro per il quale godiamo.

Il Maestro qui parla a credenti, a persone che vivono e testimoniano la propria fede con atti corrispondenti: credenti praticanti, che soccorrono il povero, fanno digiuno e pregano il Padre che è nei cieli. Verrebbe da dire: meglio di così!? E invece non basta. Occorre fare tutto ciò con un atteggiamento preciso: senza «suonare la tromba» né «sfigurarsi la faccia», come dice con immagine molto colorita Gesù, né assumendo pose che attirino l’attenzione altrui (come «pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze»). Costoro si comportano così per farsi vedere e ammirare dagli uomini, e forse ci riescono, se gli va bene, ma in tal modo – dice sempre il Maestro – «hanno già ricevuto la loro ricompensa», dagli uomini ovviamente, consistente nell’apprezzamento immediato, di solito non definitivo, e che va di volta in volta riguadagnato, spesso anche faticosamente (con spreco inverecondo di energie). Ma è ricompensa o gioia da poco poiché dura un attimo ed è superficiale, è subito bruciata, perché non apre al mistero della dignità della persona, non ne raggiunge la dignità radicale né dà alcuna sensazione benefica definitiva (dal punto di vista della stima di sé), ma anzi normalmente aumenta ancor più il bisogno, come ben sappiamo, del consenso degli altri e dell’applauso, dell’audience e dell’indice di gradimento, fino a renderne dipendenti (come sempre più spesso succede pure a chi annuncia il vangelo in una società come quella di oggi, ove si è qualcuno solo se si è visibili e conosciuti da tutti).

Per questo il Signore suggerisce un atteggiamento esattamente contrario: fare elemosina, orazione e digiuno nel segreto, con questa motivazione: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Perché la gioia cristiana abita «nel segreto» dell’intimità con il Padre Dio, quello è il suo “luogo”. O rappresenta esattamente la ricompensa da parte di Dio per aver agito «nel segreto», cioè rettamente, cercando solo il suo volto. Il Padre che apprezza la trasparenza di chi fa il bene non per secondi fini, ma semplicemente perché attratto dal bene, anche quando nessuno l’applaude. Gesù ci rivela qui un Dio che si svela solo a chi cerca Lui solo e ha imparato a intercettare il suo sguardo, sguardo dolcissimo e penetrante, che dona alla creatura la certezza di una positività definitiva, le fa sentire un amore che l’avvolge tutta («lo ricompenserà»: azione che continua nel futuro e dà stabilità nella percezione positiva di sé).

Il cristiano è esattamente colui che ha imparato a godere di questo sguardo poiché si ritrova in quegli occhi, o è colui che trova la sua gioia nello stare – da solo – di fronte a Dio e nel lasciarsi da lui guardare, e cerca spesso tale sguardo come ciò che dà un senso alla vita e a tutto quel che fa, senza più bisogno di diventare importante o di cercare visibilità o di compiere cose grandi che facciano colpo e gli attirino consensi. Se Dio è colui che «è» nel segreto, anche il figlio suo ama stare e vivere nel segreto, non farsi notare né cercare le luci della ribalta, per dare invece importanza anche alle cose piccole, quasi avere il culto del piccolo e dei gesti semplici perché in essi è più facile cercare e trovare Dio solo… Non per falsa umiltà né facendosi violenza. Ma perché la sua gioia è nell’incrociare gli occhi di Dio!

La gioia dunque, ribadiamo anche ora, è relazionale, è essere guardati da un occhio amoroso, qualcosa che si riceve, dunque. Ma è anche qualcosa che raggiunge la persona alle fonti dell’io, e che la stessa avverte molto in profondità dentro di sé, nella sua intimità più intima e personale, ed è sensazione profonda e discreta, serena e sicura: relazionale al massimo grado e pure del tutto personale.

Colui, invece, che non ha sperimentato questa gioia o che non ha fatto crescere in sé tale tipo di sensibilità, è condannato a elemosinare come un accattone l’attenzione e il plauso altrui. A volte sembrando vanitoso ed esibizionista. Mentre, in realtà, è “solo” disperato.

 

«Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20): gioia vera e gioia falsa

Gesù si rivolge qui a una precisa categoria di persone, gli apostoli e annunciatori del vangelo, come singoli e come comunità, spesso tentati di cercare la gioia nel posto sbagliato, o in modo falso e illusorio.

Le tentazioni della falsa gioia. Potremmo dire che con queste parole Gesù, almeno implicitamente, invita a riflettere sulle tentazioni della falsa gioia, tentazioni che seducono il singolo credente, ma anche la vita consacrata e la Chiesa come organismo sociale sempre tentata di cercare una certa sua affermazione di fronte al mondo. E qui ne abbiamo un esempio.

I settantadue sono appena tornati da un’esperienza apostolica «pieni di gioia» (Lc 10,17) per i loro successi, perché sta andando tutto meravigliosamente bene; Gesù conferma l’evento, fors’anche compiaciuto, ma si premura, creando in loro un salutare dubbio, di ricordare a ognuno che fonte della vera gioia dell’apostolo non sono le imprese apostoliche, il consenso della folla o dei vari poteri, i numeri di quanti ti seguono o l’entusiasmo di chi ti applaude, né la spettacolarità degli interventi che attirano le folle e nemmeno una certa efficienza e riuscita con relativa “resa” dei nemici (Satana compreso…), ma tutt’altra cosa, da Gesù espressa con linguaggio figurato-metaforico: «Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli». Altrimenti è gioia falsa, effimera e inconsistente, anzi, diabolica.

Il «nome» nella Scrittura è l’identità profonda della persona, e i nomi di coloro che Gesù ha scelto sono «scritti» in cielo: ovvero l’identità della persona non poggia su qualcosa di vago e instabile, di esteriore e apparente, ma è affermata e scritta in modo definitivo nella sua positività, poiché è scritta «in cielo», e il cielo è il simbolo della perennità, in opposizione alla precarietà della terra. Dio, insomma, non solo parla e dice la propria gioia su di noi, non solo ci guarda nel segreto della sua compiacenza illimitata incrociando il nostro sguardo, ma anche «scrive» sul suo cuore il nostro nome, per custodirci nella sua gioia, o proteggerla lui stesso.

Ancora una volta la gioia, dunque, appare legata a una prospettiva di verità e bellezza, e alla corrispondente capacità di coglierla su di sé e dentro di sé, o – come abbiamo detto – alla sensibilità con cui uno ha imparato a godere della verità e del suo splendore. E la verità è che i nostri nomi sono scritti nei cieli, ovvero che la nostra identità è già positiva e al sicuro, poiché è «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3), è custodita con cura dal Padre, la dignità e positività del credente  è legata a lui, all’essere creatura sua, da lui scelti, pre-diletti, chiamati, benedetti…, ci ha «scritti» sul palmo delle sue mani, con l’inchiostro indelebile dell’amore per sempre. Più forte di ogni contrarietà o negatività, insuccesso o fallimento, prima che potessimo sognare di meritarcelo.

Non è soddisfazione solo umana; è altra la gioia che il Signore ci promette e ci dà. Se la nostra identità è «nascosta con Cristo in Dio», lo è anche la nostra gioia.

La gioia dell’ultimo posto. C’è una bella immagine di credente particolarmente eloquente, in tal senso: il beato Charles de Foucauld, piccolo fratello di Gesù. Egli cercò ostinatamente l’“ultimo posto” e, di fatto, ha vissuto una vita da perdente, sul piano dei risultati concreti. Durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa fu Nazareth il luogo che più lo impressionò: non si sentiva chiamato a seguire Gesù nella sua vita pubblica; è Nazareth che lo colpì nel più profondo del cuore. Voleva imitare Gesù silenzioso, povero e lavoratore. Voleva seguire alla lettera la parola di Gesù: «Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto» (Lc 14,10). E più ultimo posto di quel villaggio sperduto in pieno deserto certo non avrebbe potuto trovare. Lo si sarebbe detto un fallito, dal punto di vista del successo umano, se pensiamo che De Foucauld non riuscì a fondare in vita la congregazione che pur voleva fondare, quella dei “Piccoli fratelli del Sacro Cuore”, riuscì appena a far riconoscere l’associazione di fedeli, che contava un numero minimo di aderenti. Solo dopo la sua morte avverrà la fioritura. La diffusione dei suoi scritti e la fama circa la radicalità evangelica della sua vita hanno fatto sì che nascessero, nel corso degli anni, ben 19 differenti famiglie di laici, preti, religiosi e religiose che vivono il vangelo nel mondo seguendo le sue intuizioni. Eppure quel suo volto umilmente radioso riproduce lo splendore del Risorto, lo sguardo luminoso e penetrante, il timido sorriso delle labbra, il capo leggermente inclinato a sinistra quasi a ritirarsi…, sembra la traduzione in lineamenti umani di Gal 5,22: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace…».

Potremmo allora, a questo punto, tentare di definire così, in sintesi, la differenza tra gioia vera e gioia falsa: la prima è «ricevuta» da Dio, come una partecipazione alla sua gioia, la seconda è legata a situazioni fortunate per il soggetto; dunque la prima è profonda, la seconda superficiale; la gioia vera è legata all’identità radicale della persona, quella falsa e ingannevole all’apprezzamento eventuale delle sue prestazioni; la gioia sana e duratura è dono non intenzionalmente cercato, chi la vuole a tutti i costi rischia di cadere nello stress e tensione di felicità; gioia vera è certezza stabile, gioia falsa è sensazione passeggera e anche incerta; la prima è pacata e discreta («nascosta in Dio»), la seconda è chiassosa e nervosa.

«In sua voluntate è nostra pace». Infine, mi pare che questo avvertimento di Gesù ai settantadue, reduci dall’apostolato glorioso, sia un mettere in guardia da un’altra analoga tentazione, quella di cercare Dio, e la gioia, non solo nella gloria e nel successo, ma pure nello straordinario, per imparare invece a scoprirlo nel semplice, quotidiano e normale compimento della sua volontà. Il credente ha appreso a godere di fare e nel fare la volontà di Dio; per essere contento gli basta sapere che la sta compiendo, nel posto e nel ruolo che altri gli hanno affidato, con fratelli che lui non ha scelto e da cui non è stato scelto… Non sarebbe egualmente in pace e felice se tutto ciò fosse frutto delle sue proprie macchinazioni, raggiri, condizionamenti, sottili imposizioni della sua volontà, furbe manipolazioni… Che potranno anche dare al soggetto la sensazione soddisfatta di aver ottenuto ciò che voleva o l’illusione compiaciuta di essere “qualcuno” se può imporsi sugli altri, fino a goderne per un po’, ma non il gaudio intenso di quella pace che ti canta in cuore perché sai di aver fatto quel che Dio vuole, «ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2), fidandoti di lui sino al punto di fidarti pure delle sue (imperfette) mediazioni. Questo è gaudio pieno, che riempie la vita, anche se silenzioso e modesto, perché viene da Dio, il quale non vuole semplicemente dei figli obbedienti, ma dei figli felici, e tali ci rende la sua volontà e il compimento di essa.

Grande maturità psicologico-spirituale è dunque quella di chi può in tutta verità pregare così: «Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene… Nella tua volontà è la mia gioia» (Sal 118,14.16); o che sempre rivolto a Dio può asserire, come suggeriva un vecchio detto spirituale, di essere felice perché «Voglio quel che tu vuoi, voglio come tu lo vuoi, voglio perché tu lo vuoi, voglio finché tu lo vuoi».

 

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo…; un uomo lo trova…, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44)

In questo notissimo brano evangelico, come in quello successivo (della perla preziosa) la gioia è presentata come la reazione interiore alla scoperta del «tesoro», che è esattamente questa realtà centrale per la persona e per la sua identità. Ma in realtà la gioia è ciò che accompagna tutto il percorso del credente che cammina verso il Regno, in tutte le sue fasi, come ciò che lo rende percorso di libertà. Vediamo.

All’inizio la gioia (la gioia di chi cerca). Anzitutto le due parabole, con le quali Gesù ci racconta il Regno, parlano di un uomo in ricerca, implicitamente la prima parabola, esplicitamente la seconda. Ora se un uomo cerca vuol dire che spera di trovare, anzi, se spera vuol dire che “crede” e, se crede in Dio, la sua fede-speranza gli dà certezza di trovare: per questo si dà da fare a cercare, è libero di cercare. E dunque è una ricerca che implica la gioia, una gioia iniziale, quasi embrionale e non ancora manifesta, ma presente nel profondo del cuore, perché conseguente alla fiducia che il credente ripone in Dio, quel Dio che è mistero buono, non enigma impenetrabile, e si lascia cercare-trovare. È la gioia di cui parla il salmista: «Esultino e gioiscano quanti cercano il tuo volto, Signore» (Sal 39,17).

Per questo motivo cerchiamo Dio, e cercare Dio è già fonte di gioia grande. Cercarlo, ovvero pregare, vivere alla sua presenza, desiderarlo, abitare nella sua casa, ma anche solo bussare alla sua porta, chiedergli il pane di ogni giorno, nutrirsi della sua parola, rivolgergli la propria parola, non solo per lodarlo ma anche per dirgli la propria pena o il disappunto, persino la disperazione, stare con lui, anche quando sembra più «torrente infido» che amico dolcissimo, e lo stare assomiglia a una lotta…

È la gioia dell’orante, poiché la preghiera è la prima naturalissima espressione di chi cerca, e scopre che il suo cercare è già un trovare. Senza tale gioia si possono anche dire un sacco di orazioni ogni giorno senza pregare mai, o riducendole a “pratiche di pietà” imposte da qualcuno o da qualche regola, e da sbrigare in qualche modo, pura burocrazia del funzionario del divino, fino a stufarsene.

Alla fine la gioia (la gioia di chi trova). Colui che trova il tesoro nel campo è così «pieno di gioia» per la scoperta che non esita un attimo a liberarsi di tutti i suoi averi per acquistare il campo.

La cosa interessante è proprio l’intensità di questa reazione, che porta a fare scelte, e scelte totali e determinanti: addirittura l’uomo del vangelo «vende tutti i suoi averi» per quel tesoro, ma lo fa con leggerezza, non con sforzo o perché la persona è in qualche modo costretta, né con quella tensione legata alla rinuncia che spesso dà un senso di frustrazione alla vita del seguace di Gesù. No, qui c’è una persona libera, con una passione forte per un tesoro di fronte al quale nessuna cosa al mondo ha importanza e tutto impallidisce. E per questo ha il coraggio di fare decisioni, anche forti, ma con libertà interiore, per amore.

È un punto centrale nella nostra riflessione sul dinamismo della gioia cristiana: la gioia è ciò che ti consente di fare le cose con libertà, in forza di un’attrazione interna, ricca di energia, che dà la forza della rinuncia e ne rende leggero il peso («il mio giogo è dolce e il carico leggero», Mt 11,30).

In tal senso la gioia è condizione previa per fare delle scelte, è “ciò che viene prima”, ma anche quel che le accompagna e le segue è “ciò che viene dopo” come quel che le autentica perché garanzia di libertà. Nessuno, di conseguenza, può imporsi una rinuncia se non per qualcosa che sente più bello rispetto a ciò cui dice di no, né può imporla agli altri se al tempo stesso non lascia intravedere lo spazio di libertà che quella rinuncia rende accessibile a chi la sceglie.

Per questo «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7), perché solo tale modo di donarsi è sincero e appassionato, non costretto né comunque fatto a malincuore (e dunque insincero)…

Sono tantissimi gli esempi che potremmo citare, più o meno noti. Uno piuttosto recente è quello di suor Emmanuelle, la «Madre Teresa del Cairo», questa donna morta a quasi cento anni dopo una vita totalmente dedicata agli altri, giudicata per due anni consecutivi – lei, alta e asciutta, con quel sorriso che le illuminava il volto segnato da rughe sottili e il vestire dimesso – come la donna più interessante dai francesi, per l’azione umanitaria, l’altruismo, la compassione e la solidarietà manifestate nella sua lunga vita. La sua massima felicità, infatti, era stata l’inaugurazione di un liceo per ragazze povere nella bidonville del Cairo. Ma all’origine della sua dedizione, e della sua gioia, riconosceva la beatificante tensione della ricerca «in Dio di un amore duraturo e senza limiti…, che avrei portato a migliaia di bambini messi da parte dal mondo».

 

«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini» (Mt 5,13). Il rischio di perdere la gioia

C’è il forte rischio di perdere la gioia. A causa nostra; ad esempio perché perdiamo lo slancio di vivere nel bene, perché quando gli altri ci offendono ci chiudiamo in noi stessi, ecc. Ma ci sono anche motivi che ci vengono anche suggeriti da colui che è il Tentatore, ed è sempre pronto a rovinare l’opera del Signore in noi. Ne cito alcuni, per capire come certe volte ci lasciamo tentare, facendo nostre le sue “ragioni”. Il nemico, ad esempio:

ci presenta cose che ci turbano. Oscurità e turbamento, inquietudine e agitazione continuano, dunque, a essere le armi di satana. Ci fa dunque dubitare della bontà di Dio, fa di tutto per diminuire in noi la fede come abbandono in Lui e la speranza.

ci spinge ad inorgoglirci perché abbiamo ricevuto delle consolazioni e/o delle illuminazioni, al punto che ci sentiamo superiori agli altri. E magari li critichiamo.

● ci porta, poco a poco, ad adattarci alle “comodità”: perché, infatti, essere così rigoristi, così ascetici? Così si cade nella mediocrità e nell’ozio…

ci fa credere che è sufficiente attenerci all’osservanza esterna (per i religiosi quella stabilita dalle regole), accostandosi anche all’Eucaristia con leggerezza e superficialità, e quindi senza cura dell’interiorità. Così ci sembra di essere a posto… ma sempre più vuoti nel cuore.

● Un altro modo con il quale il Nemico – con i suoi inganni – ci trascina verso il male, è evidente in chi perde il tempo a disquisire su astratti principi di diritto, di giustizia e anche di carità, che a nulla o a poco servono per la soluzione di casi concreti, perdendo così di vista l’impegno per l’agire concreto;

● Non poche volte, facendo leva sulle sane esigenze della natura, il demonio propone di curare la salute, avere il necessario per vivere con digni­tà, decoro e anche gioia, conservare il buon nome, ecc., ma... in maniera da sfrenare tali sane tendenze, fino a fare cadere nella concupiscenza, per cui si diventa salutisti, gelosi, invidiosi, insofferenti, sospettosi.

● Quando una persona è generosa, impegnata, lo spinge a a scegliere il meglio in sé (ma cos’è in realtà?) separandolo dal resto. Gli esempi in questo campo sono infiniti: è in nome del meglio che nelle comunità e nelle famiglie ci si divide, si litiga e si uccide lo stare insieme. Già fin dall’inizio è questo che più ha nociuto alla Chiesa, producendo fazioni, eresie, divisioni, lotte.

 

«Beato chi ascolta la parola di Dio e la osserva» (Lc 11,28): l’amore gioioso e liberante della Parola

Per non perdere la gioia abbiamo una luce: quella della Parola come punto di riferimento del desiderio del credente (la Parola come contenuto), e pure del processo dinamico credente che conduce alla gioia (la Parola come metodo).

«La tua legge è la mia gioia…» (Sal 118,77). Legge qui va inteso come parola, parola-di-Dio. Il salmista ci regala in questo salmo espressioni straordinarie che dicono tutto il suo amore per questa parola, come punto di arrivo di un cammino credente. Una parola attesa e lungamente desiderata («precedo l’aurora e grido aiuto…, per meditare sulle tue promesse», Sal 147-148), perché parola di verità («la verità è principio della tua parola», Sal 160), parola amata («sopra ogni cosa», Sal 167) e assieme temuta (Sal 161), mai dimenticata perché parola di vita, che fa vivere («la tua parola mi fa vivere», Sal 50), è in essa che il credente spera («se la tua legge non fosse la mia gioia sarei perito nella mia miseria», 92), è essa che il credente chiede a Dio («fammi conoscere la via dei tuoi precetti», Sal 27).

Oggi, grazie a Dio, nella comunità dei credenti è cambiato il rapporto con la Parola, ma non ancora al punto di divenire un rapporto di amore e di gioia, come conseguenza. In realtà questo è il punto fondamentale, quel che dovrebbe essere il frutto di una familiarità assidua con la Parola, di una consuetudine diaria con essa: l’amore per la Parola. A nulla varrebbe la lectio se non divenisse dilectio. Ovvero amore tipico e specifico per quella realtà misteriosa che è la Parola, al punto di poter dire: «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca… Lampada per i miei passi è la tua parola» (Sal 118,103.105).

È un sentimento nuovo, da non confondere semplicemente con interesse per la Parola, intuito spirituale, gusto per lo studio, capacità di esposizione…, perché è inedito e originale per l’uomo amare la parola, esserne innamorati. Ma è il modo, l’unico modo autentico di rapportarsi alla Parola. Come dice Kierkegaard: «Come un innamorato legge una lettera dell’amata, così devi metterti a leggere la Scrittura… La Bibbia è stata scritta per te». Ma questo accade per chi dietro e dentro ad essa impara a cogliere Colui che non cessa di pronunciarla, Colui che si rivela, attraverso di essa, una presenza viva.

La Parola, infatti, è il segno immediato dell’amore di Dio, e del Dio rivelato da Gesù Cristo, un Dio che ha così tanto amato l’uomo da rivolgergli la sua parola, sia inviando il Verbo, sia instaurando con l’uomo un dialogo ricco di segni e simboli, suoni e voci, visioni e storie, parabole e parole, ora dolcissime ora amarissime…, tutto contenuto nel giardino delle Scritture sante, così simile al giardino del sepolcro, ove solo occhi amanti, infatti, sanno riconoscere il volto dell’Amato (cfr. Gv 20,15s).

E questo per la particolare identità del Dio dei cristiani: se questo Dio è relazione, allora «la Parola di Dio è Dio stesso nel segno della Sua parola! Essa partecipa della Sua potenza»: Dio vive, quasi respira o palpita il suo cuore in essa, e la parola ne è la manifestazione spontanea e subito accessibile, è la relazione in atto, è l’evidenza dell’amore che cerca comunione. Per questo san Gregorio raccomanda: «Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio». Se Dio mi parla vuol dire che mi ama; il suo amore è subito svelato dalla sua parola, qualsiasi essa sia, prim’ancora che dal suo contenuto; ed è amore personale perché è parola rivolta a me, qui e ora, per intessere dialogo con me. Amare la Parola, dunque, è scoprire in essa il Dio amante per lasciarsi da lui amare. E sentirsi nella gioia.

E non solo; amare la Parola è accettare concretamente di entrare in contatto con Colui che mi parla, è iniziare a rispondergli, e con la risposta la più logica e naturale, quella dell’amore e della gratitudine, da un lato, accogliendo e lasciando risuonare nelle profondità del mio piccolo mondo interiore la parola dell’Eterno e – dall’altro – lasciandomi avvolgere da questa corrente di amore che mi abilita a mia volta a parlare, o mi educa a vivere la relazione, a essere pure io relazione, perché così il Creatore mi ha voluto, a dire e ridire a Dio le parole che lui ha detto a me, parole d’amore. Mistero grande!

Qui nasce il credente, come un bambino che impara a parlare in forza dell’amore della mamma e ripetendo le parole della mamma. Ma qui cresce anche l’adulto, quel «bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2), che il Padre-Dio ha reso suo partner e interlocutore.

La gioia del compimento. Il dinamismo che potremmo chiamare mariano è tipico di chi si pone dinanzi alla Parola con lo stesso atteggiamento con cui Maria accolse nel suo cuore la parola dell’angelo, perché si compisse nel suo grembo, determinando la sua gioia esplosa nel Magnificat, ma già evocata dall’annunciatore stesso del messaggio divino: «Rallegrati, Maria, hai trovato grazia…, sei la piena di grazia». La Parola sarà conosciuta nel suo senso profondo solo quando il credente avrà il coraggio di scommettere su di essa, un po’ come Pietro quando decide di obbedire a Gesù che lo invita a fare qualcosa di poco convincente e illogico: gettare la rete, in pieno giorno, dall’altra parte della barca. Pietro lo fa, ma solo «sulla tua parola» (Lc 5,5), perché è essa che glielo chiede. Così la Parola-del-giorno si compie, piano piano diventa chiara e comprensibile, si realizza nella vita di ogni giorno, esattamente come nel grembo di Maria: mistero grande e quotidiano!

 

«Beati i poveri in spirito…, gli afflitti…, i miti…» (Mt 5,3-12)

Gesù, il grande predicatore del regno dei cieli, annuncia le beatitudini. Lui, il beato per eccellenza, vuole che anche coloro che accolgono il Regno siano beati, cioè felici, gioiosi. Ma a quali condizioni? E qui appare la singolarità dell’annuncio: saranno felici e contenti in situazioni, umanamente parlando, per nulla contigue alla gioia, anzi, a essa opposte, almeno apparentemente.

In altre parole, la natura della felicità portata da Gesù non ha nulla in comune con la felicità di cui parla il mondo e che sembra naturale. La felicità cristiana è in certo senso contraria a quella del mondo, viene da altra fonte e ha criteri diversi, procede per altre vie, è un sovrappiù di una vita vissuta in pienezza come figli di Dio.

In questa prospettiva Gesù ci vuole sottrarre da quell’inganno nel quale erano caduti i nostri progenitori, per accogliere nella verità la gioia che il nostro cuore desidera e che Egli stesso desidera per ciascuno di noi.

Quale è stato l’inganno nel quale sono caduti i progenitori? È – lo ricordiamo brevemente – la pretesa di trovare la propria sazietà, realizzazione, gioia, nel prendere da sé il frutto dell’albero. Il discorso del serpente è apparso suggestivo ai progenitori perché ha toccato i sentimenti, il senso del limite e la relazione con l’Assoluto. Significativa è la descrizione delle risonanze interiori al discorso del serpente, che precedono la scelta peccaminosa: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6).

Il testo della Genesi pone come conseguenza del peccato la morte: «Qualora ne mangiassi moriresti» (2,17). Questa annotazione, in apparenza smentita dai fatti, rivela invece alcune dinamiche paradossali dell’agire umano di ogni tempo. Essa dice anzitutto che il peccato non porta mai ai risultati sperati, ma a una deprivazione delle proprie possibilità di vita. Il seguito del racconto precisa tuttavia che si tratta di una esperienza ben più complessa e articolata della mera morte fisica: la morte simboleggia la punizione che l’uomo dà a sé stesso, essa accompagna le sue azioni, i progetti, i pensieri, gli affetti. Segni chiari di tale morte sono proprio – come insegna anche sant’Ignazio – oscurità, tormenti, inquietudini, tristezza, accidia, disperazione.

Al contrario la beatitudine, la felicità, si realizza in colui che vive, come figlio, nell’amore, alla sequela del suo Signore. E’ una gioia “paradossale”, perché non toglie le contrarietà e le sofferenze: è la gioia concessa a chi, all’interno di tali situazioni, fanno esperienza dell’incontro con il Signore e del  suo amore.

Il Maestro qui vuole dire che l’autentico credente è colui che in tutte quelle situazioni in sé negative (persecuzione, calunnie, ingiustizie, sopraffazioni, violenze…) ha scoperto la felicità, o ha imparato a sperimentare – in fondo ad esse – un’insperata e singolare presenza di Dio. Cristiano è colui che lentamente è cresciuto in questo sorprendente apprendimento esperienziale: ha imparato a godere proprio laddove l’uomo di solito non può che soffrire; a incrociare lo sguardo del Padre nel deserto della solitudine o dell’umana ingratitudine; a sentirsi da lui particolarmente custodito proprio quando si è abbandonati e traditi; prezioso ai suoi occhi quando non conti niente per nessuno; figlio suo pre-diletto quando la vita è violenta e chi hai amato ora ti si rivolta contro…. Al punto che questa esperienza è divenuta sapienza, nel senso latino del verbo sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!

C’è del paradosso in tutto ciò, ma solo fino a un certo punto: è già l’intuizione psicologica a ricordarci che la verità è spesso fatta di opposti, e che il senso pieno della vita lo sperimenta solo chi ha il coraggio di affrontare assieme le polarità contrastanti dell’umano esistere, ove l’una polarità convive con l’altra e ne ha bisogno per essere correttamente compresa, la illumina e ne è illuminata. Per questo, ad esempio, colui al quale le cose vanno sempre bene, stimato e benvoluto da tutti, senza problemi e sempre sull’onda del successo…, come potrà sperimentare la fame e sete di Dio, e poi la beatitudine corrispondente? Ma anche su un piano solo umano chi non ha mai assaggiato la solitudine che ne sa dell’intimità della relazione? Chi non ha provato l’abbandono o persino la disperazione come può rivolgersi a Dio e pregarlo come il conforto unico, l’amico sicuro, la speranza rocciosa, con la gioia che ne deriva? O pure chi non ha toccato il fondo della propria debolezza, come potrà scoprire la potenza della Grazia, o vantarsi addirittura della propria debolezza («quando sono debole è allora che sono forte», 2Cor 12,9)? Chi non ha mai rischiato di “annegare” nella constatazione della propria impotenza o nella sconfitta della propria presunzione, come potrà gridare a Dio nella verità: «Signore, salvami!»? (cfr. Mt 14,30). Quanti salmi raccontano la disfatta umana personale a vari livelli, da quello sociale-relazionale a quello psicologico e persino morale, come luogo imprevisto di grazia, come sorprendente inizio di un cammino nuovo, come contatto con un volto inedito di Dio, come purificazione del cuore e della mente, come salvezza e, infine, come esperienza di una gioia non solo umana!

La prova, in tal senso, è il marchio autenticante la gioia cristiana, una sorta di conditio sine qua non, per cui non è gioia cristiana quella che a lungo andare non viene autenticata e garantita dal passaggio provvidenziale della prova. Prova come categoria biblica, che non ha risparmiato la vita di alcun credente «amico di Dio», lungo la quale è cresciuta la fede di Abramo e dei nostri padri nella fede, o della quale ringraziare Dio perché segno del suo stile inconfondibile, perché così «ha fatto coi nostri padri» (Gdt 8,25); prova non come test per verificare la fede, ma come occasione di crescita nell’amore, prova come strumento di cui Dio si serve per chiederci qualcosa che noi non avremmo mai avuto il coraggio di sacrificargli spontaneamente. Per questo la prova è anche scuola di apprendimento della gioia, di una gioia nuova. Senza la prova, infatti, o non c’è gioia, o sarebbe ancora una volta debole e insignificante, vecchia e instabile e non credibile.

Allora la fede diviene sofferta e combattuta, ma solo allora è vera fede, poiché è passata attraverso la lotta con Dio. Prima Dio era conosciuto «per sentito dire» (Gb 42,5), ora il credente può dire di averlo visto coi propri occhi. Ed è passaggio indispensabile non solamente perché solo una fede sofferta diviene fede forte e davvero personale, vissuta sulla propria pelle, ma anche perché solamente chi soffre la propria fede può giungere a goderne, a sperimentarla come ciò che alla fine dà luce e pienezza alla vita, come felicità. Tale fede e solo una fede provata e goduta, a questo punto, può essere condivisa, coi fratelli credenti, anzitutto, per crescere assieme, e poi annunciata con coraggio e creatività a chi non crede.

 

«Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7): la gioia del perdono

La gioia di Dio. Gesù ci rivela quanto il Padre ha a cuore la nostra vita. E quanto Gesù stesso ha a cuore ciascuno di noi, giustificando così il so accogliere i peccatori ed offrire ad essi il perdono. Ce lo dice con la parabola della pecora smarrita. Nel racconto di Gesù stupisce il fatto che il pastore abbandoni il proprio gregge per andare in cerca della pecora che,  testarda e disobbediente al pastore, o desiderosa di autonomia, o tentata da chissà quali altri pascoli, o semplicemente distratta, si è persa. Una corretta impostazione economica non prevede sempre i possibili “scarti di produzione”?

Per di più non è concepibile neppure il fatto che il pastore abbandoni il suo gregge nel deserto, ove le pecore sono esposte, senza alcuna protezione, alla voracità dei lupi o all'assalto dei ladri e briganti; piuttosto doveva affidarlo ai pastori che condividevano con lui il recinto (Lc 2,8), oppure sospingerlo dentro una grotta! Queste pecore avrebbero tutte le ragioni per lamentarsi, come avrà ragione il figlio perbene quando vedrà il padre ridividere il patrimonio con il figlio prodigo ritornato!

Infine come può Dio essere più contento di un solo peccatore che ritorna a lui che di novantanove giusti che ogni giorno gli obbediscono con fedeltà, magari a prezzo di grandi sforzi e sacrifici?

Tutti questi paradossi della “ingiustizia” di Dio, vogliono in realtà sottolineare che ciascuno di noi è preziosissimo agli occhi di Dio. Nessuno deve sentirsi escluso dall'attenzione di Dio. Dio ama ciascuno di noi come se non esistesse nessun altro, e continuamente ci cerca, ci conquista, ci seduce. Adamo ed Eva dopo il peccato si nascondono dal Signore, ma Dio li viene a cercare: “Il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: Dove sei?” (Gen 3,8-9). E' Dio che chiama Abramo (cfr. Gen 12,1-3), che si rivela a Mosè (cfr. Es 3,1-22). E' Dio l'Amante che nel Cantico cerca l'amata (cfr. Ct 2,8-17; 5,1-2). E' Dio che “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E' Dio che sta alla nostra porta e bussa (cfr. Ap 3,20). Quello di Dio è un amore senza riserva che ci precede, ci sostiene e ci chiama lungo il cammino della vita e ha la sua radice nell'assoluta gratuità di Dio.

Se ancora noi pensiamo di essere tra i “giusti”, forse dovremo umilmente riconoscere ancora di essere peccatori... di essere quella pecora cercata... Chi è mai davvero “giusto” di fronte a Dio? Qual è l’uomo vero? È colui che ha il coraggio di ammettere la propria debolezza e miseria, le proprie contraddizioni e negatività, gliene dispiace e le soffre dinanzi a Dio, se ne pente e chiede perdono… Questo e solo questo è l’uomo vero, poiché l’uomo è così.

Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento...” (v. 5). Davanti ai nemici Gesù giustifica perciò il Vangelo che annunzia a favore dei peccatori e degli ultimi. Se è vero che il pastore gioisce per la pecorella ritrovata, così è Dio! Gesù, il “pastore bello” (Gv 10,11ss) per ricercare ogni peccatore perduto è disposto a pagare di persona: è la croce. Egli si rallegra per il peccatore pentito! E' contento di perdonare! E, una volta ritrovata la pecora, il perdono è totale: nessun rimprovero, nessuna percossa. La gioia del cuore è tanta che tutto il passato è dimenticato. Egli è il Pastore che si è fatto agnello: ha portato su di sé il peso della croce, cioè di tutto il peccato dell’umanità.

Evidentemente questo atteggiamento del Padre deve riflettersi anche su tutta la comunità cristiana, che insieme  ai loro responsabili, cerca, trova e gioisce per il ritorno dei fratelli. Perciò la comunità ecclesiale – con il suo atteggiamento di fondo profondamente umano nei confronti dei peccatori (come il mangiare a tavola di Gesù con loro, che è il motivo dello sdegno dei farisei – 15,2) – deve far toccare con mano l’amore che il Padre ha per ogni persona.

 La gioia del perdono.  Se Dio è così, anche il credente, chiamato ad avere “gli stessi sentimenti – e quindi anche la gioia del perdono – che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), può provare tale gioia. Perdonare non è facile, ma possibile. E’ l’espressione più alta dell’amore.

Per il non credente sono molto più comprensibili le ragioni per non perdonare, che quelle del perdono. Vediamo quali sono le più consuete “ragioni” del non-perdono.

- Se mi vendico, starò meglio. Si tratta di un pregiudizio frequente in coloro che decidono di rifiutare il processo del perdono, ritenendolo — come notava Nietzsche — una rinuncia alla propria dignità, ai propri diritti, che invece verrebbero riaffermati da quella sorta di giustizia fai-da-te che è la vendetta. In realtà, la predisposizione d'animo ispirata alla vendetta conduce a coltivare atteggiamenti — come il risentimento e la ruminazione interiore — che avvelenano l'animo della persona, esasperandola, fino al punto di non riuscire più a trovare soddisfazione nella vita: «Il “regolamento di conti” che la vendetta promette è spesso più apparente che reale, poiché la perpetrazione di un torto crea una situazione di ingiustizia e disequilibrio che le vittime percepiscono non essere completamente compensata da atti di rivalsa»[6].

Difatti il senso di pacificazione interiore, proprio del perdono, non è paragonabile ai sentimenti provati da chi ha vendicato un torto subìto. Il primo è pacificante, il secondo distruttivo. Si tratta di una differenza confermata, anche sperimentalmente, a proposito del rancore e del risentimento. Rancore, odio sono atteggiamenti distruttivi anche sul piano della salute: tendono a far aumentare la pressione sanguigna, causano stress e pericoli di tipo cardiaco, sono alla base di disturbi psicosomatici legati alla tensione e alla ruminazione interiore (gastriti, ulcere). La decisione di perdonare, invece, si fa sentire anche sotto l'aspetto somatico/biologico. Nel momento in cui ci si pone in questo diverso atteggiamento, si percepisce un cambiamento interiore, avvertito anche a livello corporeo.

L’esperienza, inoltre, mostra che vendetta, anche se realizzata con successo, non reca mai la soddisfazione sperata, ma ulteriore sofferenza e dolore. Infatti si prova il rimorso e la sensazione di non essere stati molto diversi da chi si è voluto punire.

- Il perdono è una forma di debolezza. In realtà, esso è esattamente il contrario. Può perdonare solo chi è interiormente forte, chi ha saputo dare spazio a sentimenti e atteggiamenti che consentono di affrontare e apprezzare la vita, come l'empatia, la ristrutturazione cognitiva, il desiderio, la benevolenza. Essi sono indice di una libertà interiore che sfugge al meccanismo di stimolo-risposta, proprio del bambino e delle reazioni emotivamente primitive, ma sa considerare quanto accaduto da un punto di vista più ampio e complesso, notando cose nuove.

- Deve soffrire per ciò che ha fatto. Dietro questa affermazione c'è la credenza, erronea, che rifiutare il perdono sia una maniera di punire l'altro. In realtà accade esattamente il contrario: in tal modo si punisce solo se stessi, torturandosi e impedendo a se stessi di vivere. Non perdonando, ci si illude di esercitare un potere sull'altro, ma di fatto ci si amareggia senza pietà. Cedere questo potere è consentire a se stessi di ricominciare a vivere, di percorrere nuove strade; forse si comincerà anche a capire che l'altro è molto differente da come la fantasia lo raffigurava.

Perdonare è in definitiva un esercizio di realtà, che può far bene all'altro, ma soprattutto a se stessi. A ritrovare la pace. Anzi la gioia. Perché quando il perdono è dato con il cuore, cioè è dato da un cuore liberato dal proprio io e da ogni rancore, partecipa della stessa gioia di Dio.

 ____

[1] Cfr. G. CUCCI, «La felicità. Gustoso anticipo di eternità», in La Civiltà Cattolica, 4000 (2017) 401-413.

[2] R. NOZICK, Anarchia, stato e utopia, Milano, il Saggiatore, 2008, 64; cfr G. SAMEK LODOVICI, L'utilità del bene: Jeremy Bentham, l'utilitarismo e il consequenzia­lisrno, Milano, Vita e Pensiero, 2004, 206.

[3] Sant’Ignazio di Loyola ci ricorda una verità fondamentale: che è proprio di Dio dare la gioia, la consolazione, la pace nell’anima.

[4] S. KIERKEGAARD, «Aut-aut», in ID., Opere, Firenze, Sansoni, 1972, 10.

[5] I. YALOM, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Boringhieri, 1997, 30. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita, Assisi (Pg), Cittadella, 2015.

[6]      Ivi, 28.

La forza dirompente e distruttiva dell’ira

Nel libro dei Proverbi si mette in guardia il sapiente dalla pericolosità dell’ira, a causa delle terribili conseguenze cui potrebbe portare[1]. È proprio dell’uomo saggio guardarsi dal coltivare l’ira, egli deve piuttosto dominarla[2], per questo viene lodato l’uomo che è «lento all’ira»[3]. Chi è invece preda dell’ira è lo stolto (Pr 14,17.29) che non potrà mai compiere la giustizia in preda alla collera (Pr 14,17; Gc 1,20).

L’ira è l’espressione più alta della rabbia. Quest’ultima, in sé, è una passione in relazione con la facoltà riflessiva e deliberativa dell’uomo. Essa, infatti, è inizialmente accompagnata da una valutazione che indaga la gravità dell’offesa e del male ricevuto. La controprova di questo è data dal fatto che coloro che si trovano privi di ragione, anche temporaneamente, come gli ubriachi fradici, o coloro che sono sotto l’effetto inibitore dei farmaci non sono nemmeno capaci di arrabbiarsi.

Partendo da questa valutazione la rabbia ha di mira, come obiettivo, la giustizia per il torto subito.

Il problema è che la rabbia può degenerare nell’ira; la persona non è più in grado di controllarsi, è totalmente presa da questa passione. Gli autori medioevali amavano soffermarsi su tali eccessi con dovizia di particolari, per mostrare la deformità cui conduce l’ira. Essa fa terra bruciata quando viene lasciata avvampare indiscriminatamente. Si esaurisce, infatti, solo quando tutto intorno a sé è finito in fumo e cenere.

«Il potere dirompente dell’ira trova nel fuoco la sua metafora privilegiata, l’iracondo è come un serpente che vomita fuoco dalla bocca, incendiando tutto ciò che lo circonda; è come una pentola posta su un fuoco troppo forte che fa sbollire tutto il suo contenuto; è come un rovo secco che si accende per autocombustione al solo soffiare del vento»[4].

L’ira è accompagnata da una serie di sentimenti tra loro contrastanti: «dolore, tristezza, desiderio e speranza di vendicarsi… e se la persona che ha inflitto il danno è troppo superiore, non segue l’ira ma soltanto la tristezza»[5].

 

Le conseguenze dell’ira

Il male che facciamo a noi stessi. Gesù paragona l’ira all’omicidio (cfr. Mt 5,21) ma non dobbiamo dimenticare che prima di tutto l’ira è un suicidio, un lento avvelenamento che procuriamo alla nostra esistenza, fino a spegnerla del tutto. Esiste infatti uno stretto legame tra il vizio dell’ira e quello della tristezza; nel momento in cui perde il controllo e la giusta regola l’ira si autoconsuma, diventando triste accidia, si spegne come fuoco di paglia, perché al fondo dell’ira c’è la tristezza. Nel medioevo la personificazione del vizio dell’ira è resa con una figura di un uomo o di una donna che si pugnala. Nel capitello della cattedrale di Notre-Dame du Port di Clermont Ferrand sotto l’immagine dell’uomo che si pugnala si legge la scritta: ira se occidit. Emerge il carattere paradossale dell’ira che sorta come spinta di distruzione verso l’altro diventa causa di annientamento di se stessi. • Il male degli altri. Quando si lascia libero corso all’ira, essa produce frutti spropositati, come l’aggressività, la brama di vendicarsi, la violenza, l’odio, l’omicidio, fino alle rivoluzioni e alle guerre totali. Il terrorismo costituisce senza dubbio uno dei frutti più visibili dell’ira e dell’odio.

Oggigiorno nelle società più ricche si constata una proliferazione preoccupante dell’ira, presente anche negli avvenimenti più banali. Una delle cause del comportamento “trasgressivo e distruttivo” è data dalla noia delle persone, per cui la sempre maggiore facilità ad improvvise esplosioni d’ira si spiega come una sorta di volontà di compensazione, una maniera di sentirsi in qualche modo “vivi”. Altro motivo è dato dall’isolamento sociale o dal carattere delle persone che, se introverse e appartate, con più facilità trascorrono il tempo libero a fantasticare sul modo di vendicarsi per supposti torti subiti. In aggiunta a ciò va considerata la mole di armi messe con troppa facilità a disposizione di tutti, come un invito facile e immediato a far valere le proprie ragioni con mezzi facili ed estremamente persuasivi; come pure il prosperare dei videogiochi, film e romanzi sempre più violenti ed efferati, i quali finiscono per diventare una specie di droga affettiva che richiede dosi sempre più forti per catturare l’interesse. A tutto ciò va aggiunta la crescente latitanza di figure educative ed affettive in grado di integrare le spinte aggressive presenti nella persona, specie nell’età dello sviluppo; tale latitanza, accompagnata spesso da situazioni di violenza familiare, costituisce l’aspetto più grave del dilagare di comportamenti dominati dall’ira.

La relazione con Dio. L’ira inaridisce la vita spirituale. Un cuore abitato dal risentimento nei confronti del proprio fratello non può porsi con verità di fronte a Dio e la preghiera risulta ipocrita e arida; le parole di Gesù a questo proposito sono chiare: “Se dunque tu presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24).

 

La proposta sconcertante della mitezza

«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,3). «E’ un’espressione forte – scrive papa Francesco -, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini e perfino per il loro modo di parlare e di vestire. Insomma, è il regno dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di innalzarsi sopra degli altri. Tuttavia, nonostante sembri impossibile, Gesù propone un altro stile: la mitezza. È quello che Lui praticava con i suoi discepoli e che contempliamo nel suo ingresso a Gerusalemme: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro” (Mt 21,5; cfr. Zc 9,9)» (GE 71).

Il mite è colui che cerca di imitare la personalità di Gesù che dice «imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Il Dio di Gesù Cristo fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, è amore che non ama ciò che è amabile, ma rende amabile ciò che ama, perché Dio è mite. Gesù ha pienamente incarnato la mitezza di Dio. La prova massima della mitezza di Cristo si ha nella sua passione. Di fronte al servo che lo percuote, Gesù reagisce con ragionevolezza: «Se ho fatto male, mostramelo, ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). In tutta la passione nessun moto d’ira, nessuna minaccia: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta» (1Pt 2,23). Gesù ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e di pazienza eroica: ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Sulla croce egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima.

Il mite, come capiamo, non è un soggetto passivo, il debole o lo zerbino. Il mite è una persona mansueta e paziente, interiormente forte che ha il controllo di sé.

Norberto Bobbio, considerato uno dei maggiori intellettuali del secolo scorso, afferma che nel nostro tempo essere miti è una scelta storica di reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere, è la virtù più «impolitica».  In una visione più alta della politica la mitezza, considerata una debolezza, dovrebbe avere invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Il mite è il forte, perché conosce le sue ragioni e le fa valere con fermezza che non è prepotenza o tracotanza. Egli convince, persuade, conduce l’altro ad argomentare, ad avere e cercare il dubbio per far crollare le sue false certezze, le sue verità non riconosciute. Evita le risse, la contesa, la lotta, non perché è pavido o ha paura, ma perché vuole condurre tutti a ragionare, a trovare nella parola, nel dialogo, nella conversazione la soluzione. Cerca sempre la luce nell’altro, nel quale deve far germogliare, maieuticamente, il senso della misura, della medietà, affinché possa essere smorzata la sua tensione alla violenza, placata l’ira. Se scansa il rumore, l’asprezza della disputa, i tumulti egoisti o di gruppo è perché vuole neutralizzare il livore infecondo, la rivolta effimera che vede profilarsi all’orizzonte[6]. 

I miti sono paradossalmente i forti e gli audaci, coloro che sopportano le traversie della vita, senza scoraggiarsi o sentirsi umiliati, coloro che tengono le loro passioni sotto controllo, che non si adirano, che non si vendicano, che non si sottomettono al male, ma lo combattono con pazienza e fermezza, senza perdere la speranza nell’aiuto del Signore. Come appare nella paolina “Lettera a Tito”, i miti sono coloro che non parlano male di nessuno, evitano le liti, sono dolci anche nel rimproverare quelli che si mettono contro, nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi. Aiutati dallo Spirto Santo sono dotati di una forza controllata. 

Miti si diventa imparando, con un atteggiamento umile di cuore, a controllare la lingua e i pensieri, a spalancare il cuore alla magnanimità, a pazientare con i limiti altrui, alla capacità di perdonare, alla trasparenza nei rapporti interpersonali.

 

Il possesso pacifico della terra

Ai miti Gesù promette il possesso della terra. Per Israele il possesso della terra promessa era, insieme con la discendenza, «la beatitudine» (cfr. Gen 17,6-8). È una terra che Dio conquista per il suo popolo e quest’ultimo, per possederla in pace, deve adempiere la Legge. «Farai ciò che è giusto e buono agli occhi del Signore, perché tu sia felice ed entri in possesso della buona terra che il Signore giurò ai tuoi padri di darti, dopo che egli avrà scacciato tutti i tuoi nemici davanti a te, come il Signore ha promesso» (Dt 6,18-19).

Ma di quale terra parla Gesù nella beatitudine? Non si tratta solo del paradiso; c’è un “già e non ancora”.

• La terra è anzitutto il nostro cuore. Chi sa rispondere al male con la mitezza lo possiede, non si lascia trasportare dalle passioni. Sa mantenere rimanere nella pace e nella serenità. Ma è necessario un cammino, o, meglio, un lavoro di “cura” del proprio cuore. Nella Genesi si narra che Dio affida all’uomo da lui creato il compito di coltivare la terra (cfr. Gen 2,15). Ma – si noti – l’uomo è stato plasmato con l’humus del suolo (cfr. Gen 2,7). Di conseguenza coltivare la terra è anche un segno/invito a coltivarsi. A coltivare il proprio cuore con l’ascolto della Parola di Dio, con la vigilanza, e con l’esercizio delle virtù.• La terra e gli spazi vitali che abitiamo. Tra il possesso del proprio cuore – con compostezza e mitezza – e il possesso della terra (la famiglia, la comunità, il luogo di lavoro, la città, la patria, la politica, l’economia…la natura) c’è una relazione profonda. Perché si “possiede” come dono da accogliere solo ciò che si ama e si coltiva.

La terra posseduta con mitezza è parte del Regno dei cieli. Gesù ha amato la nostra terra, l’hanno amata i nostri santi. Santa Teresa chiamava «paradiso» il suo piccolo convento di San Giuseppe. Ignazio amava quell’angoletto nella terrazza del Gesù in cui stava la piccola panca su cui si sedeva per piangere mitemente guardando il cielo stellato.

Il contrario di possedere la terra è contendere spazi. In ogni contesa di spazi si cela un’assenza di mitezza e un desiderio di potere. Esistono contese aperte e contese attutite, non sempre facili da discernere. Ma le distinguiamo con chiarezza a partire dai loro frutti: quelli che hanno desiderio di potere disputano spazi che poi non coltivano. Conquistano ma non fanno, e non lasciano fare ad altri. Accumulano territori – lavori, incarichi, responsabilità… –, ma quando non possono occuparsene loro non può farlo nessun altro, perché non hanno creato una squadra e non hanno lavorato con nessun altro. Ciò deriva dalla mancanza di mitezza nel proprio cuore, dal non aver trovato il proprio spazio, il proprio luogo, e quindi ci si dedica a combattere per quello degli altri. E dopo che lo si è conquistato, lo si lascia andare in rovina. Il violento conquista per poi disprezzare e abbandonare. Il mite, se la sua pace non viene ben accolta, si scuote la polvere dai sandali e se ne va in un’altra città, in un altro posto (cfr. Mt 10,14 e parr).

Per questo il Vangelo dice che solo i miti erediteranno e quindi possederanno la terra perché solo loro sono in grado di amarla e mantenerla a beneficio di tutti. Qui si apre un tema di grande attualità oggi: lo sfruttamento e conservazione dei beni della terra. Su questo fronte i miti sono coloro che abitano la terra senza violentarla o deturparla, vivendo in alleanza con essa, sfruttando i beni con coscienza e cura in quanto la terra non è una preda ma un dono di Dio a beneficio di tutta l’umanità.

 

Beati i misericordiosi

«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». Se scindiamo la parola in miseris-cor-dare, capiamo che esso significa: “dare il proprio cuore”.

Nell’AT la misericordia divina è spesso collegate con le «viscere», con l’utero in cui il bambino è portato prima della sua nascita. Le viscere - segno di profondità in ogni essere umano, spazio che nella donna esiste in vista dell'altro da sé – designano nell'antropologia biblica il luogo in cui hanno origine i sentimenti più profondi d'amore, quell'amore che si declina come compassione: amore viscerale, intenso, misericordioso. Amore viscerale che Dio prova per l’uomo: «[Così dice il Signore]: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”» (Is 49,15).

• Nei Vangeli vediamo che Gesù ha compatito i peccatori e i sofferenti. La comprensione di Gesù delle nostre infermità si manifesta nella “com-passione”: Gesù com-patisce gli uomini, cioè soffre insieme a loro. Egli fremette di fronte a quanti erano in preda del male (cf. Mc 1,41; 9,22; Mt 20,34) e della morte (cf. Lc 7,13), si commosse alla vista delle folle stanche e affaticate (cf. Mc 6,34; 8,2). Offre loro un aiuto reale ed efficace. Gesù esprime la sua missione nella parabola del buon Samaritano di Lc 10,30-37 (è lui il Samaritano venuto da lontano!). In contrapposizione con il sacerdote e il levita che non si fermano a soccorrere il malcapitato, il samaritano lo fa. I verbi che descrivono l’azione di questo personaggio sono incalzanti:

- “lo vide”. Anche il samaritano vede il malcapitato, come avevano fatto i rappresentanti della Legge e della Liturgia, ma il suo “vedere” non rimane una sensazione superficiale: lo spinge ad agire. È proprio vero, l’occhio rivela il cuore: «La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso» (Mt 6,22-23). L’occhio si sofferma su ciò che cattura il cuore: «Ubi amor, ibi oculus», «Dove c’è amore, lì’ si posa l’occhio»[7]. A volte basta anche uno sguardo amorevole, sguardo che non si sofferma su eventuali limiti e difetti dell’altro, anche se presenti e riconosciuti, e nemmeno cerca vantaggi o capacità particolari che ne confermino il valore. C’è una benevolenza nei confronti dell’altro espressa dallo sguardo; l’amato ha un valore unico agli occhi di chi ama non per qualche motivo particolare (intelligenza, aspetto fisico, abilità, simpatia), ma semplicemente perché “è lui”.

- “ne ebbe compassione”. A muovere il samaritano è la compassione, la tenerezza materna (splanchnizomai). Il samaritano è immagine della stessa tenerezza di Dio, la stessa che prova Gesù[8]. È tanto forte e tanto vera questa tenerezza che il samaritano nemmeno pensa a fare spazio a possibili risentimenti o a vecchie ruggini; non si sofferma a considerare che è un odiato giudeo e interviene perché c’è un urgente bisogno; nemmeno lo trattiene il pensiero del viaggio intrapreso e quindi eventuali impegni o appuntamenti. Il momento presente occupa totalmente l’orizzonte dell’interesse.

Significativi sono poi i gesti (sono 10, simbolo di totalità) del samaritano:

- “gli si fece vicino...”. Si tratta di vera vicinanza. Infatti il verbo prosérchomai è scelto per contrastare il precedente doppio uso del verbo “passare a fianco dall'altra parte” (vv. 31-32). Gesù è il Samaritano che si è fatto avanti. Si è candidato nostro prossimo, vuole entrare in contatto con il nostro male e sanarci.

- “gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino...”. Sono gesti semplici che esprimono la concretezza della carità. Il samaritano si improvvisa infermiere e interviene come meglio può, con i mezzi di cui dispone[9]. Poi utilizza la sua cavalcatura come autoambulanza e trasporta il poveretto al “pronto soccorso” improvvisato.

- “lo portò a una locanda (pandokeion)” (v. 34). La locanda è figura di Gesù che raccoglie e ospita tutti. In questa casa chiunque è nel bisogno trova ospitalità, pagata in anticipo dal Samaritano. La Chiesa, come ha fatto Gesù, è chiamata ad essere “ospedale da campo” (papa Francesco) che accoglie tutti.

- “Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno” (v. 35). Questa “cura” non è solo occasionale, ma continuata, perdura nel tempo. È l'attenzione che Dio ha per ciascuno di noi: “a lui importa (mèlei) di voi” (1Pt 5,7). Prendersi cura è la tenerezza e la pazienza dell'amore che sa rispettare i tempi dell’altro. Non dobbiamo aver paura della tenerezza! Non dobbiamo essere impazienti! Dove c’è amore c’è la pazienza…

• Inoltre la misericordia di Gesù ha un altro aspetto, che troviamo nella parabola del figlio prodigo (Lc 15,11-32). Il figlio minore ha perso tutti i beni ricevuti dal padre e ha perso pure la sua dignità umana. «La misericordia – come l'ha presentata Cristo nella parabola – ha la forma interiore dell'amore, che nel Nuovo Testamento è chiamato “agape”. Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria morale, sul peccato»[10]. La gioia scaturisce dal “gusto” di aver fatto del bene, di aver aiutato i fratelli a trarre il bene dal male (cfr. Rm 12,21). È la gioia di cogliere quella voce del Padre che, come per Gesù nel battesimo al Giordano (cfr. Mt 4,13-17) e nella Trasfigurazione (cfr. Mt 17,1-8), riconosce Lui suo Figlio Amato. È partecipazione della stessa gioia di Dio per l’uomo che si converte, che ritorna alla vita: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).

Suor Faustina ha descritto molto bene, in una preghiera del 1937, fin dove e a quali profondità una misericordia sensibile e delicata è capace di spingersi, che cosa essa può concretamente significare per un cristiano e che cosa è concretamente capace di realizzare:

«Aiutami, Signore, fa' che i miei occhi siano misericordiosi, in modo che io non nutra mai sospetti e non giudichi sulla base delle apparenze esteriori, ma sappia scorgere ciò che c'è di bello nell'anima del mio prossimo e gli sia di aiuto.

Aiutami a farà sì che il mio udito sia misericordioso, che mi chini sulle necessità del mio prossimo, che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori e ai gemiti del mio prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che la mia lingua sia misericordiosa e non parli mai sfavorevolmente del prossimo, ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono.

Aiutami, o Signore, a far sì che le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni, in modo che io sappia fare unicamente del bene al prossimo e prendere su di me i lavori più pesanti e più penosi.

Aiutami a far sì che i miei piedi siano misericordiosi, in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo, vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza. Il mio vero riposo sta nella disponibilità verso il prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che il mio cuore sia misericordioso, in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo. A nessuno rifiuterò il mio cuore. Mi comporterò sinceramente anche con coloro, di cui so che abuseranno della mia bontà, mentre io mi rifugerò nel misericordiosissimo Cuore di Gesù. Non parlerò delle mie sofferenze. Alberghi in me la tua misericordia, o mio Signore.

Tu stesso mi comandi di esercitarmi in tre gradi della misericordia. Primo: nell'azione misericordiosa di ogni specie. Secondo: nel parlare con misericordia; quel che non riesco a fare con le azioni, devo farlo con le parole. Terzo: nel pregare; qualora non possa comportarmi con misericordia né agendo, né parlando, lo posso sempre fare pregando. Estenderò la mia preghiera fino a raggiungere anche i luoghi, in cui non posso essere fisicamente. O Gesù mio, trasformarmi in te stesso poiché tu puoi fare tutto»[11].

 

La forza del perdono

Gesù ci insegna che dobbiamo perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22), cioè sempre. E con il Padre nostro ci fa pregare: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori».

Il perdono, oltre a mantenere in pace il proprio cuore, ha la forza dirompente di restituire vita.

Emblematica sotto questo aspetto è la recente sto­ria del Sudafrica, anzitutto la politica di governo adot­tata da N. Mandela all'indomani della sua liberazione, avvenuta nel 1990. Egli trascorse in carcere ben 27 anni, ingiustamente condannato a motivo del suo im­pegno nella lotta contro l'apartheid, un carcere duro, segnato dall'isolamento, dalle intemperie, dai lavori forzati e durante i quali morirono, senza che egli po­tesse neppure vederli, la madre e il fratello, e senza sapere nulla della moglie e dei figli, con cui non riuscì più a riallacciare il legame una volta tornato in libertà. Eppure egli decise di perdonare i suoi carcerieri e co­loro che lo avevano condannato, meravigliando i suoi stessi oppositori. Una volta ottenuta la carica di capo dello stato, fece del perdono la politica di ricostruzio­ne di un paese che era giunto sull'orlo della guerra civile: «Egli dette, sorprendendo tutti, un ricevimento per le vedove dei politici che lo avevano imprigionato e pranzò con il magistrato che aveva sostenuto la sua impiccagione»[12].

Per Mandela il perdono è l'arma più potente a disposizione di un uomo, capace di proteggerlo da ogni male, fino a renderlo invincibile, perché con esso sconfigge il suo più grande nemico, se stesso, mante­nendo salda la lucidità e il controllo di sé.

La vicenda del Sudafrica risulta sotto molti aspet­ti densa di insegnamenti. Nel corso del processo di pacificazione la psicologa P. Godobo Madikizela, membro della Commissione per la riconciliazione in Sudafrica, decise di incontrare in carcere E. de Kock, capo delle Squadre della morte, uno dei maggiori responsabili degli omicidi e violenze che segnarono il periodo dell'apartheid, al punto da essere sopran­nominato dalla gente Prime Evil («il male assolu­to»), per i cui reati venne condannato a 212 anni di reclusione. La Godobo descrive, in particolare, un momento di questo confronto, quando de Kock incon­trò alcune vedove — i cui mariti erano stati assassinati per suo ordine — che gli avevano comunicato il loro perdono: «Quando cercai di capire cosa intendesse con l'espressione “perdonare Eugene de Kock”, una delle donne disse che egli ci fornì molte più notizie di chiunque altro circa la morte dei loro mariti. Aggiunse che volle prenderlo per mano per mostrargli che c'era una possibilità di cambiare, e che lo perdonava, in­condizionatamente. Quando le vidi uscire piangendo, chiesi loro cosa significassero quelle lacrime. “Esse” — mi risposero — “non sono soltanto per i nostri mariti, ma anche per lui”. Questa fu per me una cosa così incredibile, da diventare l'inizio del mio lavoro nel campo del trauma e del perdono».

Al termine di quell'incontro de Kock sembra vacil­lare e riconoscere l'enormità di quanto compiuto: «La sua faccia cambiò; si poteva notare quanto fosse afflit­to; iniziò ad agitarsi, a tremare, la sua voce era rotta. Disse con un sospiro: “Avrei desiderato fare di più che dire `Sono dispiaciuto'. Avrei voluto riportarli in vita. E invece devo vivere con tutto questo”». A quelle parole, stupendo se stessa, Godobo si trovò ad abbrac­ciarlo, provando una profonda pena per lui[13].

Per quanto riguarda l'Italia, non si possono non ricordare gli episodi, per lo più nascosti ma altrettanto significativi, di coloro che decisero di perdonare gli assassini dei loro mariti, figli, fratelli, parenti, amici, durante i sanguinosi anni del terrorismo. G. Bachelet, figlio del professor V. Bachelet, ucciso a Roma dalle Brigate Rosse, in occasione dei funerali del padre volle ricordare i suoi assassini, accordando loro il per­dono, suo e dei familiari, e auspicando il loro ravvedi­mento. Anni dopo, un gruppo di ex terroristi indirizzò un memoriale al p. A. Bachelet, fratello della vittima, in cui riconoscevano di essere stati sconfitti non dalle armi dell'esercito, né dai programmi politici, ma da quel gesto accordato loro, un gesto che aveva frantu­mato la loro ideologia: «Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante il funerale del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevo­cabile [...]. E se abbiamo cercato di cambiare, ciò è avvenuto anche perché qualcuno ha testimoniato per noi, davanti a noi, della possibilità di essere diversi»[14].

Ben presto a questa lettera seguirono degli incon­tri, che con il tempo sciolsero nelle vittime rancori e diffidenze, per lasciare posto a nuovi sentimenti, e suscitarono negli assassini il desiderio di riparare in qualche modo al male compiuto.

 

La gioia dei miti e dei misericordiosi

Quale è la sorgente della gioia, della beatitudine dei miti e dei misericordiosi? Dio stesso. In chi si “sintonizza” con l’agire di Dio, Dio si rivela a lui, si dona a lui. È – lo capiamo bene – una gioia che passa attraverso la “prova”, la fatica di affrontare la violenza con la mitezza, di pazientare di fronte ai limiti dell’altro, di vincere il rancore con il perdono che genera vita. Proprio lì dove molti si fermano nella sofferenza, il credente scopre la singolare presenza di Dio. Al punto che questa esperienza diviene sapienza, nel senso latino di sàpere: apprendimento di un nuovo gusto, come avere un nuovo palato o nuove papille gustative, che consentono di provare il gusto di Dio!

 

--- NOTE ---

[1] Cfr. Pr 6,34; 15,1; 16,14; 19,19; 27,4.

[2] Cfr. Pr 15,18; 22,24; 29,8.11.

[3] Cf. Pr 14,29; 15,18; 16,32.

[4] C. Casagrande – S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000, 60.

[5] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 46, a. 1.

[6] Cfr. https:// www.avvenire.it/agora/pagine/mitezza; http://www.interessicomunjournal.it/cultura/lelogio-della-mitezza-cuore-nella-ragione/

[7] S. Tommaso d’Aquino, 3 Sent., d. 35, 1,2,I.

[8] In Luca questo verbo compare tre volte: per la risurrezione del figlio della vedova di Naim (cfr. Lc 7,13); per l'accoglienza da parte del padre del figlio prodigo (Lc 15,20) e qui per il samaritano. Tre situazioni di emarginazione e di impurità assoluta esprimono per Luca la giustizia di Dio, la sua misericordia. “Avere compassione” dunque, dal punto di vista di Dio, significa protendersi al bisogno dell'altro per rigenerarlo a vita nuova.

[9] L'olio nell'antichità era noto per le sue proprietà terapeutiche. Il vino per la sua componente alcolica era invece usato come disinfettante nelle ferite.

[10] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 6.

[11]  Diario di suor Maria Faustina Kowalska, LEV, Città del Vaticano 2000.

[12] C. REGALIA - G. PALEARI, Perdonare, cit., 59.

[13] Cfr. G. Godobo Madikizela, A Human Being Died That Night: A South African Story of Forgineness, Houghton, Marines Books, 2004.

[14] A. BACHELET, Ritornate a essere uomini! Risposte di ex terroristi, Rusconi, Milano 1989, 16: corsivo nel testo.

«Io e Dio» è il titolo di un libro di Vito Mancuso, che si propone di «giocare la partita della vita e del suo senso come un incontro tra Io e Dio»[1]. L’autore, con i dati sociologici sotto mano, riconosce che non è vero che «Dio è morto», come aveva annunciato Nitezche. Ancora una stragrande maggioranza delle persone in tutto il mondo credono in Dio. Ma chi è questo Dio che è “tornato” nell’orizzonte di una gran parte dell’umanità? Mancuso non ha dubbi:

«Il Dio tradizionale non può più ritornare. Il Dio che ha retto la coscienza occidentale per quasi due millenni, il Dio che guidava gli eserciti e al cospetto del quale si celebrava la messa con il trionfale Te Deum dopo le vittorie militari, il Signore della storia che stava dietro ogni vento, il dio della Provvidenza… che guidava le sorti dei popoli verso la piena sottomissione alla Chiesa di Roma: quel Dio lì ormai non può più tornare. Dopo i milioni di innocenti massacrati nella più totale indifferenza celeste, è semplicemente impossibile parlare ancora di un Dio della Provvidenza storica. Ha scritto Primo Levi: “Se non altro per il fatto che un Aushwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza”. […]

Neppure può tornare il Dio che governa le piccole cose della cronaca quotidiana, quel Dio che conta i nostri capelli e senza il cui volere non cade a terra neppure uno dei passeri del cielo, come pensava Gesù: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contanti. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!” (Mt 10,29-31). Ogni giorno veniamo a sapere di malattie incurabili che si abbattono su piccoli e grandi senza nessuna distinzione morale, di incidenti e fatalità di ogni tipo, una valanga di cronaca nera con figli che uccidono genitori, genitori che uccidono figli, morti sulla strada, sul lavoro, al mare, in montagna, dovunque. Chi può guardare al mondo e sostenere con veridicità e onestà intellettuale l’idea di un governo provvidente e giusto sui singoli esseri umani da parte di Dio, compresa la cura per i loro capelli?»[2].

Cosa rispondere a queste obiezioni di Mancuso? Certamente non bastano poche battute per dare una risposta convincente. Bisogna anzitutto riconoscere che – forse sembrerà strano – l’uomo, già nell’AT, ma anche il cristiano, ha avuto idee distorte di Dio, frutto di una lettura a partire dalle proprie categorie culturali, e talvolta si è servito anche di esse per giustificare le proprie azioni. Per esempio i soldati tedeschi portavano scritto nella cintura: “Gott mit uns”, cioè “Dio è con noi”. Allora per capire bene chi è Dio davvero, che Gesù ci ha rivelato in pienezza, è bene tornare sempre a leggere con attenzione la Sacra Scrittura. E a leggerla alla luce della tradizione della Chiesa, cioè di quella comprensione che è cresciuta, purificata e maturata lungo i secoli, grazie all’azione dello Spirito santo. Ed è quello che faremo. Oggi, in particolare, ci soffermiamo sulla figura di Abramo e la “scoperta” di un Dio diverso da tutti quegli dèi – o meglio idoli – fino ad allora conosciuti.

 

Esperienza di Abram nella casa paterna

In Gen 11,27-32 abbiamo un testo che ci presenta alcune informazioni su Terach, il padre di Abramo, di Nacor e Aran, e l'esperienza che Abram ha delle relazioni familiari. Leggendo attentamente il testo si nota subito che le relazioni familiari sono dominate dalla figura del padre (Terach), citato ben 6 volte (ma il 6 è un numero imperfetto); della moglie e madre dei figli, infatti, non si fa menzione. Si noti anche la ripetizione dell'aggettivo possessivo nel v. 31: «Tèrach prese Abram suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio di suo figlio, e Sarai sua nuora, donna di Abram suo figlio...» (v. 31). La paternità di Terach è quindi all'insegna della possessività. Per questo non c'è da stupirsi che il primogenito sia stato chiamato Abram, che significa «(il mio) padre (ab) è elevato/eccelso (ram)»; cioè il “destino” di tale figlio è quello di esaltare il padre Terach. Si noti, poi, che il secondogenito, Nacor, ha lo stesso nome del padre del padre (cfr. Gen 11,22-24): è l'unico caso nella Genesi nel quale un figlio prende il nome del nonno! Aran, l'unico figlio il cui nome non sembra essere in associazione con una paternità, muore subito dopo aver generato Lot.

Le relazioni familiari sono dunque caratterizzate da questo legame possessivo di Terach nei confronti dei figli; e c’è l’esperienza dolorosa della morte.

La morte di Aran è seguita immediatamente dal matrimonio dei due figli maggiori (v. 29). Anche Abram si sposa con una donna di nome Sarai, il cui nome significa: «i miei principi». Sarai però è sterile. La famiglia di Terach è quindi doppiamente segnata dalla morte: da quella, come già detto, di Aran, ma anche dalla sterilità della sposa del primogenito (Abram).

Cosa fa Terach? Come reagisce a questa situazione? Prende i suoi familiari segnati dalla morte – e solo questi –, cioè Abram e Sarai (quindi la coppia sterile) e Lot, orfano di padre (cfr. v. 31)[3], ed esce con loro da Ur dei Caldei. Terach, quindi, cerca di strapparli dalla sventura[4]. È il tentativo di sfuggire dalla morte. Oggi forse noi faremmo ricorso alla scienza e in particolare alla tecnica. Sono certamente risorse molto utili, ma non risolvono il problema della morte, perché infatti la vita rimane un dono di Dio.

Si noti che nel suo viaggio verso Canaan, Terach fa una sosta a Carran. Ma di fatto Terach non uscirà più da lì, non riuscirà a raggiungere Canaan, e infatti lì vi morirà (cfr. v. 32).

La morte di Terach in Carran avviene 60 anni dopo la partenza di Abram[5]; il che vuol dire che Abam è riuscito a svincolarsi dal padre. Anticipando l'annuncio della morte di Terach prima della partenza di Abram, l'autore sacro suggerisce che Terach abitava nel lutto per la partenza di questo figlio, fa parte della morte ancora prima di morire. L'autore sacro cioè ci dice: Terach fa parte del passato. Per questo nei capitoli seguenti, anche se ancora era vivo, non si farà di lui più menzione.

 

Esperienza religiosa di Abramo prima della chiamata

Quale conoscenza di Dio Abramo prima della chiamata di Gen 12? Anzitutto sembra aver avuto una certa concezione di Dio a partire dalla contemplazione della natura e degli astri; ciò lo si deduce da ciò che dice al re di Sodoma in 14,22: «Alzo le mani davanti al Signore, Dio altissimo, creatore del cielo e della terra». Quindi emerge una visione di un Dio unico, contemplato a partire dallo splendore della creazione, esperienza probabilmente previa alla parola di Dio su di lui.

La Sacra Scrittura in modo molto generico afferma che i padri di Israele, come Tèrach «al di là del fiume», nei tempi antichi «servivano altri dèi» (Gs 24,2; cfr. anche Gd6 5,6-9).

Se invece ci rifacciamo alle nostre conoscenze sui gruppi seminomadici di quel tempo, dei quali Abramo ne faceva parte, Dio era capito come una presenza personale nelle vicende e nella vita del gruppo patriarcale e del singolo: Dio è con il gruppo, con la famiglia patriarcale. È un Dio che accompagna e protegge, che segue la storia del gruppo. È un Dio – o, meglio, un idolo - che non si vincola a nessun luogo (date le condizioni di vita del gruppo), a cui viene affidato il proprio presente e il proprio futuro. Probabilmente Abramo aveva questa concezione di Dio. Ma l’idolo o gli idoli che suo padre venerava non aveva preservato la famiglia dalla dolorosa esperienza della morte.

 

Dio si rivela ad Abramo

Chi strappa Abram dalla situazione di morte in cui versa tutta la famiglia è il Signore. «Il Signore disse ad Abram…» (Gen 12,1). Anzitutto fa esperienza di un Dio che parla. Non è muto come gli idoli. E lo chiama per nome! Si sente conosciuto e cercato da sempre, ma adesso scoperto e afferrato di sorpresa, come alle spalle, e abbracciato con forza e con un’infinita tenerezza amicale (Fil 3,8-14). E non solo. Dio darà un senso completamente nuovo al suo stesso nome, e lo lascia segnato per sempre: «Avraham, Avraham» (Gen  17,5, che spiega il significato del nome: «padre di una moltitudine di nazioni»). Dio «tira fuori» Abramo dalla situazione che sta vivendo, e lo proietta sui sentieri di un pellegrinaggio: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (12,1).

Così comincia la storia di Abram: con Dio che gli ordina di partire dalla propria terra (che, probabilmente va identificata con la regione chiamata in Gen 24,10 “Aram dei due fiumi”, oggi la valle del Balih, situata tra il Tigri e l’Eufrate), separandosi dal padre, dalla situazione stagnante.

E’ interessante notare anche il parallelismo con Gen 1: «Dio disse... »: è Dio che prende l’iniziativa e “fa”, crea una cosa nuova nella storia. Così, come Dio ha preso l’iniziativa di creare l’universo, ora prende l’iniziativa per iniziare la storia della salvezza. E lo fa con la sua parola che rivolge ad Abram. Lasciarsi coinvolgere dalla Parola divina significa lasciare che sia Dio ad essere l’architetto della nostra vita.

Che cosa dice Dio ad Abram? Anzitutto si ha un imperativo: «vattene»: lascia il paese, la patria, la casa del padre, il clan, la cultura...  Il verbo, letto nella versione della Bibbia CEI in italiano, ci fa comprendere che si tratta solo di allontanarsi da un luogo. Ma l'espressione del comando, tradotta letteralmente dall’ebraico, è significativa: «va' per te dalla tua terra...». Il cammino di Abram non sarà solo un cammino di tipo fisico, ma soprattutto un cammino spirituale. Dovrà viaggiare prima di tutto dentro se stesso.

Si noti anche la pedagogia di Dio: chiede ad Abram di lasciare, in un ordine non casuale, in crescendo, la terra (l'ambiente fisico), la parentela e il padre. Per un nomade non è poi così difficile lasciare la propria terra. Diventa più difficile lasciare la propria tribù, cioè la sua cultura, ogni sicurezza, ogni legame affettivo. Lasciare tutto per andare «...verso la terra che io ti indicherò (lett. “io ti farò vedere”)». In questo cammino Abram farà esperienza della paternità di Dio, una paternità liberante, ben diversa da quella di Terach.

Si noti il contrasto tra la chiarezza di ciò che Abram è chiamato a lasciare e l'oscurità della destinazione. Non è nominato il paese. Non è facile sapere quale strada prendere. Semplicemente Abram deve mettersi in cammino, lasciando il noto per l'ignoto.

Questa è la logica di ogni chiamata: lasciare dietro di sé la sicurezza per addentrarsi nell'ignoto. Non esiste la risposta alla chiamata di Dio con delle sicurezze; esiste solo un affidarsi alla Parola divina, un atto di fiducia nel Dio che chiama. Tutta l’identità di Abramo nasce dal suo perdersi dietro e dentro la Parola di Dio. Lascia tutto per avventurarsi in una avventura divina.

La chiamata, poi, è accompagnata da sette promesse, tutte al futuro: «farò di te un grande popolo, ti benedirò, renderò grande il tuo nome, diventerai benedizione, benedirò coloro che ti benediranno, maledirò chi ti maledirà, in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (vv. 2-3). Promesse che sono accompagnate da una pienezza di benedizione (per cinque volte viene ripetuta la parola “benedizione”), quindi una pienezza di vita. E se Dio promette una “pienezza”, ciò vuol dire che Abramo, riconoscendo un certo vuoto nella sua vita, si sente attratto dalla prospettiva di ciò che Dio gli promette.

 

Ciò che Dio promette ad Abramo

La tradizione rabbinica individua in Gen 12,3-4 sette promesse divine, sette sfaccettature del progetto che Dio si impegna a garantire ad Abramo; ricordiamo che il numero sette indica pienezza. A queste promesse poi si aggiungerà anche un'ottava, quella della terra.

«Farò di te un grande popolo». Da Abramo anziano e da Sara anziana e sterile, Dio farà nascere un popolo «numeroso come la polvere della terra» (13,6) e come le stelle in cielo (cfr. 15,5). È da notare che questa promessa della discendenza contiene anche un motivo di vita contro la morte. Come ben sappiamo i figli erano per l’ebreo (e per l’orientale in genere) quasi il segno della continuazione di sé. Sarà Cristo, il Messia, della stirpe di Abramo, a sconfiggere la morte. «ti benedirò». La benedizione di Dio verrà sperimentata da Abramo come: capacità di generare un figlio (cfr. 21,1-7), possibilità di trovare pascoli fertili per il suo bestiame (cfr. cap. 13), protezione nei momenti di difficoltà di relazione con gli altri (cfr. 12,10-20; cap. 14), l'essere fedele nel momento della prova (cfr 22,16-18), il poter morire «in felice canizie, vecchio e sazio di giorni» (25,8). «Renderò grande il tuo nome». Il Signore si impegna a fare in modo che il nome di Abramo venga ricordato da tutte le generazioni (cfr. Sir 44,19). Per gli ebrei Abramo è «la roccia da cui sono stati tagliati, la cava da cui sono stati estratti» (Is 51,1). Anche per i cristiani il nome di Abramo è fondamentale perché lo considerano «padre nella fede» (Rm 4,16-17), come lo è per i musulmani che lo chiamano Al Kalil = amico di Dio (cfr. Is 41,8).

È da notare la relazione di questo brano con quello della torre di Babele (11,1-9) a motivo del «nome». Questo «nome grande» che Dio promette per Abramo è puro dono divino. Ci troviamo quindi di fronte a due logiche opposte: da una parte l’uomo che conta sulle proprie forze[6]; dall’altro l’uomo che è «grande» perché crede. Abramo credette a questa promessa[7]. La fede rende possibile ciò che umanamente è impossibile.

«Benedirò coloro che ti benediranno». Si noti che la condizione affinché i popoli accolgano la benedizione attraverso Abramo è quella di accettare che Dio abbia scelto lui e non altri. Che sia l'eletto. «coloro che ti malediranno maledirò». Chi, invece, in qualche modo tenterà di eliminare Abramo (e i suoi discendenti) dalla faccia della terra, dovrà fare i conti con la morte. Evidentemente non è Dio che maledice, ma sono i popoli che, rifiutando di accogliere il progetto di Dio, la sua offerta di salvezza in Abramo, entrano (o rimangono) nella morte.

 Se è così, ci si accorge che coloro ai quali è destinata la benedizione hanno anch'essi qualcosa da lasciare, da abbandonare: la bramosia, la gelosia che sbarra l'accesso alla benedizione. La vita, infatti, non può svilupparsi in pienezza in un contesto di rivalità e di concorrenza, ma solo in un contesto di condivisione e di scambio. In questo senso, come Abram deve accettare di abbandonare la sua terra, la sua patria (cultura) e la sua casa per rispondere all'invito di JHWH, chi vuol ricevere la benedizione deve anch'egli sottrarsi alla logica di invia, di bramosia, per non rimanere nella morte.

«e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (promessa ripetuta in 22,1). Abramo è chiamato a diventare benedizione per tutti i popoli (v. 3), strumento quindi di salvezza per l'umanità.

In questa benedizione attraverso Abramo San Paolo vede già contenuta la promessa del Messia. Il mondo intero sarà benedetto («tutte le famiglie della terra») con la sua venuta (cfr. Gal 3,7-9).

Infine possiamo aggiungere un'ultima promessa, l'ottava, che riguarda la terra. Già al v. 1 JWJH aveva parlato della «terra»: «Vattene dalla tua terra... verso la terra che ti farò vedere». In seguito, dopo aver attraversato il paese, quando giunge a Sichem, presso la Quercia di More, riceve la promessa divina: «Alla tua discendenza io darò questo paese» (12,7): promessa ripetuta più avanti, quando, dopo essersi separato da Lot, si stabilisce nel paese di Canaan, il Signore gli dice: «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente. Tutto il paese che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza per sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra... » (13,14-17). L’espressione «alza gli occhi…» non va intesa solo in senso fisico; significa anche che la terra promessa dev’essere accolta con gli occhi della fede. È facile immaginare cosa Abramo avrà visto: una terra collinosa, con poca acqua, e quindi piuttosto sterile. Una terra difesa dai cananei con le armi. Eppure è proprio questa terra che Dio ha deciso di dare ad Abramo, tanto che gli ordina di prenderne visione: «Alzati, percorri il paese in lungo e in largo, perché io lo darò a te» (v. 17). E Abramo obbedisce: «Poi Abram si spostò con le sue tende…» (v. 18).

Infine in 15,18 il Signore gli conferma la promessa («Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate») con un vero e proprio giuramento (cfr. 15,7-20).

 

La risposta di Abramo

Come reagisce Abramo alla Parola di Dio e alle promesse divine che l'accompagnano? Non fa domande, non chiede spiegazioni, non chiede segni che assicurino la veridicità della promessa[8]. La scrittura dice: «Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore...» (12,4). Decide di fidarsi questo Dio che non conosce ma che conosce il suo nome; rischia sulla sua parola, e parte senza tentennamenti.

Per Abramo questa partenza rappresenta come una nuova nascita: il verbo “uscire”, utilizzato alla fine per esprimere la sua partenza («Abram aveva settantacinque anni quando uscì da Carran» - v. 4), è infatti il verbo della nascita quando colui che nasce si trova in posizione di soggetto. E’ un cammino che lo apre alla benedizione, e allo stesso tempo lui stesso sarà strumento di benedizione per gli altri.

La lettera agli Ebrei così commenta questa partenza di Abram: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì, partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (11,8). Si tratta di una fede iniziale, che verrà poi messa alla prova.  E tuttavia è essa a cambiare il corso della storia, facendo della storia umana una storia della salvezza. È una fede che nasce dall’ascolto della Parola, della promessa. Ed è una parola che Abramo porterà sempre dentro di sé. Per questo Abramo, a differenza di Adamo che non obbedisce alla parola («Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi certamente moriresti»: Gen 2,16-17), è padre nella fede. Quando arriverà a Sichem costruirà un altare: è il riconoscimento che il Signore è Colui che dona, e l'uomo è sempre colui che accoglie, risponde nella fede.

Dieci anni dopo, quando il figlio dalla propria moglie Sara non sembra arrivare, Abramo non teme di interrogare Dio, mostrando di non capire. Infatti al Signore che gli si rivela e gli assicura una “grande ricompensa”, Abramo chiede: «Mio Signore, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco... Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede» (Gen 15,2-3). Possiamo immaginare il dramma di Abramo. Abramo, incrociando gli altri clan della Palestina, avrà visto la presenza di figli che continuano a correre per il deserto. Allo stesso modo guardando i residenti, i cananei, avrà visto città piene di eredi che le renderanno ancora più ricche. Per Abramo, invece, Eliezer sembra essere l’unica speranza. Sarà lui a recitare la preghiera funebre al posto di quel primogenito che Abramo ha sognato e che non ha avuto; sarà lui a seppellire Abramo e Sara nel riposo dei padri; sarà lui a ereditare le poche cose di questo povero clan. Come vedete questa è oscurità: è l’oscurità della fede. E tuttavia questa oscurità all’improvviso può squarciarsi, conoscere dei momenti di luce. Segue infatti una nuova assicurazione di Dio: «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle... tale sarà la tua discendenza» (Gen 15,6; promessa rinnovata in 22,17). In 13,16 Dio aveva promesso una discendenza «come la polvere della terra». Ora alla quantità aggiunge la qualità: le stelle del cielo non solo sono numerose, ma anche luminose. Quindi una discendenza gloriosa tra i popoli della terra (cfr. Rm 9,4). I tempi di Dio non sono i tempi degli uomini. Ma non per questo Dio viene meno alla promessa.

Qual è la risposta di Abramo? Qui, in Gen 15,6 a differenza di 12,4 (dove si dice che Abramo parte), di 12,7 (Abramo costruisce un altare[9]) e di 13,18 (Abramo sposta le tende) il testo mette in evidenza un atto interiore del patriarca: egli “credette”, cioè si affidò e il Signore «glielo accreditò come giustizia» (v. 6). Abramo crede: in ebraico il verbo (he’emin) è lo stesso che dà origine all’amen con cui concludiamo le nostre preghiere e significa «appoggiarsi a…», «fidarsi di…». È il verbo della sicurezza. Il patriarca si fida di Dio e della sua parola e a lui consegna se stesso e il suo futuro. Questo gli viene «accreditato»: si tratta di un verbo usato nella Bibbia per indicare i sacrifici validamente celebrati. Il nuovo, vero sacrificio da offrire a Dio è perciò l’atto interiore di fede.

 

La promessa che Dio fa ad ognuno di noi

Queste parole che Dio dice ad Abram riguardano anche noi. Anche noi siamo destinatari di una promessa di pienezza, di benedizione.

In Cristo Gesù, la Parola fattasi carne, Dio ci ha benedetti con ogni grazia. Egli vuole che la nostra vita sia “piena”. Da parte nostra, però, dobbiamo accogliere la sua benedizione con la fede di Abramo, accettare il rischio di “partire”, cioè di rompere il nostro io, con le sue sicurezze, per ritrovarlo più grande. È la rinuncia alla pretesa di autonomia per vivere di un potere preso in prestito, ancorandoci alla reale sorgente di ogni bene. È un vivere di nuovo in dipendenza: dipendenza da Dio, da cui proviene ogni bene. È un decentramento libero, fatto da un io adulto, è un gesto di libertà.

La nostra grandezza e realizzazione deriva dall’esserci legati alla reale sorgente di potenza; la nostra stabilità deriva dall’esserci appoggiati non più alle persone o alle cose (questo è la sfida del «lasciare tutto»), ma al Dio delle persone e delle cose. Potenza e stabilità non più conquistate a gomitate, cercando in tutti i modi di farci spazio nella vita, ma dal dono di Dio.

Ciascuno di noi Dio ha ricevuto o riceverà anche una parola specifica che dobbiamo custodire nel nostro cuore, come ha fatto Maria. È questa parola che personalmente il Signore, come ad Abramo, ci ha rivolto, che specifica la nostra vocazione. È questa parola infallibile la nostra guida nel pellegrinaggio della fede (Sal 118, 105). Come Abramo ci lasciamo condurre dalla Parola del Signore.

La discendenza. Dio ha promesso che Abramo avrà un figlio dalla moglie sterile, avrà una discendenza. Per gli ebrei i figli sono importantissimi, rappresentano la “continuazione” dopo la morte dei genitori. In un certo senso promettere la discendenza vuol dire promettere la vita. Per Abramo questa vita che continua nei figli. Per noi cristiani la vita quella che viene da Dio, quella che è più forte della morte: «Dio… ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio primogenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16; cfr. 3,36; 5,24, 6,40.47, ecc.). E Gesù ci invita calorosamente a desiderare e accogliere da lui questo dono: «Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà» (Gv 6,27).

Ma che cos’è la “vita eterna”? Non è solo la vita nel paradiso, dopo la morte, ma è la vita di Dio che già abita in noi in forza del battesimo, quella vita che vuole espandersi e portare i frutti quando siamo consapevoli di questo dono e lo alimentiamo con una vita vissuta nella grazia del Signore e con i sacramenti. Si chiama “eterna” non perché è la vita biologica che dura all’infinito, ma è la vita con una qualità indistruttibile, la vita dell’Eterno. Dio infatti non risuscita i morti ridonando la vita biologica, ma è un Dio che dà ai vivi che credono in lui questa vita (cfr. Gv 3,15-15.36; 6,40.47). Osservava acutamente papa Benedetto: «Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile». E continua: «Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa “vera vita”; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti. […] Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte»[10].

Inoltre come per Abramo ci è promessa la «terra». Quale terra? Non possiamo non ricordare le parole di Gesù: «Beati i miti perché erediteranno la terra» (Mt 5,5 con citazione di Sal 37,11). Che cos’è questa terra promessa?

- La terra è anzitutto il nostro cuore. Chi sa rispondere al male con la mitezza della beatitudine lo possiede, non si lascia trasportare dalle passioni. Sa mantenere rimanere nella pace e nella serenità. Ma è necessario un cammino, o, meglio, un lavoro di “cura” del proprio cuore. Nella Genesi si narra che Dio affida all’uomo da lui creato il compito di coltivare la terra (cfr. Gen 2,15). Ma – si noti – l’uomo è stato plasmato con l’humus del suolo (cfr. Gen 2,7). Di conseguenza coltivare la terra è anche un segno/invito a coltivarsi. A coltivare il proprio cuore con l’ascolto della Parola di Dio, con la vigilanza, e con l’esercizio delle virtù.

- La terra e gli spazi vitali che abitiamo. Tra il possesso del proprio cuore – con compostezza e mitezza – e il possesso della terra (la famiglia, la comunità, il luogo di lavoro, la città, la patria, la politica, l’economia…la natura) c’è una relazione profonda. Perché si “possiede” come dono da accogliere solo ciò che si ama e si coltiva. 

Il contrario di possedere la terra è contendere spazi. In ogni contesa di spazi si cela un’assenza di mitezza e un desiderio di potere. Esistono contese aperte e contese attutite, non sempre facili da discernere. Ma le distinguiamo con chiarezza a partire dai loro frutti: quelli che hanno desiderio di potere disputano spazi che poi non coltivano. Conquistano ma non fanno, e non lasciano fare ad altri. Accumulano territori – lavori, incarichi, responsabilità… –, ma quando non possono occuparsene loro non può farlo nessun altro, perché non hanno creato una squadra e non hanno lavorato con nessun altro. Ciò deriva dalla mancanza di mitezza nel proprio cuore, dal non aver trovato il proprio spazio, il proprio luogo, e quindi ci si dedica a combattere per quello degli altri. E dopo che lo si è conquistato, lo si lascia andare in rovina. Il violento conquista per poi disprezzare e abbandonare. Il mite, se la sua pace non viene ben accolta, si scuote la polvere dai sandali e se ne va in un’altra città, in un altro posto (cfr. Mt 10,14 e parr).

Per questo il Vangelo dice che solo i miti erediteranno e quindi possederanno la terra perché solo loro sono in grado di amarla e mantenerla a beneficio di tutti. Qui si apre un tema di grande attualità oggi: lo sfruttamento e conservazione dei beni della terra. Su questo fronte i miti sono coloro che abitano la terra senza violentarla o deturparla, vivendo in alleanza con essa, sfruttando i beni con coscienza e cura in quanto la terra non è una preda ma un dono di Dio a beneficio di tutta l’umanità.

- Dio stesso. Infine la terra promessa è Dio stesso. Siamo fatti per Lui e solo lui – come afferma sant’Agostino – può saziare il nostro cuore. La terra promessa è per eccellenza il possesso di Dio, che già inizia nella vita che viviamo (il “già” rimanda ad una pienezza nel futuro (il “non ancora”). Ricordiamoci le parole di Gesù in Gv 14,2-3: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via». Il presente del cristiano è il luogo dell’accoglienza, della continua ricerca di Dio in mezzo alle ambiguità della storia. Non è quindi una terra che si conquista in modo immediato. Per arrivarci occorre passare attraverso paesi stranieri, come fece lo stesso Abramo, che subito dopo si recherà in Egitto. Tendere a questa terra e, insieme scoprire di vivere in terra straniera, ci ricorda come è importante non perdere di vista il “fine” del nostro cammino, lasciandoci “bloccare” da altre realtà, buone in sé, ma che possono divenire – per un affetto disordinato – motivo di ostacolo.

 

Che cosa voglio? Che cosa desidero? Cosa cerco?

C’è un bel brano del Vangelo che può aiutarci a guardare dentro il nostro cuore e chiarire meglio a noi stessi che cosa in realtà voglio, che cosa cerco. Si tratta dell’incontro di Gesù con i primi discepoli in Gv 1,35-42.

Il Battista vede passare davanti a sé Gesù e lo indica, dà una testimonianza per tutti quelli che erano presenti, un annuncio: “Ecco l’agnello di Dio” (v. 36).

Per il Battista i suoi due discepoli (erano tutti quelli che in quel momento aveva con se!) sono l'offerta che fa a Gesù. Egli aveva condiviso trepidante l'attesa, ma ora, quale amico dello sposo, «gioisce di gioia per la voce dello sposo», avverte di dover diminuire, perché lui cresca (cfr. 3,22-36). Non avendo più motivo di trattenere i discepoli, li accompagna fino al dono totale di sé.

L'invito ad offrirsi era giunto ai discepoli attraverso lo sguardo: “Fissando lo sguardo su Gesù che passava” (cfr. v. 36). Quello del Battista è uno sguardo d'intesa e di reciproco riconoscimento. Uno sguardo intenso che, silenziosamente, penetra nell'intimo e svela qualcosa della nascosta identità della Parola fatta carne all'opera nel mondo e nell'uomo. Uno sguardo che indica ai discepoli l'ora di avviarsi, il tempo di mettersi in esodo alla sequela della Parola.

Il Battista, tuttavia, oltre a riconoscere il passaggio, svela ai suoi l'essere stesso di Gesù: “Ecco l'Agnello di Dio”, “Guardate l'Agnello di Dio” (cfr. v. 36). Nella solitudine del secondo giorno l'aveva già riconosciuto come il portatore dello Spirito, «colui che toglie il peccato del mondo» (cfr. 1,29), ma ora lo testimonia di fronte ai suoi. Gesù è l'agnello-servo che purifica gli uomini con la parola di verità, è l'agnello pasquale che dona lo Spirito e ricrea l'umanità nel sangue e nell'acqua (cfr. 19,28-37). Il Battista rende testimonianza a Gesù, servo e agnello, perché anche i suoi discepoli possano vedere quello che lui vede e, abbandonando lo «stare», si affidino al «camminare». Lo sguardo e la parola del Battista sono talmente coinvolgenti che il cuore dei due viene come inondato da una inattesa illuminazione. “I due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù” (v. 37). La sequela di Gesù è proprio la creazione nuova. Per la prima volta, due uomini si staccano da un legame puramente umano per aderire alla comunione con il Figlio di Dio. Tale passaggio è un salto di qualità, una conversione. Attraverso il cammino del discepolo, l'uomo diviene Dio per partecipazione. I due non hanno ancora questa consapevolezza, ma si affidano ad una persona carica di fascino e di mistero. Come autentici discepoli del profeta si riconoscono peccatori, perciò bisognosi anch'essi dell'Agnello di Dio. 

I discepoli iniziano a seguire Gesù e non osano parlargli. Solo ad un certo momento Gesù stesso, voltandosi verso di loro, prende la parola: “Che cosa cercate?” (v. 38).

Sappiamo quanto l'antico Israele abbia desiderato vedere il volto di YHWH: “Mostrami la tua gloria... tu non potrai vedere il mio volto... perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. Ti nasconderò con la mia mano e passerò... Quando sarò passato toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (cfr. Es 33,18-23). Non si può vedere Dio e rimanere in vita. È questa la convinzione che percorre tutto l'Antico Testamento.

Quando i due iniziano a seguirlo, Gesù è di spalle, ma lui stesso si volta e mostra il suo volto: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9). La supplica del salmista si fa compiuta realtà: “Volgiti Signore, un poco, e abbi pietà dei tuoi servi” (Sal 90,13). Ma i due discepoli non sanno ancora che stanno vedendo il volto di Dio.

Gesù, dunque, domanda loro: “Che cercate?”. Sono le prime parole che Gesù pronuncia nel vangelo di Giovanni. Più avanti nel vangelo, il Risorto si volgerà alla Maddalena, dicendo: “Chi cerchi?”. È come se Gesù dicesse: “Cosa cerchi? Cosa ti attendi ma me? Perché mi cerchi? Chi cerchi in verità?”. La sua domanda fa direttamente appello al desiderio profondo di queste persone e vuole che esse esprimano tali desideri.

Che risposta danno i discepoli a Gesù? La seguente: : “Rabbi (che significa maestro), dove abiti?. Esprimono il desiderio di stare a lui vicino, di imparare alla sua scuola di vita. Il termine “dimorare”, infatti, più che l'ambiente materiale, indica la condizione esistenziale e personale in cui uno vive. E Gesù accoglie questo desiderio:

 pronunciando un imperativo e una promessa: “Venite e vedrete”. È l’invito a fare esperienza stando con lui, instaurando con lui una comunione di vita. Allora vedranno. Faranno esperienza di Lui, del seguire Lui con fede.

E noi cosa gli rispondiamo? Che cosa vogliamo davvero?

_____

[1] V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti, Milano 2011, 18.

[2] Ibid, 32-34.

[3] Curiosamente non si dice che prese con sé il figlio Nacor con la moglie Milca. Perché sono rimasti a Ur dei caldei? Forse è una decisione di Nacor di staccarsi da un padre così possessivo? Forse c'è stato un litigio ma per ben altro motivo? La scrittura non ce lo dice.

[4] La tradizione ebraica, invece – ed in questo è seguita dal Corano – sostiene che Abramo è dovuto fuggire da Ur perché aveva urtato la sensibilità religiosa dei suoi concittadini distruggendo le statue delle loro divinità per affermare l'unicità di JHWH.

[5] Terach, infatti, more all'età di 205 anni (Gen 11,32). Aveva 70 anni al momento della nascita di Abram (cfr. Gen 11,26). E Abram aveva 75 anni quando venne chiamato da Dio. Quindi alla chiamata di Abram Terach aveva 145 anni.

[6] Secondo la tradizione ebraica Abramo sarebbe stato gettato nel forno ardente per aver rifiutato l’idolatria (cioè di scrivere il proprio nome sui mattoni che dovevano servire alla costruzione della torre di Babele per avere un «nome» che rimanga in modo perenne – cfr. 11,4 - ; ma grazie all’intervento divino Abramo ne esce indenne. Nel midrash, infatti, leggiamo: «Il Signore fece tremare la terra e fiamme e faville uscirono dal forno, bruciando tutti i curiosi che si assiepavano intorno. Abramo, in cambio, uscì illeso dal forno, senza una sola scottatura».

[7] Il Sal 127 sembra essere un commento al racconto di Babele, individuandone la logica di fondo. L’uomo fatica invano «se il Signore non costruisce la casa» (v. 1). Lo stesso salmo dichiara che «dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo. (..) Beato l’uomo che ne ha piena la faretra…» (vv. 3-4). Questa è la promessa di Dio ad Abramo.

[8] Nel vangelo, invece, il Signore è molto duro con chi chiede continuamente dei segni. Chiama «perversa e adultera» la sua generazione; ad essa darà tuttavia il «segno di Giona» (cfr. Mt 12,39; 16,4).

[9] In questo modo Abramo riconosce come suo il Dio che gli ha parlato e dimostra di credere alla sua promessa. Egli lo fa quattro volte: prima a Sichem (12,7), poi a Betel (12,8; 13,4); a Ebron (13,18) e a Moria (22,9). Abramo sa bene che non sarà lui – secondo la promessa - ad entrare in possesso della terra («Alla tua discendenza io darò questo paese»: 12,7); i suoi discendenti, quando entreranno in paese, sullo stesso altare renderanno grazie al Dio fedele.

[10] Benedetto XVI, La gioia della fede, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012.

Pagina 3 di 4

Contatti

santuarionsdifatima@gmail.com

Please, enter your name
Please, enter your phone number
Please, enter your e-mail address Mail address is not not valid
Please, enter your message
Acconsento al trattamento dei dati ai sensi del DLgs 196/2003 e del Reg. UE 2016/679.
Leggi l'informativa

Iscriviti alla newsletter

Iscriviti alla nostra newsletter: sarai costantemente informato sulle nostre iniziative, eventi, etc...

Donazioni

  • Il Santuario N.S. di Fatima nato per la generosità di tante persone e per chi ha donato tutto per la maggior Gloria di Dio, si sostiene con il contributo libero di quanti devolvono a suo favore offerte. Chi volesse contribuire può farlo:

    IBAN: IT55 G 03069 39450 100000009531

    Banca Intesa San Paolo
    C.C. POSTALE 439018
    intestato Istituto degli Oblati di Maria Vergine, Santuario N.S. di Fatima